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Premio Saggistica 'P. Tatarella' Giuria popolare per la finale

Sul palcoscenico e nella cornice del Teatro Petruzzelli si terrà, domenica 22 maggio, a partire dalle ore 18.00, la serata finale del Premio nazionale di saggistica politica “Pinuccio Tatarella” promosso dal Comune di Bari, dalla Regione Puglia e dall’Università degli Studi Aldo Moro di Bari.

Premio Tatarella finalisti2
 

Saranno Giorgio Lauro e Claudio Sabelli Fioretti, autori e conduttori del programma radiofonico cult di RaiRadio2 Un giorno da pecora ad animare la serata, nel corso della quale il duo Ebernies - l’“orchestrina” di “Un giorno da Pecora”, composta da Rachele Brancatisano e Serena Pagnani - proporrà le sue “interviste canore”, mentre i docenti universitari baresi Letizia Carrera e Paolo Stefanì leggeranno alcune pagine tratte dai tre saggi finalisti.

Come noto, i finalisti individuati dalla giuria del Premio - presieduta da Marcello Masi (Tg2) e composta da Corrado Augias (la Repubblica), Salvatore Merlo (Il Foglio), Antonio Padellaro (Il Fatto Quotidiano), Flavia Perina (ADN Kronos), Gennaro Sangiuliano (TG1) e Paolo Valentino (Il Corriere della Sera) - sono Pierluigi Battista con “Mio padre era fascista” (Mondadori), Franco Cardini con “L’ipocrisia dell’Occidente” (Editori Laterza) e Giovanni Valentini con “La scossa, perché l’Italia non ha più scuse” (Longanesi).

A decretare il vincitore sarà il pubblico in sala, al quale all’ingresso verrà consegnata una scheda per votare. A sovrintendere al voto nel teatro il notaio Emma Chicco.

La serata è a ingresso libero. Per quanti non avessero ancora ritirato il biglietto, a partire dalle ore 17.00 sarà attivo il botteghino del Teatro Petruzzelli.

Al vincitore andrà un premio in denaro del valore di tremila euro. Grazie alla collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti di Bari, ai tre finalisti saranno donate inoltre delle incisioni realizzate per l’occasione dagli studenti.

Premio Tatarella finalisti
 

La serata finale del Premio nazionale di saggistica politica “Pinuccio Tatarella” è realizzata grazie al sostegno di: Aeroporti di Puglia, Autorità Portuale, Acquedotto Pugliese, Confindustria Bari-Bat, Camera di Commercio Bari, Divella, Amgas Spa, Velga Luce e Gas, Ladisa Ristorazione, Ferrovie del Gargano, Gruppo Alimentare Castellano di Salvatore Castellano, De Sortis - Industrie Semoliere di Cerignola.

Oltre alla disponibilità e alla collaborazione dell'Accademia delle Belle Arti di Bari, Ordine dei giornalisti - Puglia, Promomusic, Hotel Mercure, Villa Romanazzi Carducci

Domenica, inoltre, apertura straordinaria del #MAD bistrot-club-boutique, che supporta la serata finale del Premio applicando un sconto del 20% su tutto il menu a quanti esibiranno il biglietto di ingresso alla serata. Il MAD è in via XXIV Maggio, 2-6.

Premio Tatarella cardini
 

Franco Cardini
"L'ipocrisia dell'Occidente"(Editori Laterza)

È il Califfo dell’Islam o solo un feroce terrorista? Chi è e che cosa si nasconde dietro Abu Bakr al-Baghdadi, il capo dell’IS, definito dal “Time” "l’uomo più pericoloso al mondo"?

"Ma davvero abbiamo la memoria tanto corta? Davvero abbiamo dimenticato che fin dagli anni Settanta sono stati gli statunitensi che in Afghanistan, in funzione antisovietica, si sono serviti dei guerrieri-missionari fondamentalisti

provenienti dall’Arabia Saudita e dallo Yemen? Davvero ignoriamo che la malapianta del fondamentalismo l’abbiamo innaffiata e coltivata per anni noi occidentali? Sul serio non sappiamo nulla del fatto che ancor oggi il jihadismo - quello di al-Qaeda e quello, rivale e concorrente, dell’Islamic State (IS)del Califfo al-Baghdadi - è sostenuto, e neppure in modo troppo nascosto, da alcuni emirati della penisola arabica che pur sono tra i nostri più sicuri alleati nonché - e soprattutto - partner finanziari e commerciali?"

