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Giuseppina De Simone: 'Consegnare la fede alle generazioni future'

Proseguono presso il Castello Svevo di Bari i lavori dell'Incontro "Mediterraneo, frontiera di pace" (19-23 febbraio 2020). La giornata odierna si apre con la riflessione della teologa Giuseppina De Simone, sul quale a seguire verteranno i Tavoli di conversazione tra i Vescovi partecipanti.

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Osservate i suoi baluardi, passate in rassegna le sue fortezze, per narrare alla generazione futura.

Questo è il Signore, nostro Dio in eterno, sempre:egli è colui che ci guida. (Ps 47)

Le riflessioni che propongo nascono dal confronto maturato all’interno del Comitato che ha organizzato questo incontro e soprattutto dall’ascolto delle voci dei vescovi, raccolte nella fase preparatoria, e dalla lettura dei contributi dei monasteri femminili di Paesi affacciati sul Mare Nostrum che hanno accompagnato con la loro preghiera il cammino che ci ha portati qui. Un materiale ricchissimo[1] che attesta quanto la grazia di Dio operi nelle nostre Chiese suscitando esperienze, intuizioni, aperture del cuore che, pur nelle innegabili difficoltà, disegnano già percorsi di pace nel nome del Signore Gesù e quanto il Mediterraneo abbia da dire e da offrire in ordine a un rinnovato annuncio del Vangelo.

Ci interroghiamo allora, prima di tutto, su come consegnare la fede nel Signore Gesù alle giovani generazioni, su come la traditio fidei può continuare ad essere un fiume vivo e vivificante in questo mare di mezzo e nelle terre che su di esso si affacciano. Lo faremo partendo dal contesto, dalla considerazione della situazione religiosa rilevabile nei Paesi del Mediterraneo, per poi confrontarci sulle vie e sui luoghi privilegiati per la traditio fidei. E man mano che la nostra riflessione si andrà costruendo, scopriremo nella mediterraneità che ci unisce un patrimonio di esperienza e una modalità di pensiero capaci di ridare freschezza e incisività alla testimonianza della fede.

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Il contesto

Partiamo da una considerazione che può sembrare ovvia: il Mediterraneo è un contesto plurale e complesso. Lo è anche in rapporto all’esperienza religiosa, alla presenza del fatto religioso nelle sue caratteristiche e nelle sue molteplici implicazioni.

I Paesi del Mediterraneo vivono una situazione religiosa molto differenziata. Ci sono certamente i Paesi dell’Europa occidentale attraversati dalla secolarizzazione nei suoi esiti contemporanei. Ma la secolarizzazione tocca anche i Paesi dell’est capaci di custodire la presenza cristiana persino durante gli anni bui della dittatura comunista e, in forme diverse, pure le terre d’Oriente e i Paesi del Nord Africa, apparentemente immuni, per cultura e tradizione, rispetto ad ogni separazione tra ciò che è di Dio e ciò che è degli uomini.

Frutto della secolarizzazione non è però propriamente l’indifferenza nei confronti della religione - anche quando ciò che dà senso alla vita è ricercato a prescindere da Dio -, e non è neppure la totale eclissi del sacro; si tratta piuttosto di una metamorfosi del sacro, di una profonda trasformazione rilevabile anche nel modo di vivere la fede. Si crede o non crede a partire da scelte sempre rimodulabili che riguardano il che cosa, il come e per quanto tempo: una sorta di vestito che ci si cuce addosso[2]. In quella che Taylor chiama «l’epoca dell’autenticità»[3], si assume come vero ciò che si avverte corrispondere alla propria esigenza di realizzazione e di orientamento personale. Sempre più la ricerca spirituale e l’esperienza religiosa si costruiscono fuori del recinto delle istituzioni, disegnando comunità mobili in cui alla forza di coinvolgimento emotivo corrisponde spesso la labilità dei legami. È il credere senza appartenere fino in fondo, o sentendosi parte per il tempo di una emozione[4].

In tal senso le dinamiche della secolarizzazione avanzata non appaiono in contraddizione con il recupero delle forme di devozione popolare che si registra a livello diffuso. Pellegrinaggi e culto dei santuari esercitano un’attrattiva crescente che vede insieme non solo persone di estrazione sociale e di livello culturale differente, ma talvolta anche persone di fedi religiose diverse. È come se il sacro, nella forma della devozione, non solo resistesse a ogni secolarizzazione tesa a neutralizzarne la forza di incidenza, ma negasse nelle sue forme più essenziali ogni barriera e distinzione identitaria. C’è una domanda di salvezza e c’è un’esperienza di Dio che la devozione popolare, nel suo carattere trasversale, restituisce e che sfugge ad ogni forma di razionalizzazione, spesso componendosi, tra l’altro, con pratiche di vita e competenze che si iscrivono perfettamente nell’ordine di una gestione tecnica e secolare dell’esistenza[5].

