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Pasolini e la difesa del libro di testo (di Trifone Gargano)
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È in uscita, per le Edizioni Radici Future, il mio libro "PPP. Pasolini Prima di Pasolini", nel quale racconto, tra le altre cose, del Pasolini professore di scuola, e di alcuni suoi articoli sui metodi insegnamento apprendimento, sul ruolo della poesia nelle attività didattiche, sulle emozioni come motore dell’apprendimento, e sui libri di testo, in quanto strumento didattico fondamentale (e libero).

Nei primi anni Cinquanta, sostenere che l’insegnamento dovesse suscitare nei ragazzi emozioni e curiosità era come parlare cinese. Eppure, Pier Paolo Pasolini (1922-1975), a Valvasone (in Friuli), e a Ciampino (a pochi chilometri da Roma), nelle sue due brevi (ma intensissime) esperienze di professore di letteratura, grammatica italiana, e calcio, lo sosteneva e, soprattutto, lo praticava, come docente fuori dal comune. Aveva iniziato a «fare scuola» già a Versuta, nei pressi di Casarsa, nel 1943, a soli 21 anni, con sua madre, per tutti quei ragazzi che non potevano raggiungere la sede scolastica, per via dei frequenti bombardamenti, e li accoglieva in casa, seguendoli negli studi («Io e mia madre divenimmo i loro maestri»).

Questa vocazione didattica di Pier Paolo Pasolini l’aveva notata, come costante dell’intera sua esistenza e dell’intera sua produzione artistica, con grande acutezza Enzo Golino, scrivendone, anni fa, in uno dei saggi più belli a lui dedicati, Pasolini. Il sogno di una cosa, Bompiani 1985. Lo scrittore e giornalista Golino, infatti, aveva sottolineato, in quel saggio, quanto l’intera vita di Pier Paolo Pasolini fosse stata tutta «percorsa da una divorante ansia didattica» (p. 5), ovviamente, anche, al di là dei mesi e degli anni strettamente e direttamente caratterizzati dagli incarichi didattici. Golino ha definito la vocazione didattica di Pasolini come una "imperiosa necessità interiore" (p. 10), cha ha attraversato non solo tutta la sua vita, ma anche le sue opere, trovando nelle sceneggiature cinematografiche, e nei romanzi, forme di sublimazione creativa.

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La scuola della nuova Italia, appena uscita dalla guerra e dal ventennio fascista, andava tutta inventata. Compresi, ovviamente, i libri di testo, una volta archiviata la dittatura autarchica del libro unico della scuola di regime. L’esperienza didattica più lunga e significativa fu svolta da Pasolini nel Comune di Ciampino, una volta trasferitosi a Roma, agli inizi del 1950, con sua madre. Prese, infatti, servizio nel mese di dicembre del 1951, come professore di Lettere, presso la scuola media parificata «Francesco Petrarca», e vi restò fino al mese di dicembre del 1954, per tre anni scolastici interi.

A Ciampino, tra i suoi allievi, ebbe Vincenzo Cerami (1940-2013), ch’era stato bocciato l’anno prima, e che gli fu affidato con una certa apprensione. Futuro scrittore, giornalista e sceneggiatore, Cerami ha ricordato, del Pasolini insegnate, quanto segnasse in blu, negli scritti dei suoi alunni, banalità e luoghi comuni, stimolandoli a essere sempre teste pensanti e critiche, teste ben fatte e divergenti (diremmo, con lessico contemporaneo). Tra il 1947 e il 1949, aveva insegnato nella scuola media di Valvasone, sede staccata di Pordenone, dove non solo aveva curato la formazione linguistico-letteraria dei suoi studenti, ma aveva svolto anche la funzione dell’allenatore di calcio. Il calcio, infatti, era sempre stata la grande passione sportiva di Pasolini, grande tifoso del Bologna. Memorabile, direi leggendaria, la partita disputata a Parma, con gli undici di Pasolini (che si trovava lì per girare il film Salò e le 120 giornate di Sodoma), contro gli undici di Bernardo Bertolucci (1941-2018), suo ex aiuto-regista (impegnato a girare, in quelle stesse settimane, da quelle parti, il film Novecento).

