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Il salotto delle idee - Rospi (PP): 'Taranto, acciaio verde: ora o mai più!'

di Gianluca Rospi *

“H”. In una lettera può esserci la chiave di volta per risolvere gli atavici problemi che attanagliano la città di Taranto, soprattutto adesso che il 60% del capitale dell’Ilva è ritornato nelle mani dello Stato.

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Il governo Draghi dovrà gestire questa nuova fase, legata alla rinazionalizzazione dell’impianto siderurgico più grande d’Europa e alla sua riconversione: un’impresa titanica, perché dovrà essere economicamente sostenibile per lo Stato, oculata per l’industria nazionale, rispettosa del territorio e dell’ambiente, accettabile per l’occupazione, innovativa nel suo sviluppo.

Dunque, “H” di idrogeno: è arrivato il momento che la politica percorra la via maestra della conversione verde, per la produzione del metallo più usato al mondo (causando oggi circa l’8% delle emissioni da combustibili fossili) ma anche il più riutilizzato, perfetto per l’economia circolare così agognata dall’Occidente.

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Puntare su una produzione di acciaio green, attraverso una svolta verde del polo siderurgico tarantino, sarebbe un bel biglietto da visita in vista della conferenza sul clima COP26 del prossimo novembre e co-presieduta dall’Italia, considerando che Bruxelles pone come obiettivo la neutralità carbonica entro il 2050.

La svolta passa dall’idrogeno, l’elemento conosciuto più abbondante dell’universo e presente in natura quasi sempre legato ad altri atomi in composti come l'acqua (H2O). Oggi l’energia per produrre acciaio in un altoforno è fornita dal carbone che, bruciando, fonde il minerale di ferro per trasformarlo in ghisa liquida; con l’idrogeno si potrebbe sostituire il carbone all’interno dell’altoforno eliminando tutto l’inquinamento legato al ciclo del combustibile fossile (polveri, diossine, anidride carbonica, ecc.).

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L'obiettivo è usarlo al posto del carbone nella prima fase della produzione, tra le più inquinanti, sottraendo l’ossigeno al minerale; combinandosi a sua volta con l'ossigeno, l’idrogeno condurrebbe alla produzione di semplice vapore acqueo come sottoprodotto chimico. Inoltre, l’idrogeno alimenterebbe anche una fornace a riduzione diretta (di solito alimentata a gas naturale o carbone) per ottenere un acciaio “spugnoso”, uno stato intermedio da raffinare in un forno elettrico.

Nel mondo soltanto tre impianti siderurgici stanno sperimentando questa tecnologia (gli svedesi di SSAB, gli austriaci di voestalpine e ArcelorMittal in Germania). Il modello è perseguibile solo nelle nazioni che producono la maggior parte dell’energia da fonti rinnovabili, altrimenti si tornerebbe al punto di partenza utilizzando i combustibili fossili per produrre idrogeno.

Ex Ilva di Taranto

Certo, l’utilizzo dell’idrogeno, almeno inizialmente, impatterebbe dal 20% al 30% in più sul costo dell’acciaio, motivo per cui il governo, se punterà su un’Ilva a idrogeno, dovrà delineare un mosaico di ricerca, investimenti e agevolazioni sul tema. Peraltro, se la paventata “carbon tax” fosse realmente introdotta per le produzioni più inquinanti, si potrebbero indirizzare i relativi proventi proprio per incentivare l’impiego dell’idrogeno su scala industriale.

Secondo alcune stime l’investimento necessario per rendere green lo stabilimento di Taranto, approvvigionamento energetico compreso, si aggirerebbe intorno ai 6 miliardi di euro, consentendo una produzione annuale fra sei e sette milioni di tonnellate di acciaio. Ipotizzando una marginalità di 100 euro per ogni tonnellata di prodotto, la riconversione verde permetterebbe di rientrare in toto dall’intero investimento iniziale in un decennio.

Il Recovery Fund, con i suoi 50 miliardi di euro per sostenere la transizione energetica rappresenta, dunque, un’opportunità unica per cavalcare la prospettiva ‘idrogeno’, a mio avviso più lungimirante del mero rifacimento dell’altoforno 5, e della costruzione del forno elettrico, previsti dall’accordo Invitalia-ArcelorMittal.