Franco Cardini, con gli strumenti di uno storico di razza, racconta le varie fasi dell’attacco musulmano all’Occidente con una personale chiave interpretativa. Dietro lo scontro di civiltà, usato strumentalmente da minoranze sparute, si nascondono interessi precisi. Al servizio di questo mito cooperano più o meno consapevolmente una diplomazia internazionale traballante e voltagabbana e un universo mediatico allarmista e ricercatore di consensi legittimanti.

cardini Ipocrisia
 

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Il dossier Isis, organizzazione che ha ormai sostituito al-Qaeda nel nostro immaginario collettivo, si riempie ogni giorno di nuove atrocità: le teste mozzate in Siria, i bombardamenti aerei statunitensi, francesi, russi e ora anche britannici, gli attentati di Parigi, le nuove operazioni di Daesh in Libia. Corriamo il rischio di essere “rapiti” dagli eventi e di lasciarci guidare dalle emozioni (e speriamo almeno che non lo facciano i nostri governanti), quando sarebbe utile e necessario restare lucidi e riflettere.

E’ quanto possiamo provare a fare leggendo il libro “L’ipocrisia dell’Occidente. Il Califfo, il terrore e la storia”, dello storico Franco Cardini. Per comprendere. Che non vuol dire giustificare, come sottolinea lo stesso autore. Il professor Cardini, grazie ad una raccolta di scritti da lui pubblicati nell’arco di un anno a partire dal gennaio 2014 (dopo la strage nella redazione parigina di Charlie Hebdo), ci accompagna
in un viaggio nel tempo e nello spazio.

La comprensione necessita sia della conoscenza sia della memoria. La conoscenza innanzitutto del mondo musulmano, quello di oggi ma anche quello di ieri e ieri l’altro. Per aiutarci l’autore ci spiega la genesi dell’Islam, i suoi contatti secolari con le altre due religioni monoteiste e con l’Occidente, la scissione tra sunniti e sciiti. L’esercizio della memoria riguarda anche l’Occidente, con le sue responsabilità storiche più datate, riassumibili nei termini “colonialismo” e “imperialismo”, oppure più recenti, con le operazioni militari in Afganistan, Iraq e Libia degli ultimi quindici anni.

Ricordare le colpe dell’Occidente non significa naturalmente omettere né ridimensionare le responsabilità del mondo islamico. Al contrario, uno degli elementi centrali della interpretazione che il libro ci offre consiste nella “fitna”, la lotta fratricida interna all’Islam: “Uno dei motori del caos avanzante nel Vicino e Medio Oriente era e resta la fitna che gli emiri arabi sunniti stanno da tempo cinicamente conducendo contro l’Islam sciita”. E in un altro passaggio precisa: “Che poi la fitna islamica coinvolga trasformandoli in vittime e in perseguitati anche cristiani e yazidi, e in prospettiva anche ebrei, magari è vero, ma è un altro discorso; e che essa poi sia sul punto di tracimare anche in Occidente, è probabile, ma è un’altra faccenda”.

Insomma, l’Occidente è tragicamente coinvolto ma non sarebbe il nemico principale dell’Isis, rappresentato invece dall’Islam sciita. Infatti, spiega il professore, “l’Iran era preoccupato del movimento di al-Baghdadi da molto prima che se ne sapesse qualcosa da noi: ma nessuno dalle nostre parti ne parlava in quanto quel che accade in Iran e quel che dicono i dirigenti politici iraniani va regolarmente coperto da un silenzio che viene rotto soltanto se il regime degli ayatollah minaccia qualche lapidazione di adultere o quando si torna a discutere dei suoi programmi nucleari”.