A questo recupero delle forme della tradizione, anche fuori degli schemi canonici dell’istituzione religiosa, concorrono in Africa in particolare le dinamiche di un post colonialismo che mal sopporta una certa identificazione del cristianesimo con l’imporsi della cultura occidentale e la relativa marginalizzazione o negazione della cultura locale ridotta a puro tribalismo.

Ma il Mediterraneo è anche luogo del riemergere di preoccupanti istanze teocratiche. Non solo in quei Paesi del Medio Oriente o dell’Africa che vivono una crescente islamizzazione dello Stato e il potere devastante di organizzazioni terroristiche, o in alcuni Paesi dell’est Europa, ma pure nei Paesi occidentali che sperimentano un tempo di disorientamento a partire dalla crisi del sistema economico e delle istituzioni democratiche e che rispondono ai flussi migratori irrigidendo i confini, chiudendo porti e valichi e negando ogni possibilità di accoglienza che comporti un reale confronto e la messa in movimento del sistema sociale. Quando tutto traballa «ci si aggrappa alla corda di Dio»[6] per affermare disperatamente la propria identità, e anche in terre dove la convivenza pacifica tra etnie e tradizioni diverse era quotidianità, si invoca, in maniera implicita o esplicita, una «pulizia etnica» ammantata di sacralità e di difesa delle proprie tradizioni. E un patrimonio di umanità si frantuma, proprio come i templi, gli edifici, le opere d’arte fatte saltare in aria e come le case distrutte in alcuni luoghi. Il fondamentalismo ovunque si dia e qualunque sia la forma in cui prende corpo, anche quando si fa strada nella vita della Chiesa, è sempre una sconfitta della fede e una negazione della capacità umanizzante dell’esperienza di Dio.

Una nota particolare meritano poi quelle situazioni in cui, pur senza toccare gli estremi del fondamentalismo, la religione viene a coincidere totalmente con la tradizione nazionale per un processo storico culturale o sotto la spinta di strumentalizzazioni politiche. Qui il senso di appartenenza è forte, o almeno si vorrebbe tale, ma la dimensione religiosa rischia di rimanere «ad uno stato primitivo»: in molti casi «non c’è una ricerca di approfondimento a livello personale», «la fede viene espressa solo attraverso gesti simbolici» mentre la vita di fatto segue tutt’altri stili.

Portato tanto dei fondamentalismi religiosi quanto, in alcuni casi, del processo di razionalizzazione messo in atto dalla modernità, è poi la messa in discussione, troppo spesso drammatica, della libertà religiosa. È il mancato riconoscimento della libertà di esprimere la propria fede, il mancato rispetto delle scelte che ne derivano, ma ancor di più la persecuzione, o anche la semplice discriminazione - che nei confronti dei cristiani sta conoscendo una crescita esponenziale nell’indifferenza generale - e il martirio di molti, cristiani e non solo, uccisi unicamente a motivo della loro fede.

C’è sicuramente da chiedersi il perché del diffondersi di questi fatti e il perché di tanta indifferenza. Quando si nega la libertà religiosa si calpesta in realtà un diritto che è un bene inestimabile per tutti[7]. La libertà di credere e di professare la propria fede è il diritto da cui nascono tutti gli altri diritti, perché è la libertà della coscienza nel suo nucleo più profondo. Una libertà che va riconosciuta a tutti: ai cristiani e ai credenti di altra tradizione religiosa; perché è solo nel rispetto della diversità delle fedi, così come dell’assenza di una fede, che si afferma il senso profondo dell’umano e si può vivere un’autentica esperienza di Dio. 

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Quali vie per la trasmissione della fede

In questo contesto ci chiediamo come consegnare la fede alle generazioni future? Se lo chiedono i vescovi, preoccupati del fatto che si è prodotta «una rottura nella trasmissione generazionale della fede cristiana» e che «i giovani si allontanano dalla Chiesa», ma è la comunità ecclesiale, sono le nostre comunità che devono porsi questo interrogativo. La domanda riguarda prima di tutto quale fede consegniamo, perché è la qualità e la sostanza della nostra fede che sono in gioco nella possibilità di una consegna che continui di generazione in generazione, di mano in mano. Il come dipende dal che cosa. Ed è la stessa fede in Gesù Cristo che, se ritrovata nel suo nucleo essenziale, ci indica le vie da seguire, i criteri da assumere.