Ilva decarbonizzare

Ampliando il ventaglio delle proposte per il rilancio del territorio tarantino non si può prescindere dalla ZES ionica, nella quale possono intravedersi opportunità di sviluppo che meritano alcune riflessioni. Accorre lavorare per creare le condizioni affinché si sviluppi in quel territorio un distretto altamente tecnologico funzionale alla riconversione green dell’ex Italsider, creando un unicum a livello europeo? Insieme all’insediamento di un polo logistico per la trasformazione o l’assemblaggio di merci in arrivo nella Città dei due mari dalle rotte di Suez e del Medio Oriente?  

Sicuramente incentivi fiscali, semplificazione amministrativa e Zona economica speciale possono allettare molte aziende interessate ai vantaggi delle ZES, tuttavia solo un progetto di ampio respiro potrà fare la differenza.

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Un progetto che non potrà prescindere da un porto sempre più snodo logistico, strategico e nevralgico per il sud Italia, il sud Europa e, in prospettiva, per l’intera area del Mediterraneo. Le risorse europee, quindi, siano destinate anche alla creazione nel Mezzogiorno di una piattaforma logistica del sud Europa tecnologicamente avanzata, attraverso lo sviluppo delle zone retroportuali del capoluogo ionico e di Gioia Tauro, altro importante porto del sud Italia, da mettere a sistema con i principali porti italiani, Augusta, Genova e Trieste.

Una rete in grado di aprire una porta nel Meridione europeo e di intercettare milioni di tonnellate di merci che oggi, superato il canale di Suez, fanno rotta verso il Nord Europa o il nuovo porto Tangeri Med del Marocco, inaugurato nel 2007 e in continua espansione. Una rete che dovrà avvalersi di infrastrutture ferroviarie e stradali decisamente potenziate, in un sistema di trasporto intermodale ‘mare-ferro’ green ed efficiente.

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In quest’ottica si incastona il potenziamento delle ‘Ten-T’, le reti di trasporto trans-europee e l’accelerazione sul fronte dell’alta velocità e dell’alta capacità. Mi riferisco, in primis, al completamento della dorsale adriatica nel tratto Ancona-Foggia, non compreso nell’attuale programmazione europea ma che l’Italia dovrebbe sostenere nella proposta di revisione prevista nel corso del 2021; è, infatti, un asse strategico anche per il trasporto merci, perché caratterizzato da basse pendenze e meno gallerie rispetto al lato tirrenico.

Indispensabile anche il potenziamento delle dorsali Salerno-Palermo e Napoli-Bari-Taranto-Lecce, anch’esse tratte fondamentali per dare risposte al crescente traffico passeggeri e merci. L’itinerario marittimo-ferroviario lungo il versante adriatico-ionico raccorderebbe i porti del sud Italia concretizzando anche un rapido collegamento verso nord, in una catena intermodale integrata ed efficiente, porta d’ingresso ai paesi balcanici e dell’est Europa.

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Purtroppo, l’assetto attuale della rete Ten-T Core nell’Italia peninsulare è servito unicamente dal corridoio Scandinavia-Mediterraneo, lasciando scoperte tre tratte del sistema infrastrutturale multimodale adriatico-ionico (Ancona-Foggia, Bari-Lecce, Paola-Taranto) dall’alta valenza strategica e sistemica. Un corridoio adriatico-ionico maggiormente infrastrutturato consentirebbe di redistribuire il traffico sulla direttrice Nord-Sud, evitando fenomeni di saturazione in corrispondenza degli snodi principali.

Gli investimenti in infrastrutture materiali e immateriali sono fondamentali per garantire lo sviluppo economico di un territorio e le risorse in arrivo dall’Unione Europea rappresentano un’opportunità imperdibile.

Tuttavia, il Recovery Plan approntato dal Governo Conte prevedeva soltanto sette miliardi di euro per il trasporto pubblico in tutta Italia, cifra del tutto insufficiente se davvero si vuole ridurre il gap infrastrutturale, tecnologico e sociale tra Nord e Sud dello Stivale. Perché o lo si riduce adesso o non lo si riduce più.

Onorevole e presidente Popolo Protagonista

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