Ritenere che lo scontro in atto sia soprattutto interno al mondo musulmano non rimuove gli errori e gli orrori dei paesi occidentali: il secolare sfruttamento dei popoli e dei territori colonizzati (“[la globalizzazione] ha palesato che la nostra uguaglianza e il nostro benessere hanno poggiato per lunghi secoli sulla miseria delle genti degli altri continenti e sullo sfruttamento cui erano sottoposti”), la sconsiderata suddivisione in presunti Stati nazionali all’indomani del crollo dell’impero ottomano, le pesanti ingerenze proseguite ben oltre la fine del periodo di decolonizzazione, la guerra al terrorismo e la cosiddetta “esportazione della democrazia” volute dal presidente George Bush jr, il sostegno tecnico ed economico a gruppi di guerriglieri islamici, in funzione antisovietica negli anni Ottanta, contro Gheddafi o contro Assad in tempi più recenti, trasformatisi successivamente in nemici dell’Occidente.

Ma l’attenzione dell’autore è rivolta principalmente al mondo musulmano, alle sue dinamiche e alle sue trasformazioni. Insieme a lui scopriamo chi erano gli yazidi, che l’opinione pubblica ha imparato a conoscere soltanto lo scorso anno quando furono massacrati dalle milizie di al-Baghdadi, e quali siano le differenze tra al-Qaeda e le milizie del Califfo. Un posto di rilievo è riservato alla Turchia.

Lo storico ci ricorda che proprio la Turchia di Mustafa Kemal, nel 1924, aveva proclamato l’abolizione del califfato e la decadenza del califfo. La questione è drammaticamente recente, in quanto al-Baghdadi si è autoproclamato legittimo successore del Califfo e da lì fa discendere la sua autorità all’interno della comunità sunnita. La svolta “laica” di Kemal sarebbe durata fino ai nostri giorni e rimessa parzialmente in discussione dalla politica ambigua del presidente Erdogan, oscillante tra l’obiettivo di entrare nella Unione Europea e la tentazione di accreditarsi come potenza regionale musulmana all’interno dell’Islam.

Alla luce del quadro interpretativo descritto, il professor Cardini critica le operazioni militari in corso perché farebbero il gioco dello Stato Islamico: “Essi [il califfo e l’IS] agiscono formalmente per sottomettere attraverso il terrore, ma nella sostanza vogliono piuttosto che una coalizione occidentale risponda esasperata attaccandoli il più duramente possibile in modo da dimostrare la loro tesi, vale a dire che tutto l’Occidente, nel suo insieme, è nemico dell’Islam e l’unica scelta che si propone al vero credente è il jihad a oltranza sia contro i “crociati”, sia contro gli “apostati” (vale a dire i musulmani che accettano, anzi che trovano ovvia e legittima, la convivenza con chi abbia un altro credo e perfino con chi non ne manifesti alcuno).”

C’è spazio anche per una previsione: “Il califfo verrà sconfitto quando non servirà più”. Per il momento molti sono gli attori a cui fa comodo: agli emirati del Golfo governati da sovrani sunniti, alla Turchia, agli Usa e alla Nato, che “con il pretesto della guerra all’IS potrà impiantare nuove basi militari più vicine al confine iraniano”.

 

Premio Tatarella BATTISTA
 

Pierluigi Battista
"Mio padre era fascista"(ed. Mondadori)

Quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista, prigioniero a Coltano dopo aver combattuto, ventenne o poco più, dalla parte dei "ragazzi di Salò".

"Ho capito che cosa abbia rappresentato per lui il dolore di essere stato internato in quel campo per i vinti della Rsi vicino alla "gabbia del gorilla" in cui era rinchiuso Ezra Pound. Ho capito quanto abbia sanguinato il suo cuore di sconfitto, di "esule in Patria" nell'Italia in cui era un borghese integrato, maniacalmente attaccato alla civiltà delle buone maniere, ma covando il sentimento di un'apocalisse interiore da cui non si sarebbe mai affrancato. Ho capito quanto sia stata aspra e dolorosa la mia rottura con lui e quanto mi pesi, ancora oggi, il fardello di una riconciliazione mancata.

"Allora ho pensato che fosse giunto il momento di raccontare, con i miei occhi e il mio modo di sentire le cose della vita, chi fosse mio padre fascista e cosa pensasse nell'Italia che non credeva più nei miti in cui lui era cresciuto. Che rapporto ricco e difficile avesse instaurato con i suoi figli. Che cosa abbia significato per me essere figlio di un fascista, e vergognarsi di avere provato vergogna per i padri che abbiamo tradito andandocene da un'altra parte, e che invece hanno vissuto con dignità, coraggio e coerenza la loro solitudine.