I criteri di fondo

  1. Si tratta prima di tutto di partire dal kerigma, dal cuore della nostra fede che è l’incarnazione, morte e resurrezione del Signore Gesù e, da qui, accogliere la logica da seguire. È l’assoluta vicinanza del mistero santo rivelata a noi nell’incarnazione del Verbo ed è la vittoria sulla morte in ogni sua forma, divenuta per noi realtà nella Resurrezione, ciò che siamo chiamati a testimoniare e ad annunciare con coraggio. È il Vangelo della inaudita prossimità di Dio e della liberazione in radice da ogni nostra paura ciò che dobbiamo consegnare alle giovani generazioni. Non un Dio lontano, non un sistema di idee inattaccabile e coerente, ma un Dio che ama l’uomo di un amore infinito, che è in se stesso amore, pienezza di comunione; un Dio che non si è fermato dinanzi al nostro peccato ma ha preso su di sé le nostre fragilità liberandoci per sempre dal male che schiaccia le nostre vite; un Dio che si è lasciato incontrare facendosi carne ed evento e che continua a farsi incontro sulle vie della storia. È la logica dell’Incarnazione e della Pasqua che deve ispirare ogni nostro gesto, disegnare il nostro stile, generare ogni nostra parola nell’annuncio del Vangelo.
  2. Questo vuol dire mettere al centro l’esperienza. La fede è esperienza e come tale ha bisogno di essere presentata, di essere testimoniata con semplicità e in maniera limpida. L’annuncio passa attraverso l’esperienza e aiuta a leggere l’esperienza, quella propria di ciascuno e quella condivisa. La fede in Cristo Gesù è principio di un’ermeneutica della storia, della storia vissuta, che consente di cogliere tra le pieghe degli eventi e nel cammino dei popoli la presenza dell’amore trinitario e l’azione dello Spirito. È quella che La Pira chiamava «storiografia del profondo»[8], una ermeneutica che è discernimento e che è fatta di ascolto. Valgono per tutte le nostre comunità ecclesiali le indicazioni che il papa ha dato a Napoli lo scorso giugno per un rinnovamento della teologia. Ci è chiesto di «ascoltare la storia e il vissuto dei popoli […] per poterne decifrare le vicende che collegano il passato all’oggi e per poterne cogliere le ferite insieme con le potenzialità»[9], di essere «etnografi spirituali», di saper arrivare cioè «là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli»[10] per poter dialogare con tutti «in profondità», per avviare processi di riconciliazione e di pace, dando vita così a «nuove narrazioni»[11]. Ma questo discernimento, che è fatto di ascolto, non può che essere fatto stando in mezzo alla gente - al popolo, come ama dire papa Francesco - impastati come comunità ecclesiale nella vita del popolo, sapendo partire dalla sua esperienza di fede accolta nelle sue carenze e nelle sue ricchezze.
  3. Di qui l’altro criterio che discende dal cuore stesso della nostra fede e che la mediterraneità compresa alla luce del Vangelo invita a praticare: «Rovesciare le crociate» secondo la bella espressione di Giorgio La Pira[12], il che vuol dire abbandonarne per sempre la logica. Crocevia di popoli, di culture e di religioni, il Mediterraneo da sempre attesta l’interdipendenza dei popoli come un dato di realtà di cui prendere coscienza. Le culture che si sono sviluppate sulle sue sponde sono il frutto di contaminazioni feconde maturate persino negli scontri e nei conflitti che l’hanno attraversato. Il Mediterraneo è il mare del meticciato che ci ricorda come non ci sia identità senza l’altro. Per i credenti in Cristo Gesù è tempo di uscire da schemi di contrapposizione e di testimoniare una fede che è di per sé accogliente. Siamo chiamati ad essere «Chiesa dell’incontro», a «disarmare i cuori» ad abbattere «i muri dell’odio e della discordia», nella consapevolezza della universale fraternità umana e nel riconoscimento della grande libertà di Dio che agisce anche al di fuori del cristianesimo.

Le dimensioni di senso

Alla ricerca di un linguaggio che ridia slancio e freschezza all’annuncio del Vangelo e consenta la consegna della fede alle giovani generazioni proviamo a chiederci allora se esiste un modo di vivere l’esperienza religiosa e l’esperienza di fede che è proprio del Mediterraneo. Essere Chiese che abitano fino in fondo queste terre, ritrovando la fierezza della propria mediterraneità, impone una riflessione di questo tipo. Se attentamente considerata l’esperienza di fede dei popoli del Mediterraneo restituisce dimensioni di senso che appartengono alla sostanza della nostra fede in Gesù Cristo e che possono essere altrettante vie attraverso le quali riproporre l’annuncio. Il punto d’osservazione privilegiato è dato dalla fede popolare, una fede incarnata nella storia, semplice e concreta, in cui la celebrazione degli eventi dell’esistenza umana si incontra con la devozione e la pratica religiosa. Fuori da prospettive ideologiche di qualsivoglia segno, «popolo» o «popolare» dice qui il riferimento conciliare alla Chiesa popolo di Dio in cui il sensus fidelium è luogo di verità cui lo stesso Magistero deve attingere nell’annuncio della fede.

