Covid-19 e Fase 2, l'agorà virtuale de 'La Giusta Causa' - Affaritaliani.it

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Covid-19 e Fase 2, l'agorà virtuale de 'La Giusta Causa'

di Petrocelli Francesco

Le dirette online dell'Associazione 'La Giusta Causa' in tempi di Coronavirus. L'intervista al presidente Michele Laforgia.

Alle crepe strutturali e ai drammi sociali messi ferocemente a nudo dalla pandemia si può rispondere solo collettivamente, tornando al confronto e alle idee. Anche con queste finalità nasce il ciclo di dirette online, con un focus sullo stato dell’arte del mondo dell’istruzione e dell’università, organizzato dall’associazione “La Giusta Causa”.

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Un’agorà virtuale che ha preso vita con il tentativo di “mantenere, senza alcuna presunzione, la discussione pubblica ad un livello minimo di profondità”, ci spiega il penalista Michele Laforgia, Presidente del movimento.

Avvocato, proprio in questi giorni qualcuno ha parlato di minaccia alle libertà costituzionali.

Non vedo all’orizzonte grandi pericoli costituzionali, a dire il vero. È frequente che si discuta di mettere mano alla Costituzione, ed in un periodo di emergenza sanitaria il fatto che alcuni passaggi del Governo non siano stati ineccepibili è vero, ma non è il dato più rilevante. Il problema è un altro ed è più squisitamente politico.

Cioè?

Tutti parlano di virus, ma spesso non c’è un’idea su come ne vogliamo venire fuori. Nel lockdown abbiamo tenuto aperte alcune attività, ma abbiamo messo da parte le strutture fondamentali del sistema democratico: l’istruzione e la giustizia. Occorre riportarle al centro di ogni riflessione.

Per farlo avremo bisogno di nuovi strumenti?

In parte è così, non si può pensare al futuro con un atteggiamento conservatore. Certo, l’epidemia ha accelerato i processi di alfabetizzazione tecnologica, ma è indubbio che ci siano elementi discutibili e radicalmente sbagliati. Basti pensare a ciò che sta succedendo con la giustizia. Come si può immaginare una fase 2 senza la ripresa dell’attività giudiziaria nei tribunali, che sono luoghi di lavoro come gli altri ed oggi più che mai rivestono una funzione essenziale per lo Stato? C’è il rischio che non ci siano regole. E senza una visione si potrebbe rimanere immobili anche per un anno.

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Ed il processo telematico?

Non vedo la possibilità di trasferire l’intera giustizia online, e non solo per un problema di funzionalità e difetti pratici. Il processo ha una funzione simbolica, è un rito violento, lo Stato esercita il suo potere esclusivo. Se cediamo sempre all’idea di semplificare la società finiamo per sgretolare le colonne portanti. La mancanza di amministrazione della giustizia può non apparire come un’emergenza del quotidiano, ma i danni sono irreparabili, a lungo andare. Qui a Bari, poi, abbiamo a fatica superato il lockdown nelle tende dei mesi scorsi. E la soluzione ponte con cui ci siamo tirati su ora si mostra inidonea. Dovremmo reagire, con un po’ di dedizione alla causa.

Rimanendo nel perimetro della giustizia, Lei stesso ha sottolineato come, adesso, il tema della cessione dei dati personali non vada trascurato. È anche questa una cifra per leggere questo tempo?

Per molti è ancora una questione astratta, trascurabile, quasi un orpello della vita civile. In realtà è l’esatto contrario, la riservatezza è la base del nostro rapporto con il potere pubblico. Ed ecco l’interrogativo essenziale: fino a che punto il governo può dettare i miei comportamenti individuali? Vanno delineati dei confini, per due ragioni. La prima è di carattere ideologico, ed è che la modernità ci ha drammaticamente insegnato a non sottovalutare l’idea di tracciare un limite.

E la seconda?

Ha una portata più pratica. Soprattutto in questa fase avremo sempre più bisogno di poter contare su una interdipendenza delle responsabilità, e cioè che la mia sicurezza dipenda anche dalle decisioni degli altri. Ma il comportamento di ciascuno di noi non può essere solo coartato da una morale pubblica approvata dal decreto della settimana che stabilisce quali siano gli affetti più o meno stabili. La nostra priorità dev’essere quella di formare cittadini responsabili e consapevoli.

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È questa formazione l’obiettivo delle iniziative de “La Giusta Causa”?