"Per scoprire, alla fine, che gli esseri umani non sono monoliti, figure unidimensionali sulle quali incollare un'etichetta semplificatrice, ma persone vitali e vitalmente piene di contraddizioni. E per capire che i concetti più cari a noi italiani, la "parte giusta" e la "parte sbagliata", sono molto più friabili e complicati di quanto ci piacerebbe immaginare."

Pierluigi Battista riapre le ferite di un rapporto irrisolto con il padre fascista, e gli concede idealmente l'onore delle armi. Così, riannoda i fili spezzati di una tormentata vicenda familiare e trova un modo adulto di confrontarsi, in un libro indimenticabile, con un pezzo non meno tormentato della nostra storia.

Autore Pierluigi Battista (Roma, 1955) è inviato e editorialista del «Corriere della Sera», di cui è stato vicedirettore dal 2004 al 2009. Ha lavorato come inviato alla «Stampa» e come condirettore a «Panorama». Per La7 ha condotto il programma «Altra Storia» (2003-2007). Fra i suoi libri ricordiamo: La fine dell'innocenza. Utopia, totalitarismo e comunismo (Padova 2000), Cancellare le tracce. Il caso Grass e il silenzio degli intellettuali italiani dopo il fascismo (Milano 2007), La fine del giorno. Un diario (Milano 2013) e I libri sono pericolosi, perciò li bruciano (Milano 2014).

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Battista cover mio padre
 

"Mio padre erano due. C’era mio padre integrato. E c’era quello apocalittico. C’era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro. E c’era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta, nel suo foro interiore, risentimento e rabbia. C’era il conservatore e c’era il ribelle. C’era il professionista di successo, l’avvocato stimato nel mondo forense, che esibiva con fierezza la sua casa arredata con gusto tradizionale, la sua famiglia numerosa, i simboli del benessere. E c’era l’uomo intimamente devastato da una storia che lo aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile, schiacciato da un’ombra pesante, mangiato dentro da un’ossessione che non lo abbandonava mai. C’era l’italiano solare, socievole, spiritoso, con un senso dell’umorismo che mi piace ricordare ancora arguto e sottile. E c’era un uomo, mio padre, divorato dal suo lato notturno, esacerbato, cupo, talvolta lugubre».

La sofferenza del padre era inasprita dal figlio, che non soltanto aveva scelto la parte opposta, ma rifiutava di ascoltare le sue ragioni, e lo incalzava come se fosse responsabile di tutte le malefatte nell’Italia occupata («sei impazzito, forse? Mi stai accusando pure di aver partecipato alla strage di Sant’Anna di Stazzema?»). Il figlio, Pierluigi Battista, sta per pubblicare ora da Mondadori un libro sincero e duro con il genitore e più ancora con se stesso: Mio padre era fascista. La splendida copertina con il Colosseo quadrato dell’Eur evoca i percorsi nella Roma mussoliniana, scanditi dal «guarda!» con cui Vittorio Battista indicava a un ragazzino perplesso i monumenti costruiti e le strade aperte dal Duce, sempre rigorosamente nell’onomastica originale: via dell’Impero, Foro Mussolini; nelle gite fuori porta non si andava a Latina ma a Littoria, a Sabaudia non si ammiravano le dune ma la piazza, a Firenze prima degli Uffizi si visitava la stazione di Piacentini...Ma subito il libro si apre con un pugno nello stomaco: le pagine del diario, scritto nei giorni terribili seguiti alla guerra civile, e ritrovato solo dopo la morte del padre. Scene da girone dantesco: i prigionieri di Salò in catene che sfilano tra due ali di folla che li insulta, li minaccia, rifiuta loro un sorso d’acqua, sputa, tira sassi. E poi la prigionia a Coltano, il compagno falciato dai mitra dei vincitori solo per essersi avvicinato ai reticolati, Ezra Pound nella «gabbia del gorilla». Giorni in cui si accumula un risentimento destinato ad avvelenare la vita dell’«esule in patria», il cui tormento è acuito dall’incapacità di farsi ascoltare da un figlio che ama e da cui, nel profondo, è riamato.