La pietà popolare non è semplicemente uno spazio di traduzione e di elaborazione elementare dei contenuti della fede. Essa è «luogo teologico», in cui questi stessi contenuti emergono con immediatezza e secondo una modalità che non ha eguali, un ambito in cui siamo chiamati a imparare dallo Spirito che è all’opera, una risorsa da riscoprire per un rinnovato slancio missionario. Certamente la religiosità popolare è chiamata, in un dialogo costante, «a inverarsi nella relazione con il mistero di Cristo morto e risorto», ma l’annuncio del Vangelo non può e non deve prescindere dal fatto che «nelle nostre radici, non solo e non tanto in quelle individuali ma anche in quelle culturali e quindi popolari, è contenuta una ricchezza, un patrimonio che dovremmo costantemente riscoprire […]. La novità del Vangelo non consiste nella ricerca di avventurosi percorsi sradicati dal nostro passato, ma nella capacità di ritrovare in esso il senso e la bellezza della nostra fede»[13].

Ora l’esperienza di fede mediterranea appare caratterizzata prima di tutto dalla capacità di tenere insieme una complessità di elementi in una dialettica non esclusiva ma inclusiva. Essa esprime la ricerca incessante di comunione, pur nella irrisolta tensione, tra individuo e comunità; tra memoria e creatività; tra unità e pluralità; tra uomo e creato; tra terra e mare; tra le tenebre del dramma e la solarità della festa.

Questo accade perché il suo primo tratto di specificità è la forza del sentire, il coinvolgimento dell’affettività che non interviene a margine, in spazi residuali dell’esperienza, ma al cuore di questa, come ciò attraverso cui si dà la percezione della realtà e l’elaborazione del sapere. La fede dei popoli mediterranei è fatta di un pathos che non nega di per sé la ragione, ma la dilata e la radica nella vita così com’è nella sua drammaticità e nei suoi slanci, un pathos che è intuizione dell’infinito dentro le cose, concretissima esperienza della provvidenza di Dio e del mistero del male fuori da ogni schematizzazione razionalizzante. Anche le espressioni della fede, il linguaggio simbolico attraverso cui viene comunicata e celebrata implicano un forte coinvolgimento della sensorialità: hanno dentro i colori, la luce, i profumi della terra e del mare, della vita quotidiana nella sua fisicità; e le pratiche religiose, a qualsiasi livello si diano, coinvolgono la corporeità investita in radice dalla relazione con Dio.

Senza volerne assolutamente tacere le fragilità e i rischi, vale la pena lasciarsi interrogare da questa specificità e provare a riflettere su quanto essa ci inviti a ritrovare la tonalità calda dell’annuncio, nello stile che è proprio di Gesù, superando la freddezza di una razionalità astratta e una certa «idolatria del concetto» insinuatasi anche nelle nostre catechesi e accentuata talvolta dalla paura di contaminazioni del vero.

Altro tratto caratterizzante l’esperienza religiosa dei popoli del Mediterraneo è il forte senso di comunità. La fede popolare esprime plasticamente quella socialità che è propria della gente mediterranea e che si lascia avvertire nella contrattazione prolungata al mercato, nella vivacità dei cortili e dei vicoli, nella forza che, nonostante tutto permane, dei legami familiari e parentali. La fede popolare è qui sempre chiaramente comunitaria, nasce dal tessuto delle relazioni sociali e ad esse rimanda, in una fitta trama di legami che si innervano su un preciso territorio e in una ritualità che aggrega e disegna una comune identità.

C’è da chiedersi se questo non possa costituire un antidoto rispetto a forme di esasperata individualizzazione del credere e se la dimensione relazionale che attesta non incontri in maniera significativa quel desiderio di comunità che emerge sempre più fortemente tra i giovani resistendo ad ogni funzionalizzazione dei rapporti. Ma anche se non sia un richiamo al valore delle relazioni che è dentro l’annuncio del Vangelo; se non sia un richiamo alla necessità per la Chiesa di avvertirsi e di lasciarsi avvertire come comunità, tra la gente, fatta di volti, di storie, di cammini che si intrecciano, di sostegno reciproco, di condivisione e di una solidarietà che si allarga. Se questo non sia un richiamo alle nostre Chiese a vivere quella tensione alla comunione senza di cui il Vangelo rischia di svuotarsi di senso e dalla quale viene invece la credibilità dell’annuncio. La comunione tra Chiese di Paesi diversi, la comunione tra Chiese cattoliche di differente rito, ma anche la tessitura di legami di condivisione con le differenti confessioni cristiane, senza mai smettere di credere che ritrovare l’unità del volto di Cristo è possibile, anche quando non mancano difficoltà e tensioni.