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La scuola media unica e i nuovi programmi d’insegnamento sarebbero arrivati soltanto nel 1963, con mille contraddizioni, che Pasolini, puntualmente, intravide, prima di tanti altri, segnalandoli e denunciandoli, con articoli e con interventi pubblici memorabili, giungendo anche ad affermare, con quel suo inimitabile piglio polemico, intriso di affermazioni paradossali provocatorie, che quella scuola, e quei programmi, così concepiti, classisti e selettivi, altro non fossero che lo strumento del genocidio popolare, a suo giudizio, già devastante, nella società italiana. Un genocidio che, poi, anche altri intellettuali avrebbero visto e compreso, ma con decenni di ritardo, rispetto all’intuizione profetica di Pasolini, il quale giunse a suggerire che tanto valesse chiuderla quella scuola media unica, visto che produceva simili nefasti effetti.

Nel 1965, la natura classista e selettiva, nient’affatto accogliente, di quella nuova scuola media l’avrebbe compresa e denunciata anche il priore di Barbiana, don Lorenzo Milani, in Lettera a una professoressa, dal momento che, quella scuola, a giudizio di don Milani, agiva, nei confronti dei figli dei contadini e degli operai, alla stessa maniera di una porta girevole d’albergo, facendoli, sì, entrare, ma, dopo un solo giro di giostra, dopo un solo anno scolastico, li bocciava, e li scaraventava fuori. Anche la voce di don Lorenzo Milani non fu ascoltata, e, peggio, il suo modello di scuola democratica e popolare, a Barbiana, esigente e rigorosa, ma accogliente e inclusiva, fu ignorato (se non deriso).

Con riferimento alla sua esperienza didattica, Pasolini scrisse alcune riflessioni, contenuti in articoli pubblicati su giornali di provincia, sul senso autentico del fare scuola, sulla natura e sul valore dei libri di testo, sull’educazione al bello e alla poesia, sul ruolo del docente, e su tanto altro ancora, che sono, oggi, a rileggerli a distanza di più di settant’anni, appaiono ancora di grande e sorprendente modernità. Dalla lettura di questi articoli di Pasolini, quelle che sono le sue prime riflessioni, e che, poi, sarebbero stati visti come il segno tangibile di quella sua «naturale vocazione pedagogica», proseguita anche negli anni della maturità, e al di fuori della scuola come istituzione, attraverso i romanzi, gli articoli giornalistici, i film, gli interventi e le interviste, intellettuale sempre acuto, corsaro e critico, disilluso sul suo e sul nostro futuro, ma con uno sguardo sempre lucido e rigoroso, ma mai cinico, emergono proposte metodologico-didattiche di grande attualità.

Nei ricordi di una sua collega insegnante, presso la scuola media di Valvasone, Elda Schierano, Pasolini a scuola, per tutti, cioè, per gli studenti, ma anche per i colleghi, era il «5 P» (Professore, Poeta, Pier, Paolo, Pasolini). Anche a noi, uomini e donne di scuola di oggi, piace ricordarlo così, come il «5 P», del quale avvertiamo tutto il dramma dell’assenza, e non solo nel mondo della scuola, che, a dispetto dei decenni trascorsi, delle tante riforme e contro-riforme tentate e attuate (dai programmi "Brocca", degli anni Ottanta del XX secolo, giù giù, fino alla così detta "Buona Scuola", del 2015), non ha ancora afferrato la portata autentica di quelle riflessioni pasoliniane (e, poi, anche donmilaniane), sul senso della vocazione didattica, in un tempo, com’è il nostro, nel quale la scuola ha smarrito molte di quelle idealità, immeschinita dal danaro (meglio sarebbe dire dagli spiccioli) dei vari corsi e corsetti Pon, e dei fasulli Pcto (Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento, regolati dalla Legge 145/2018). La sua mancanza, la sua assenza, lucida e corsara, la si avverte anche all’interno del più complessivo panorama intellettuale italiano contemporaneo, sempre più asfittico e sterile (orribilmente omologato).