Un conflitto che esplode con la morte atroce dei fratelli Mattei, quando Pierluigi torna a casa rauco dal corteo in cui ha urlato «Lollo libero» e Vittorio — «sei proprio un cretino!» — gli mostra le carte del processo, da cui si deduce con chiarezza che Lollo e gli altri «compagni» sono responsabili del rogo di Primavalle; e «i padri della patria» antifascista «non erano turbati da nessuna scossa, da nessun soprassalto emotivo, da nessun senso di sconfinata ingiustizia per la morte atroce di un bambino bruciato vivo, solo perché era figlio di un fascista. Un figlio di fascista anche lui, come me». Ma il tono medio del libro non è affatto triste. E non solo per la ricostruzione della giovinezza dell’autore, da cui scopriamo un Battista «antifascista militante» negli scontri di scuola e di strada; anche se quando finisce nelle mani di «Roccia», temuto picchiatore, «una montagna di muscoli», si salva solo in quanto figlio dell’avvocato che difende gratuitamente i camerati («vedi de ringrazzià tu’ padre»).

Un padre capace di autoironia, che al volante si sorprende a cantare «le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera» o a fare il verso a una celebre scena del film Il federale - «buca», «buca con acqua»...-, che si commuove davanti al Giardino dei Finzi Contini, che rifiuta di fermarsi all’autogrill di Cantagallo perché non hanno servito il suo amico Almirante, che difende gratuitamente pure gli estremisti dell’altra parte chiedendo consulenze linguistiche al figlio - «ma Pigi che diavolo vuol dire “tirare le bocce”?»; «le bocce sono le bottiglie molotov, papà» -, che si diverte a elencare artisti e attori che militarono nella Repubblica sociale (mentre Battista parla di altri scrittori che fecero anche loro i conti con il padre fascista, da Giampiero Mughini a Vincenzo Cerami a Margaret Mazzantini). E alla fine anche chi non ha alcuna accondiscendenza per il fascismo nelle sue varie forme — il regime, Salò, la nostalgia - finisce per provare simpatia per questo padre pieno di humour e di amore frustrato per l’Italia e per i propri figli.

Chi ha la fortuna di conoscere, di persona o attraverso i suoi articoli sul «Corriere», lo spessore culturale e umano di Pierluigi Battista ne ritroverà le radici nella figura del genitore e nell’ambiente familiare, dove si affacciano i fratelli e la madre, innamoratissima del suo uomo fin da quando partì ventenne verso il fronte per restargli accanto a rischio della vita, e dove compaiono anche Silvia, la moglie scomparsa dell’autore, e la loro figlia Marta. Questo però non attenua l’angoscia, anzi rende il lettore ancora più partecipe delle strazianti pagine finali. Vittorio Battista si spegne a 68 anni, poco dopo la morte di Almirante: il suo ultimo riferimento politico, l’uomo che aveva scritto le parole dell’inno del Msi - «siamo nati in un cupo tramonto» - in cui si riconosceva. La sera del funerale, Vittorio diserta la cena dei dirigenti. Chiede al figlio di mangiare una pizza con lui, in silenzio, e ha appena un gesto di disappunto quando Pierluigi fa cadere la brocca dell’acqua. Il padre fascista si spegne serenamente, la famiglia gli si stringe attorno, la barriera ideologica ormai è caduta, ma il figlio ancora non riesce a cavarsi da dentro il dolore.

Il nodo si scioglie cinque anni dopo. Battista segue per «La Stampa» il congresso di Fiuggi, in cui l’Msi abbandona «la casa del padre» per avviarsi a una stagione effimera ma ricca di potere e di ritrovata rispettabilità. La giornata scorre via tra gli appunti, la stesura dell’articolo, la cauta apertura al nuovo corso da parte del «giornale di Bobbio e Galante Garrone», la cena con i colleghi, le celie su «er Pinguino» o «er Pecora», il riposo in albergo. «Non sapevo cosa mi aspettasse oltrepassando quella porta: il luogo imprevisto dove stava per cominciare la notte dello strazio e della disperazione, la notte in cui la calma delle ore precedenti andò in fumo e mi misi mio malgrado a battagliare senza tregua con il fantasma di mio padre fascista». Febbre altissima, brividi sotto il piumone, vomito, panico. «Un pianto interminabile, ore e ore senza pace, sgomento, esterrefatto per quel precipitare in un gorgo per me ignoto».