È il tema che ci siamo posti in epoca non sospetta, dopo il risultato delle politiche di marzo 2018, che hanno visto come tratto distintivo quello della povertà e delle disuguaglianze. La prima esperienza in campagna elettorale mi ha insegnato molto, a partire dal significato di parlare alla gente, tra la gente. Ci siamo detti che il discorso pubblico si era disastrosamente impoverito, come l’etica e la cultura diffusa. E che forse era arrivato il momento di tornare a discutere delle questioni essenziali, al di fuori della propaganda del consenso. Ed è ciò che stiamo facendo, riflettendo sul capitalismo della sorveglianza, sui dati, ma anche sulle tragedie internazionali, come le migrazioni, oggi dimenticate. E sono tutti aspetti che tornano con forza nell’emergenza.

A proposito, anche alla luce di queste tematiche, stiamo assistendo ad una frenata della retorica dell’ottimismo?

Il nodo è sempre quello. Serve un nuovo lavoro nella società e noi, con la forma antica della formazione politica e del movimento culturale, proviamo a riaprire un dialogo che coinvolga i cittadini nelle loro scelte individuali e generali. Diversamente sarà difficile risollevarsi. Il Covid può essere inquadrato come un gigantesco test di sistema, abbiamo affidato il dibattito ai grandi temi, tra tutti, della virologia e dell’economia. A questo deve corrispondere una crescita morale di ognuno di noi. Per tirarci fuori da questo pantano serve stare insieme con uno sforzo collettivo.

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La via d’uscita, dunque, sta in una nuova forma di solidarietà?

Noi siamo già una comunità, fuori dalle regole dei partiti e delle competizioni. È necessario aggregarsi perché non si può gestire questa situazione senza corpi intermedi capaci di elaborare idee e rappresentare interessi. Il primato delle task-force è la radiografia dell’esistente: dimostra che non c’è una produzione collettiva di idee, basta vedere il ruolo mortificato degli atenei. È il prezzo che paghiamo per aver spostato le nostre risorse fuori dai centri pubblici di elaborazione del sapere, ma le università mantengono alcune eccellenze, nonostante tutto. A questo punto però rimangono delle perplessità

Quali?

Il settore pubblico ha perso terreno, è fuori discussione, ma si può ipotizzare una partenza della fase 2 con un manager che discute da Londra delle emergenze sanitarie del Paese? Gran parte dei componenti della task-force, poi, non si è mossa dalle proprie città. Ecco, dovremmo affermare con chiarezza che il sapere non è neutro né rarefatto e che, se la nostra società produce ancora sapere, forse c’è qualche anello dell’attuale organizzazione che non funziona troppo bene.

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Per Carlo Rovelli questa pandemia sarà una “lezione di umiltà”. Insomma, una nuova presa di coscienza.

Non so se saremo in grado di trarre le giuste conseguenze. Andrebbe ripensato il nostro rapporto con la natura, che non può essere più predatorio. La natura si sta riappropriando dei suoi spazi, del territorio, dell’aria, delle città. Ci sono poi le criticità che riguardano il mercato, che è un sistema di regolazione che non funziona e non solo in condizioni di emergenza. I dispositivi di protezione individuale sono diventati introvabili perché tutti realizzati in Cina. Ed il loro valore si è centuplicato. La lezione è chiara, gli spiriti animali del mercato non possono più governare l’economia. Poi ci siamo noi, ma questo è un tema diverso.

DISUGUAGLIANZE

Diverso?

La storia è sorretta dalle idee quando queste hanno un senso. Dove sono i soggetti che cambieranno il volto della società? Come si stanno organizzando le forze che proporranno un paradigma diverso? Il timore è che non ci siano ed il problema, alla radice, sono sempre i difetti della formazione pubblica. le scuole e le università sono i primi luoghi dove si combatte la disuguaglianza. Da lì deve partire il movimento reale che cambia l’ordine delle cose. Questa esigenza oggi è avvertita da tutti, ma dopo rischia di affievolirsi.

Non abbiamo ancora sviluppato gli ‘anticorpi’ per affrontare il reale?

La trama è così complessa che nessuno di noi riesce ancora a leggerla fino in fondo. Nel nostro manifesto avevamo già scritto che è un errore ragionare solo sulla povertà economica. Le povertà passano dal fatto che la nostra società è fortemente diseguale proprio nel grado di conoscenza e di rapporto con la realtà. Sempre meno persone hanno consapevolezza del proprio ruolo e dilaga un analfabetismo diffuso che passa anche con forme di trasmissione del sapere che annullano lo spirito critico. Va impostata una riflessione epocale sull’uso e sulle conseguenze della tecnologia individuale, che è in mano a molte multinazionali. Se pensiamo che l’app sviluppata dal Governo è di Google… La rivoluzione deve passare da qui, da una nuova consapevolezza comune.