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Le riflessioni didattiche di Pasolini sono riflessioni integrali, che riguardano cioè sia gli stili dell’insegnamento, i metodi, i tempi, ma anche gli strumenti, compresi, ovviamente, i libri di testo, come si legge nell’articolo Scolari e libri di testo, apparso su «Il Mattino del Popolo» (26.XI.2947). Tra fine Ottocento e primo Novecento, altri intellettuali, oltre a Francesco De Sanctis, e cioè Benedetto Croce, Giosuè Carducci, lo stesso Antonio Gramsci, ancorché rinchiuso nelle carceri fasciste, avevano svolto le loro riflessioni, offrendo, nel contempo, ciascuno da par suo, esemplificazioni didattiche, che avrebbero fatto scuola, nel senso che avrebbero segnato un aurorale canone delle future storie e antologie letterarie dei Classici italiani. Testo canonico, per decenni, fu la Storia delle letteratura italiana di Francesco Flora, di formazione crociana (e antifascista, fu, infatti, tra i pochi a non prendere la tessera al PNF, e quindi a rifiutare la cattedra universitaria, andando a dirigere la rivista «La critica», succedendo allo stesso Benedetto Croce, fondatore della rivista e suo maestro), pubblicata da Mondadori nel 1940, e più volte ristampata. Così pure la Storia della letteratura italiana di Attilio Momigliano, del 1932.

Come si può notare, da queste mie brevi considerazioni, analoghe furono le preoccupazioni del giovanissimo professore Pasolini, contenute nell’articolo del 1947, Scolari e libri di testo, sull’Italia bambina, appena liberata dal Fascismo, per la quale andava ripensato e costruito tutto, finanche i libri di testo. Nel 1939, l’allora ministro Bottai aveva compiuto una ulteriore stretta, in termini di libertà d’insegnamento, e di libri di testo, all’interno dei quali, al di là del contenuto, veniva esaltato unicamente il Fascismo, la sua storia, e veniva creato il mito del Duce. Bottai fece approvare la "Carta della Scuola", per la realizzazione integrale dello stato fascista, attraverso la scuola, disciplinando, in modo rigido, ordinamenti, orari, insegnamenti e libri di testo, dalla materna all’università. Nella scelta dei libri di testo, che, nel frattempo, erano stati, comunque, sottoposti alla revisione da parte del Regime Fascista (definita la «bonifica» dei libri), venne via via mortificata (e annullata del tutto) la tradizionale libertà dell’insegnante, nella scelta del manuale scolastico da adottare, con l’imposizione, a più livelli, del libro unico (di regime). Sotto questa luce, dunque, vanno lette le riflessioni di Pasolini, anche quelle più tecniche e minute, come, per esempio, il passaggio sulla necessità di dare nuova veste tipografica ai libri sui miti, e altro ancora.

Riflessioni, suggerimenti e proposte, quelle di Pasolini, che mantengono, per molti aspetti, tutta la loro freschezza e attualità, nonostante i decenni  trascorsi, specie oggi, con il rischio sempre incombente del pensiero unico dominante, con le quotidiane aggressioni alle libertà costituzionali, con il coevo dibattito intorno alla natura digitale dei manuali di testo, e con la conseguente dismissione (o ridimensionamento) del tradizionale supporto cartaceo, che non si esaurisce nella mera sostituzione meccanica dell’oggetto libro, ma che, evidentemente, va ben oltre, e che prefigura forme e modalità inedite di produzione, fruizione e conservazione delle opere letterarie.

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