E il desiderio di sentire la voce della madre, «per dirle tra i singhiozzi irrefrenabili quanto mi sentissi solo come mai nella mia vita».
L’annichilimento del mondo del padre, la fine dei «decenni della marginalità voluta come simbolo di fedeltà a se stesso», l’angoscia per «quella desolata cerimonia di addio alle armi» si sommava al senso di colpa che finalmente trovava sfogo, al rimpianto per non aver siglato in vita quella riconciliazione che il re Lear shakespeariano offre alla figlia Cordelia: «Andiamo via. In prigione, noi due, là, soli, e canteremo come uccelli in gabbia. Quando tu a me chiederai la mia benedizione, e io a te, in ginocchio, chiederò il tuo perdono». Ora la riconciliazione tra il figlio ribelle e il padre fascista è finalmente arrivata. Ed è questo libro.Pinguino» o «er Pecora», il riposo in albergo. «Non sapevo cosa mi aspettasse oltrepassando quella porta: il luogo imprevisto dove stava per cominciare la notte dello strazio e della disperazione, la notte in cui la calma delle ore precedenti andò in fumo e mi misi mio malgrado a battagliare senza tregua con il fantasma di mio padre fascista». Febbre altissima, brividi sotto il piumone, vomito, panico. «Un pianto interminabile, ore e ore senza pace, sgomento, esterrefatto per quel precipitare in un gorgo pern me ignoto». E il desiderio di sentire la voce della madre, «per dirle tra i singhiozzi irrefrenabili quanto mi sentissi solo come mai nella mia vita».

L’annichilimento del mondo del padre, la fine dei «decenni della marginalità voluta come simbolo di fedeltà a se stesso», l’angoscia per «quella desolata cerimonia di addio alle armi» si sommava al senso di colpa che finalmente trovava sfogo, al rimpianto per non aver siglato in vita quella riconciliazione che il re Lear shakespeariano offre alla figlia Cordelia: «Andiamo via. In prigione, noi due, là, soli, e canteremo come uccelli in gabbia. Quando tu a me chiederai la mia benedizione, e io a te, in ginocchio, chiederò il tuo perdono». Ora la riconciliazione tra il figlio ribelle e il padre fascista è finalmente arrivata. Ed è questo libro.

Premio Tatarella valentini
 

Giovanni Valentini
"La scossa, perché l'Italia non ha più scuse"

Un ritratto impietoso di un Paese che rischia di diventare irrilevante, di restare il luogo delle occasioni perdute e delle potenzialità trascurate. Un Paese abitato da un popolo di «gufi e rosiconi» ammalati di disfattismo, bassa autostima e mancanza di senso civico. Con il più grande patrimonio storico, artistico e culturale del mondo, bloccato dalla burocrazia e dal corporativismo o abbandonato al degrado.

Si potrebbe discutere a lungo degli errori e delle colpe della Destra o dei ritardi e dei tabù della Sinistra; del tradimento del Mezzogiorno e della falsa rivoluzione liberale. Solo che adesso non c’è tempo da perdere, lo «Stellone d’Italia» non basta più a proteggerci: da questa cruda analisi devono scaturire proposte e speranze per un Paese migliore. Un sistema elettorale giusto ed efficiente che garantisca l’effettiva alternanza; una «rivoluzione della legalità» contro la corruzione e la criminalità organizzata; un serio programma di liberalizzazioni; una riforma della Scuola e dell’Università che riconosca «i meriti e i bisogni»; il rilancio del turismo e dell’occupazione.

Se non sentissimo viva questa responsabilità, rischieremmo di non cogliere l’ultima opportunità per la modernizzazione di quest’Italia che deve fare i conti con l’Europa e con l’economia globale. Si impone quindi adesso uno scatto di dignità e orgoglio nazionale che faccia prevalere lo spirito costruttivo su quello critico e corrosivo. E che sconfigga finalmente la sfiducia.