Veniamo così ad un altro tratto della religiosità mediterranea che è tutt’uno con la sostanza della fede cristiana, ma che appartiene trasversalmente alle tre grandi tradizioni monoteistiche: l’ospitalità. Nella dialettica tra ospitalità e ostilità che attraversa l’esperienza religiosa come esperienza dell’assoluto e del vero, la religiosità mediterranea tende di per sé a privilegiare l’ospitalità a partire dal valore propriamente mediterraneo dell’accoglienza e dal dettato della fede. Basta pensare alle tante esperienze di accoglienza dello straniero e di convivenza pacifica tra persone di fede diversa che hanno visto e ancora vedono coinvolta la gente comune nella semplicità dei gesti quotidiani, al di là di ogni forzata contrapposizione ideologica e politica, e che sono vissute non mettendo tra parentesi la propria fede ma proprio a partire da questa. Per l’islam come per l’ebraismo l’ospite è sacro. Nella rivelazione biblica lo straniero e l’ospite sono manifestazioni della presenza divina. E nel cristianesimo l’accoglienza dell’altro come fratello sgorga dal cuore stesso della Pasqua del Signore Gesù che ha distrutto in sé stesso l’inimicizia (cfr. Ef 2,15)[14].

Siamo dinanzi alla via maestra dell’annuncio del Vangelo. Accogliere l’altro spalancare le porte del cuore, costruire una cultura dell’incontro, trame di dialogo e di fraternità vissuta come accade in tanti dei Paesi da cui veniamo. Accogliersi reciprocamente.

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Nella tradizione di fede dei popoli del Mediterraneo si avverte dunque tutta la ricchezza della mediterraneità, si coglie con chiarezza quanto essa sia il frutto di sedimentazioni e di scambi e come il Vangelo abbia agito e agisca ancora quale fermento capace di far emergere ciò che di bello di vero e di santo c’è nel cammino dei popoli orientandolo verso la costruzione di un mondo fraterno. E questa tradizione di fede si esprime attraverso un linguaggio che è anch’esso da riscoprire e da accogliere nella sua portata di senso e nella sua forza comunicativa. È il linguaggio simbolico, un linguaggio che aderisce alla vita lasciandone intravedere la sporgenza di infinito, un linguaggio e un pensiero semi-incarnato[15], che non separa ma unisce, che non si preoccupa di distinguere e di definire perché sa cogliere i nessi più profondi del reale, che non teme il limite della ragione perché esprime una sapienza donata che dilata la ragione spezzandone ogni pretesa autosufficienza. Il linguaggio simbolico è un linguaggio che mette in relazione, che custodisce il mistero, ha il respiro della trascendenza, e che ridisegna attraverso le trame di un senso donato lo spazio e il tempo abitati dagli uomini. È il linguaggio del paradosso del Vangelo, il linguaggio dell’Incarnazione e della sacramentalità della fede[16], un linguaggio che abbiamo bisogno di recuperare.

Questo linguaggio nei Paesi del Mediterraneo si incontra ad ogni passo: nella configurazione dei territori, nella struttura originaria dei centri urbani, nelle colture, nei cibi e soprattutto nell’arte. Il patrimonio artistico dei nostri Paesi, nei suoi differenti livelli fino ad arrivare alle espressioni artistiche della pietà popolare, racconta, attraverso la forza del linguaggio simbolico, una fede vissuta che è più solida e più profonda degli arzigogolati discorsi mediante cui pensiamo talvolta di poterne difendere la purezza, ed è una fede che si fa accogliente della fede degli altri nell’esperienza dell’unico Dio. Il linguaggio simbolico è il linguaggio del dialogo e dell’accoglienza perché sa di esprimere una verità che ci supera.

Sbaglierebbe però chi pensasse tutto questo in alternativa alla capacità speculativa. Sappiamo bene che il Mediterraneo non è soltanto la culla delle tre grandi religioni ma anche lo spazio geografico in cui ha avuto origine il pensiero filosofico nella sua forma greca, è lo spazio di una elaborazione intellettuale che ha conosciuto, nei secoli, livelli altissimi nella discussione filosofica, nella ricerca scientifica, nella definizione giuridica. La finezza del pensiero che discute, esplora, argomenta è un patrimonio che appartiene al Mediterraneo e che non bisogna disperdere, un pensiero sicuramente non estraneo al Vangelo e profondamente attratto da esso, un pensiero che si è nutrito di contemplazione. La fede che vogliamo trasmettere ha bisogno del pensiero: ha bisogno di essere una fede pensata, e ha bisogno di continuare ad alimentare il pensiero. Ma il Mediterraneo insegna che si può pensare la vita e la realtà senza ridurle a teorema e che le interconnessioni e il senso della complessità valgono più di ogni schema di analisi. Una lezione che forse anche la teologia potrebbe accogliere ritrovando una via «mediterranea» di elaborazione.

