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Referendum, il dibattito "SI', liberarsi delle ombre"

di Sergio Fabbrini *

Perché si dovrebbe votare “no” al referendum del prossimo ottobre sulla riforma costituzionale? Per i costituzionalisti che si oppongono alla riforma, quel referendum è poco più che un seminario universitario. Fiumi di parole per criticare specifici difetti tecnici della riforma, trascurando completamente il suo significato generale. È come se decidessimo di fare deragliare un treno in corsa perché non ci piace la stoffa dei sedili degli scompartimenti.

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Per i politici che si oppongono alla riforma, quel referendum è in realtà un’occasione per far fuori Renzi o per indebolirlo politicamente. Per il centro-destra, la riforma ci porterà ad un regime autoritario, nonostante essa abbia dato un contributo importante alla sua stesura. Per la sinistra del Pd ciò che conta è che Renzi non si rafforzi troppo con il referendum così da poterlo meglio sfidare alle prossime primarie del partito. Il trionfo del politicismo. Come se non bastasse, si sono mobilitati anche i professionisti del sindacalismo giudiziario e sociale, ai quali il referendum offre un’occasione per riaffermare il loro ruolo di auto-nominati guardiani della virtù repubblicana. Financo la dirigenza dell’Anpi ha dato l’allarme sul risorgere di un nuovo fascismo. Siamo di fronte alla solita coalizione dei “non si può”. Qual è il Paese che si vuole? Di questo non si parla.

La riforma costituzionale introduce un cambiamento storico nella democrazia italiana: il superamento del bicameralismo paritario. Se la riforma verrà approvata dagli elettori, la fiducia al governo verrà data solamente dalla Camera dei deputati. Come avviene in tutte le grandi democrazie parlamentari. Questo è il punto. Con la riforma, finirà il ping-pong delle leggi da una camera all’altra. Quando si dovrà votare la legge finanziaria dello stato, ad esempio, non ci sarà più la competizione tra deputati e senatori ad avanzare richieste particolari per incrementare le rispettive fortune elettorali nella propria circoscrizione. Il processo decisionale sarà semplificato e reso più efficiente.

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Combinata con la legge elettorale già approvata per la sola Camera dei deputati, la riforma rimuoverà una delle condizioni che avevano reso instabili i governi della Seconda Repubblica. Cioè le diverse o differenziate maggioranze alla Camera e al Senato. Un passo in avanti, non l’ultimo. Senza introdurre la sfiducia costruttiva (se si vota contro il governo in carica occorre contestualmente presentare un governo alternativo), la stabilità politica non potrà essere pienamente garantita. È probabile che, una volta applicata, la riforma costituzionale mostrerà alcuni limiti specifici. D’altra parte, non solamente è stata fatta in parlamento attraverso compromessi tra forze politiche diverse ma la stessa differenziazione legislativa tra la Camera dei deputati e il futuro Senato delle regioni dovrà essere verificata sul piano empirico. Così è persino nelle democrazie parlamentari federali.

In Germania operano decine di comitati che, collegando i Länder con il Bund, aggiustano quotidianamente il funzionamento della macchina federale, senza considerare i più di 50 emendamenti introdotti a quello scopo. In Canada, la regolare negoziazione intergovernativa tra le Province ed Ottawa è stata istituzionalizzata nella informale (ma potente) Conferenza dei Primi Ministri, oltre che nel formale, dal 2003, Consiglio della Federazione. Attaccarsi a questi limiti per criticare la riforma significa confondere il dito con la luna.

Perché è importante avere un sistema di governo più efficiente e stabile? Perché il declino dell’Italia è dovuto anche ad un sistema istituzionale bizantino, dove la decisione è considerata una minaccia e non una necessità. La politica finalizzata esclusivamente alla ricerca del consenso ha finito per creare una mentalità diffusa avversa all’innovazione.

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Naturalmente una democrazia politica non è un’impresa economica. Chi decide politicamente deve preoccuparsi del consenso degli elettori, mentre chi decide economicamente deve preoccuparsi delle preferenze dei consumatori. I primi hanno vincoli di legittimazione democratica che i secondi non hanno.

Tuttavia, come ci hanno spiegato da tempo Max Weber e Joseph Schumpeter, la democrazia ha un futuro se riesce a collegare i propri tempi con quelli del mercato e della società. Se così non riesce a fare, essa diventa ridondante e inutile. Appunto: un ostacolo allo sviluppo come è avvenuto in Italia.

La dissociazione tra politica ed economia genera parassitismo nella prima e diseguaglianze nella seconda. Siccome la politica crea e istituzionalizza i modelli comportamentali di riferimento, l’approvazione della riforma costituzionale aiuterebbe a creare un Paese che non teme l’efficienza, ma anzi la considera una condizione del benessere collettivo.

Naturalmente, l’efficienza democratica non è la stessa cosa del decisionismo autoritario. Nelle democrazie efficienti, i capi di governo e i loro esecutivi prendono sì decisioni, ma all’interno di sistemi bilanciati. E rendono conto agli elettori per quelle decisioni. La riforma costituzionale in questione rafforza addirittura i bilanciamenti (per quanto riguarda ad esempio l’elezione del presidente della Repubblica). Per di più la maggioranza governativa è istituzionalmente limitata: sarà sufficiente che una trentina di parlamentari cambino opinione per metterla in discussione (per questo motivo ci vuole la sfiducia costruttiva).

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Chi grida all’uomo solo al comando non è a suo agio con i calcoli numerici. Inoltre, contrariamente al tentativo di riforma costituzionale del 2006, questa riforma non interviene nella composizione e nei poteri della magistratura. Una differenza che rende evidente la visione ideologica dei magistrati che si sono mobilitati per combatterla. Siccome i bilanciamenti non mancano all’interno, né tanto più mancano all’esterno (come ci è stato ricordato dalla Commissione europea pochi giorni fa), allora chi si oppone alla riforma teme probabilmente un’Italia più moderna.

I referendum costituzionali non si combattono con le tecnicalità. Si vincono o si perdono sulla visione del Paese che si vuole promuovere o difendere. Il referendum del 2/3 giugno 1946 riguardava la scelta tra il passato e il futuro, non solamente tra monarchia e repubblica.

Il referendum del prossimo dicembre 2016 riguarderà la scelta tra un’Italia che vuole essere efficiente, stabile e responsabile, e quindi capace di esercitare il suo ruolo in Europa, e un’Italia idiosincratica ed eccentrica, eternamente prigioniera delle proprie ombre.

(sfabbrini@luiss.it)

* Direttore Dipartimento Scienze Politiche - Luiss "Guido Carli" Roma

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Pubblicato sul tema: Referendum, il dibattito "NO, non in questo modo"

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