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valentini scossa
 

Nel suo saggio "La scossa" Giovanni Valentini analizza le ricette per superare la crisi. Noi italiani non ci vogliamo bene. Non ce ne siamo mai voluto troppo. Però in alcuni momenti abbiamo alzato la testa, tanto che, dopo la guerra, abbiamo addirittura realizzato un "miracolo". Eppure oggi siamo tornati a dover ricercare di nuovo le radici e il senso di appartenenza, e siamo «affetti da opportunismo, servilismo e trasformismo».

«Un Paese, insomma, che non è riuscito ancora a diventare una società matura, integrata e coesa». Questa la diagnosi, amara e disincantata, con cui Giovanni Valentini apre il suo saggio sull'Italia di oggi. Ma il titolo e il sottotitolo, La Scossa. Perché l'Italia non ha più scuse ", indicano già una via di uscita. Per uscire dall'immobilismo, dai mille veti incrociati, dal potere di interdizione delle burocrazie e delle corporazioni, dal Partito Unico della Conservazione, come scrive l'autore, l'unica chance è affidarsi al dinamismo e all' esuberanza del nuovo capo del governo, Matteo Renzi. Rimarrà spesso in bilico tra «il presagio e l'esorcismo» nell'indicare le varie proposte, ma non rimane altro che aprirgli una linea di credito.

Non mancano pasticci e ritardi nell'azione del governo, ma la direzione di marcia intrapresa è quella giusta: Renzi si è prodigato per una maggiore liberalizzazione, una nuova regolazione dei rapporti di lavoro, una modernizzazione delle infrastrutture, una sburocratizzazione diretta in particolar modo a favorire l'avvio di una attività imprenditoriale.

Tra le tante piaghe d'Italia, il libro ne sottolinea due: la corruzione e il ritardo del Sud. Le cifre che vengono presentate, da molte fonti e tutte aggiornatissime, forniscono un ritratto inquietante. L'Italia viaggia a livelli sconfortanti nelle classifiche internazionali sul tasso di illegalità e corruzione. Siamo lontani mille miglia dai paesi europei di antica democrazia. La corruzione è una sorta "tassa occulta" imposta dall'«esercito clandestino dell'anti-stato, che non riconosce l'autorità dello stato e non rispetta la legalità». Senza sradicare la «mala pianta dell'illegalità» gli sforzi del nuovo governo rischiano di essere inutili.

Poi c'è il "Sahara d'Italia", vale a dire il Mezzogiorno. Con poche pennellate, Valentini, da meridionalista qual è, mette in luce la desertificazione, fisica innanzitutto (il Sud rischia di diventare una terra irrimediabilmente arida per il dissesto idrogeologico e l'incuria nella gestione delle acque), e poi morale, demografica ed economica. E la criminalità organizzata continua a prosperare.

Per far fronte a queste, e alle altre, drammatiche urgenze, Valentini confida, pur con qualche cautela, «nell'energia, nel coraggio e nella vitalità» di Matteo Renzi. Perché, al fondo, il problema è quello di scuotere questo paese, di strattonarlo persino con ruvidezza, pur di rimettere in circolo energie vitali.

Certamente il presidente del Consiglio è l'uomo giusto per questa impresa. La sua fiorentinità abrasiva ha già lasciato sul campo uno stuolo di avversari interni ed esterni (pensiamo al povero Berlusconi, ormai ridotto ad un caimano sdentato). Ma esaurita la parte distruttiva, il premier è in grado di guidare anche la fase costruttiva?

Se Valentini tende a dar fiducia al giovane premier, e a guardare il bicchiere mezzo pieno, rimane pur vero che la tendenza all'accentramento e al decisionismo, così marcati in Renzi, contrastano con la necessità di infondere all'opinione pubblica quel senso del noi, quell'idea di impegno collettivo e di compartecipazione, che manca, tanto e da tanto, in questo paese. Per rimettere in sesto l‘Italia non basta rompere le incrostazioni e le pigrizie: va ricreato quel senso di comune appartenenza che s'è perso.

Chi guida quest'impresa, allora, deve essere inclusivo, non divisivo. Una qualità che al nostro presidente del Consiglio difetta (ancora). Ma mettendoci sulla lunghezza d'onda di Valentini, possiamo sperare che questa sia solo la parte mezza vuota da riempire.

(gelormini@affaritaliani.it)

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