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I «luoghi» privilegiati per la traditio fidei

Alla luce della riflessione fin qui sviluppata possiamo ora chiederci quali sono i «luoghi» della traditio fidei, dove più propriamente avviene e può avvenire l’annuncio del Vangelo?

La risposta è data nei racconti dei vescovi del Mediterraneo[17], ma viene anche dai monasteri femminili coinvolti in maniera singolare nel cammino che ha preparato questo incontro[18], ed è nelle esperienze che lo Spirito suscita al di là di ogni nostra immaginazione.

  • La libertà profetica dell’essere minoranza

È soprattutto lì dove la Chiesa cattolica è minoranza che troviamo le esperienze più significative. Una Chiesa che non è preoccupata di occupare o difendere spazi di potere e che ritrova l’essenziale della fede. In questi Paesi dove spesso la loro stessa esistenza è messa a rischio, le comunità ecclesiali sono «un esempio di fedeltà al Vangelo».

Sono Chiese di minoranza, ma dal carattere universale (Algeria, Libia, Grecia, Marocco…). Un pullulare di lingue, culture, etnie. Comunità ecclesiali multiculturali. Come accade in Grecia, dove il numero dei cattolici si è quadruplicato negli ultimi anni: «Una Chiesa per lo più di immigrati che la rendono viva e vitale». O in Turchia dove i profughi cristiani, che i giochi dei potenti hanno portato lì, sono «persone che hanno perso tutto ma sono rimasti fedeli a Cristo e sono portatori di antiche e significative tradizioni». Ma anche in Marocco dove i cattolici provengono da oltre 100 Paesi e da tutti i continenti e dove l’impegno è «incontrarsi, conoscersi, rispettarsi, amarsi» trasformare le differenze in arricchimento, e testimoniare con la vita che «l’umanità è una famiglia, la famiglia dei figli di Dio». Perché in fondo «non è questo evangelizzare?».

In questi Paesi le comunità ecclesiali hanno il volto di «una Chiesa che si spende per il Vangelo attraverso le umili vie del servizio e della testimonianza»; che tesse «reti di incontro e di scambio», che è dalla parte degli ultimi e dei poveri.

Una Chiesa che non si preoccupa di fare proselitismo, ma di testimoniare un Dio che «è gioia e perdono», stimolando «tutte le persone che vengono da noi a essere cordiali a saper perdonare». Perché è questa la prima conversione: quella del cuore e dell’esistenza.

Una Chiesa che vuole aiutare a «capire che la religione è amore, fraternità, rispetto della vita e dell’altro» e che non si stanca di dire «che essere fratelli è possibile».

Il luogo più proprio per la traditio fidei è una Chiesa che sa «osare la pace» e che ritrova «la responsabilità di uno sguardo profetico»[19].

Una Chiesa che sa che «se lasciamo che il futuro venga da sé, […] nessun futuro ci sarà concesso», e che c’è bisogno di «andarci incontro l’un l’altro con le mani colme delle diverse eredità»[20] perché «il Mediterraneo torni ad essere un faro di fraternità e non un cimitero».

  • La forza generatrice del martirio

Una simile testimonianza richiede però che si sappia percorrere la via della croce: la via del dono incondizionato e della condivisione senza riserve. È la via del martirio che ha i nomi e i volti dei monaci di Tibhirine, di Mons. Pierre Claverie, di Don Andrea Santoro, di Charles de Foucauld, dei martiri albanesi e di quelli della Chiesa copta: persone che hanno condiviso fino in fondo la vita e la sorte del popolo in mezzo al quale erano stati chiamati ad annunciare il Vangelo[21], che non hanno lasciato la terra dove il Signore li aveva condotti neppure di fronte al crescere della violenza, che hanno continuato a testimoniare l’amore e la stima per la loro gente, rimanendo lì, fino alla fine, con tutti gli altri. Persone «che hanno vissuto con le mani aperte» che «non si sono mosse contro nessuno, ma solo per la vita degli altri».

Colpisce nel racconto dei cristiani che continuano a vivere nelle terre martirizzate dalla violenza del fanatismo il senso profondo di questa condivisione. Ed è per questo, forse, che lì dove le vite dei martiri sono state spezzate la testimonianza del Vangelo non si è interrotta, ma continua a passare, come testimonianza di dialogo e di fraternità possibile, di mano in mano, unendo ancora vite e fedi diverse.

