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Covid-19, Centri di Ricerca e Trasferimento Tecnologico

di Francesco Saponaro *

Nel dibattito pubblico sui temi economici a seguito della pandemia provocata dal Covid 19 prevalgono le importanti questioni della emergenza sociale e produttiva e delle modalità per assicurare allo Stato le risorse necessarie per intervenire energicamente senza provocare un default delle finanze pubbliche.

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Al fine di progettare il futuro dei nostri sistemi produttivi servono però molto poco gli agognati elicopters money, cioè le politiche che inducono le Banche centrali a stampare moneta e a distribuirla ai cittadini, perché queste politiche non riescono per definizione ad andare al di là di un momentaneo sollievo alla domanda per beni essenziali.

Servono invece ricerca qualificata, trasferimento tecnologico, capacità di innovazione di prodotti e servizi, ingredienti unici, insieme ad un contesto di servizi efficienti, per affrontare la competizione economica delle aziende private, pubbliche o cooperative che siano.

Del resto sono ben noti i punti di forza o di debolezza che da almeno venti anni affliggono la nostra economia produttiva. L’Italia racchiude un forte tessuto produttivo prevalentemente di medie imprese che soprattutto nei settori delle famose quattro A (Alimentare, Arredamento, Abbigliamento, Automazione) assicurano un volume crescente di esportazioni. Nel 2019 quest’ultime ammontavano a circa 475 miliardi (su un totale del Prodotto italiano che supera di poco i 1700 miliardi).

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A fronte di questi aspetti sicuramente positivi abbiamo però accumulato un drammatico ritardo, spesso in compagnia dell’intera Europa, sul fronte avanzato di quelle che gli economisti industriali chiamano tecnologie dirompenti: nel settore dell’elettronica dei semiconduttori non vi è alcuna azienda italiana e solo una europea (la NXP olandese) tra le prime 10 aziende del mondo; nel settore degli smartphone dopo Samsung, Apple e Huawei ci sono altre sei imprese cinesi ed una coreana;in settori come la bioinformatica abbiamo casi incredibili come quello della Beijing, partita nel 1999 come spin off della Università di Pechino ed oggi incontrastato leader mondiale nel suo campo.

Non vi sono dubbi sul fatto che la sfida sulle tecnologie dirompenti passi attraverso la perfetta integrazione tra la ricerca superiore e le grandi aziende sostenuta da politiche pubbliche mirate. Ma l’altro grosso problema italiano è il notissimo fenomeno della frammentazione imprenditoriale e delle piccole dimensioni aziendali. Siamo l’unico tra i grandi paesi industriali ad avere il 95% del tessuto produttivo composto da piccole imprese. Questo aspetto, per quanto nasconda anche fenomeni importanti di eccellenza aziendale, nel suo insieme concorre a quella vera e propria caduta libera dell’Italia nella graduatoria dell’indice di complessità delle economie, dove siamo passati dal 19° posto dei primi anni Novanta al 28° posto mentre la Cina passava dal 42° al 26° posto.

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E lo stesso fenomeno spiega un apparente paradosso italiano, quello per cui registriamo un posizionamento internazionale abbastanza positivo per le pubblicazioni scientifiche ed una collocazione assai inferiore per numero di brevetti, spese private in ricerca e sviluppo, indici di competitività nei settori a maggiore intensità tecnologica. E questo si ripercuote negativamente sulla occupazione qualificata.

Chiaramente in presenza di questo tessuto micro imprenditoriale è più difficile che i risultati della ricerca applicata si diffondano in modo pervasivo. Ma vale anche che è stato fatto troppo poco per promuovere le politiche di trasferimento tecnologico. Da anni guardiamo con invidia alle altre esperienze europee, a partire dagli organismi di ricerca e trasferimento tedeschi, i famosi Fraunhofer Gesellschaft ma non riusciamo ad intervenire in modo efficace per accorciare le distanze.

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In questo quadro si inserisce positivamente l’articolo 42 del Decreto Rilancio varato dal Governo. Esso prevede un Fondo di Trasferimento Tecnologico di 500 milioni per il 2020 destinati a creare nuove aziende innovative o finanziare produzioni innovative di aziende esistenti. Il coordinamento delle iniziative è stato affidato all’ENEA, agenzia pubblica che funge da braccio operativo del Ministero dello Sviluppo Economico. L’ENEA dovrà a sua volta costituire una Fondazione chiamata ENEA Tech, che potrà raccogliere capitali pubblici e privati partendo da una dotazione iniziale di 12 milioni.

La decisione del Governo potrebbe finalmente assicurare quel coordinamento e integrazione delle iniziative in materia di sostegno alla innovazione, che finora il Ministero della Ricerca ha ampiamente dimostrato di non saper fare. Si è levata una sola critica fino ad oggi, quella del professor Mario Calderini del Politecnico di Milano (su Repubblica del 21 maggio), relativa al ruolo ancora non chiaro delle Università e al presunto “modello centralizzato” della iniziativa.

green Francesco Saponaro, presidente Cetma

Questi rilievi sono quanto meno prematuri in quanto ritengo che la costituenda Fondazione dovrà cooperare per statuto con le Università ed anche con altri Enti territoriali, ed inoltre va detto che l’ENEA, oltre ad essere la scelta più lineare anche sul piano giuridico- formale, abbia già dimostrato un modo di operare articolato sul piano territoriale come dimostra, per restare al Salento, la grossa presenza di un Laboratorio Enea all’interno della Cittadella, il confronto con la Regione per localizzare nello stesso sito un Centro di Competenza sulla Economia Circolare ed infine la presenza del Consorzio CETMA di Brindisi fondato proprio da ENEA e dall’Università del Salento.

Durante le giornate di celebrazione dei 25 anni dalla fondazione del CETMA sono stati diffusi dati molto significativi sulle performance del Consorzio, che attualmente ha superato il numero di mille progetti realizzati al servizio delle imprese ed in proporzione al numero degli addetti (65 unità) risulta tra i primi 5 Organismi di Ricerca a livello nazionale per la dimensione dei progetti di trasferimento tecnologico.

*presidente organismo di ricerca Cetma

 

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