Ed è per questo stesso motivo che il loro martirio ci rende attenti anche alla sorte dei tanti «martiri del Mediterraneo» in fuga dalla miseria e dalla guerra, strappandoci al rischio dell’assuefazione e dell’indifferenza. «La testimonianza dei martiri cristiani incoraggia i fedeli di oggi, che ancora ne conservano la memoria, a non tacere la verità, a non temere di professarla, a non cedere al male per paura, ad allargare i propri orizzonti aprendosi alla relazione con fratelli di altre fedi» per consegnare un mondo migliore alle generazioni future.

  • L’educazione e la formazione delle coscienze

Essere Chiesa dell’incontro, audace testimone di un Vangelo di fraternità e di dialogo esige però che si abbia il coraggio della formazione. Ed è questo l’altro luogo privilegiato della traditio fidei.

Scegliere con determinazione la via dell’educazione è il più grande segno di speranza ma è anche un’urgenza: la prima necessità che si impone, «la prima sfida». L’urgenza «di itinerari formativi per una fede apostolica» e per una fede consapevole, promuovendo il protagonismo dei laici. E la necessità di una formazione per imparare a vivere insieme. Perché l’incontro e l’integrazione tra le diversità richiedono un lavoro paziente che aiuti prima di tutto ad attraversare le paure: la paura di perdere la propria identità, la paura che cambino le cose, la paura di lasciarsi cambiare. L’integrazione tra diversi «va voluta, preparata, accompagnata». Occorre investire in progetti di formazione e studio a lungo termine, creare spazi e occasioni per favorire gli scambi tra le persone e la circolazione del pensiero, perché «è una ricchezza enorme quando il nostro pensiero può confrontarsi con chi è diverso da noi», ma anche la circolazione delle diverse narrazioni di fede. E insieme al pensiero, è importante «far circolare anche la bellezza: la bellezza delle espressioni artistiche di ogni tradizione culturale e religiosa perché apprezzare la bellezza aiuta a riconoscere e smascherare ciò che è brutto: in primo luogo la violenza».

Per disarmare i fanatismi e «disinnescare mine» occorre un impegno formativo serio che generi sensibilità relazionale e metta in movimento le energie spirituali. «La formazione per rafforzare la convivenza democratica è fondamentale» perché è la mancanza di conoscenza che genera la diffidenza e la sfiducia. Negare l’istruzione favorisce l’estremismo. Mentre invece «studiare fianco a fianco con chi ha una fede diversa è una maniera positiva di costruire un avvenire riconciliato».

Lo attestano l’esperienza delle scuole interetniche di Sarajevo, l’impegno formativo della Chiesa in Terra Santa, il lavoro educativo che nella semplicità viene portato avanti da parrocchie e ordini religiosi in tanti luoghi del Mediterraneo e che è per tutti senza distinzione alcuna.

«Le opere cattoliche in ambito sanitario, educativo o sociale sono un avamposto di incontro e provano che la fraternità non è un’utopia».

  • Dalla parte degli ultimi e dei poveri

La Chiesa che trasmette il Vangelo di mano in mano e di vita in vita è dunque una Chiesa che sta «in mezzo» come questo mare su cui si affacciano i nostri Paesi. È la Chiesa del «tra» che unisce anche chi si vorrebbe destinato ad essere separato, che non si stanca di essere presenza orante di intercessione per tutti, che si fa carico delle sofferenze di tutti ma soprattutto di chi non ha voce. È la Chiesa che cercata, sa farsi trovare al suo posto, che non smette di denunciare le ingiustizie, le violenze e gli egoismi. Una Chiesa che sta dalla parte degli ultimi e dei poveri. Che sa raccontare il bene perché sa quanta ricchezza c’è nella vita della gente, specie di quella che apparentemente non conta nulla. Che più di altri sa avvertire le lacerazioni e scorgere sfumature di speranza nel tessuto della comunità umana, perché il suo punto di vista non è quello dei forti ma dei deboli: dal basso dunque e dal di dentro. È una Chiesa che sa fare spazio giorno per giorno al regno di Dio che viene, con umiltà e speranza.

«Si racconta che i cervi, quando vogliono recarsi al pascolo in certe isole lontane dalla costa, per attraversare la lingua di mare che li separa poggiano la testa sulla schiena altrui. Succede così che uno soltanto, quello che apre la fila, tiene alta la propria testa senza appoggiarla sugli altri; quando però egli si è stancato, si toglie dal davanti e si mette per ultimo, sicché anche lui può appoggiarsi sul compagno. In questo modo tutti insieme portano i loro pesi e giungono alla meta desiderata: non affondano, perché la carità fa loro come da nave»[22].

Il Signore ci dia di essere, come Chiesa, questa carità che fa da nave, così che, portando insieme i pesi della nostra gente e appoggiando ciascuno la testa sull’altro, possiamo procedere insieme verso la meta da tutti desiderata e rendere il Mediterraneo «lo spazio più luminoso della terra»[23].

 

[1] Nel testo della relazione questo materiale, che è possibile ritrovare sul sito ufficiale dell’incontro: https://www.mediterraneodipace.it/, verrà riportato tra virgolette.

[2] Cfr. L. Berzano, Quarta secolarizzazione: autonomia degli stili, Milano, Mimesis, 2018.

[3] Cfr. C. Taylor, L’età secolare, ed.it. a cura di P. Costa, Milano, Feltrinelli, 2009, 595 ss.

[4] Cfr. E. Pace, Una religiosità senza religioni. Spirito, mente e corpo nella cultura olistica contemporanea, Napoli, Guida, 2015.

[5] Cfr. P. Berger, I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo, tr. it. M. Mansuelli, Torino, Emi, 2017.

[6] E. Pace, Il dialogo religioso in un tempo di conflitti, in Studia Patavina 59, 2012, p. 683.

[7] Commissione Teologica Internazionale, La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee, 26 aprile 2019. Cfr. G. Dalla Torre (a cura di), Libertà religiosa vo cercando (Dossier), in Dialoghi XIX n.76 ottobre-dicembre 2019.

[8] Cfr. R. Doni, Giorgio La Pira profeta di dialogo e di pace, Roma, ed. Paoline, 2004, p. 151.

[9] Discorso di papa Francesco alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Napoli 21 giugno 2019, http://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/june/documents/papa-francesco_20190621_teologia-napoli.html.

[10] Ibidem

[11] Ibidem. Si veda in merito P. Di Luccio - F.Ramirez Fueyo, Teologia e rinnovamento degli studi ecclesiastici. Papa Francesco a Posillipo, 21 giugno 2019, in La Civiltà Cattolica 2019 III 471-481 |4062, 7 sett/5 ott 2019.

[12] Cfr. F. Mandreoli - M. Giovannoni, Spazio europeo e mediterraneo. Le analisi profetiche di Dossetti e La Pira, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2019. «Siamo chiamati ad essere un vaccino contro ogni tentazione di scontro di civiltà o di utilizzo ideologico dell’identità religiosa per dividere o innalzare muri» (Card. Gualtiero Bassetti, Prolusione al convegno «Il Mediterraneo, frontiera di pace», Campobasso 8 gennaio 2020, https://www.mediterraneodipace.it/senza-pace-nel-mediterraneo-non-ci-potra-mai-essere-uneuropa-stabilmente-in-pace/).

 

[13] E. Salvatore, Arte sacra e territorio, in G. De Simone (ed.) La devozione popolare tra Arte e Teologia, Chieti, 2019, p. 63. Cfr. C. Torcivia - E. Salvatore, Quando a credere è il popolo, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2019.

[14] Cfr. M. Dal Corso (ed.), Teologia dell’ospitalità, Brescia, Queriniana, 2019.

[15] Cfr. G. Gusdorf, Mythe et métaphyisique, Paris, Flammarion, 1963.

[16] Cfr. G. Lorizio, La logica del paradosso, Città del Vaticano, Lateran University Press, 2001.

[17] Si vedano in particolare le significative interviste raccolte dagli organi ufficiali di informazione della Cei, riportate sul sito dell’incontro https://www.mediterraneodipace.it/, e qui di seguito ampiamente citate.

[18] Si veda Mediterraneo Frontiera di pace. La riflessione delle comunità monastiche di vita contemplativa, https://www.mediterraneodipace.it/. Anche a questa riflessione si è ampiamente attinto. Si tratta di «osservazioni frutto di una capacità di entrare nell’umano e nella storia così approfondita e lungimirante che soltanto la contemplazione del Signore permette di avere» (Card. Gualtiero Bassetti, Conferenza stampa, Roma 12 febbraio 2020, https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/bari-mediterraneo).

[19] Consiglio Episcopale Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, Comunicato finale 23-25 settembre 2019, https://www.chiesacattolica.it/per-la-vita-e-la-dignita/.

[20] E. Balducci, L’uomo planetario, Milano, Camunia, 1985; nuova edizione, Firenze, Giunti Editore, 2005.

[21] Mons. P. Desfarges, La beatificazione dei nostri fratelli e sorelle, una grazia per la nostra Chiesa per la beatificazione dei 19 martiri di Algeria, 2018, https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2018-11/lettera-mons-defarges-beatificazione-19-martiti-algeria.html.

[22] Agostino, Esposizione sul Salmo 129, Opera omnia, vol. XXVIII/1, Roma, Città Nuova, 1977.

[23] G. La Pira, Lettera al presidente egiziano Nasser, in M.P. Giovannoni, Il grande lago di Tiberiade. Lettere di Giorgio La Pira per la pace nel Mediterraneo 1954-1977, Firenze, ed. Polistampa, 2006.

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