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Trifone Gargano, "Dante indaga" nel ciclo di Giulio Leoni

Anche Affaritaliani.it - Puglia ha deciso di celebrare i 700anni dalla morte di Dante Alighieri, dedicando ogni week-end questo spazio per la pubblicazione di lavori ad opera di dantisti pugliesi o di autori, i cui articoli sono ispirati all’influenza del Somma Poeta sulla realtà pugliese in particolare o quella italiana in generale.

Trifone GARGANO Aracne

Dopo l'esordio in accoppiata con Mina, i riflettori accesi su Netflix con la fiction di successo con Sabrina, e le incursioni ne "La casa di Jack" di Lars von Trier, l'incontro con Harry Potter nella saga di Joaanne K. Rowling; l'avventura tra i twitter fulminanti delle terzine di dantesca memoria e l'esplorazione dell'influenza del Sommo Poeta nella prosa contemporanea, Trifone Gargano (Pugliese, Docente Didattica Lingua Italiane e Informatica per la Letteratura, nonché dantista e divulgatore letterario) fissa la sua torcia critica su un Dante Alighieri nell'insolita veste di "investigatore" nel ciclo dedicatogli da Giulio Leoni. (ag)

Leoni Medusa

di Trifone Gargano

Dante Alighieri e i delitti della Medusa (2000), uscito nella collana "Il Giallo Mondadori", il romanzo di Giulio Leoni inaugurava una fortunata serie, il ciclo narrativo «Dante indaga», aggiudicandosi il "Premio Tedeschi", per la narrativa poliziesca. Nell’invenzione narrativa di Leoni, Dante Alighieri, nelle funzioni di priore della città di Firenze, indossava i panni dell’investigatore. Il romanzo è ambientato a Firenze, nel 1300, verso la fine del mese di luglio, periodo in cui Dante Alighieri ricopriva la carica di Priore (precisamente, la ricoprì dal 15 giugno al 15 agosto del 1300). La vicenda narrativa prende avvio intorno alla mezzanotte del 26 luglio del 1300.

Tra i personaggi del romanzo, frammisti a quelli di pura invenzione, ritroviamo il musico Casella, del quale, com’è noto, si posseggono pochissime notizie biografiche (se non quelle che riporta lo stesso Dante nel II canto del Purgatorio; gli amici (e poeti) Guido Cavalcanti e Gianni Alfani; il pittore-architetto Giotto; il papa Bonifacio VIII (acerrimo nemico di Dante); e altri uomini politici ed esponenti della Curia romana.

Riferimenti al testo della Commedia (con esplicite citazioni di versi) si trovano in grande abbondanza, sin dalle primissime pagine, con la citazione del filosofo Sigieri di Brabante [Pd x], del cardinale Matteo Bencivegna d’Acquasparta [Pd xii], che, com’è noto, fu inviato da papa Bonifacio VIII a Firenze, tra il 1300 ed il 1301, con l’incarico di svolgere l’attività di paciere tra le fazioni dei Bianchi e dei Neri, ma, in realtà, con la segreta consegna di rafforzare il partito dei Neri, a danno di quello dei Bianchi.

Leoni Mosaico

Leoni, presentando il personaggio del cardinale d’Acquasparta, agita pure la questione, dibattutissima tra gli studiosi di Dante, dell’ideazione del poema, da parte di Dante, in anni precedenti a quelli del suo stesso esilio (ventilando l’ipotesi di una prima, parziale, stesura del poema, in Firenze). Si tratta della questione critica nota come i «due tempi» della Commedia. In altre parole, secondo alcuni studiosi, a cominciare dallo stesso Boccaccio, autore di una prima biografia di Dante Alighieri (e di un Trattatello in sua difesa), il poeta avrebbe cominciato non solo a ideare la Commedia prima dell’esilio, ma anche a scriverla. Probabilmente, a giudizio di Boccaccio, Dante avrebbe scritto i primi sette canti dell’Inferno in Firenze. Sulla scia di Boccaccio, si sarebbero schierati, nei secoli, fior di studiosi e di scrittori. A sostegno di questa tesi, gli studiosi usano citare il suggestivo incipit del canto VIII dell’Inferno: «Io dico, seguitando...» (v. 1).

Oltre al musico (e amico) Casella [Pg ii], al dannato, e violento, Filippo Argenti [If viii], ai poeti Lapo Gianni e Gianni Alfani, per citare solo qualche caso, nel romanzo di Leoni trovano posto molti personaggi storici, e molti eventi realmente accaduti. La vicenda narrativa del romanzo (con il suo carico di delitti e di indagini) si conclude durante le ore notturne del primo agosto del 1300, con un concitato e drammatico dialogo tra il priore di Firenze e il suo amico Guido Cavalcanti, accusato, quest’ultimo, di aver commesso l’omicidio della bella cantante fiorentina Vana del Moggio (e del musico Casella, amante della cantante).

Leoni Luce

I delitti del mosaico (2004) comincia con il rinvenimento, nella notte del 15 giugno del 1300,  ai piedi di un gigantesco mosaico, del cadavere di un uomo. Dante Alighieri, da poche ore priore della città di Firenze, deve indagare su questo misterioso caso di omicidio; pertanto, viene distolto dalle sue solitarie riflessioni, da parte del bargello, il funzionario incaricato dell’ordine pubblico in città, che lo invita a seguirlo, per portarsi sulla scena del delitto e, quindi, per effettuare un primo sopralluogo, e avviare le indagini. Ben presto, però, l’azione investigativa di Dante verrà ostacolata in mille modi, da parte di chi tenta di depistarlo, o, comunque, da parte di chi non vuole ch’egli risolva il caso, e che giunga cioè a scoprire l’assassino (o gli assassini) di quel brutale e inspiegabile delitto.

I punti di contatto intertestuale, tra questo romanzo Leoni, e il poema dantesco, sono:

  • p. 99 e segg., con Pg xvi (per la teoria politica - e religiosa - dei «due soli», attraverso il lungo e appassionato intervento dell’anima di Marco Lombardo, che attribuisce il caos e il disordine sulla terra non già all’influsso delle stelle, quanto, invece, all’umana volontà, e alla confusione tra il potere spirituale e quello temporale)
  • p. 161 e segg., con Pg iii e Pd. vi (il principe Manfredi, figlio di Federico II, anche se nel canto egli si presenta a Dante come nipote di Costanza d’Altavilla, con la questione dell’impero, esposto attraverso l’intervento dell’anima dell’imperatore Giustiniano)
  • p. 170 e segg., con Pg i (l’immagine iniziale dell’alba, con la croce del Sud, le quattro stelle, simbolo delle virtù cardinali)
  • p. 185, con Pd i (la spiegazione di Beatrice sui moti dei cieli: «Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante», 103-05)
  • p. 235 e segg., con Pd vi (Dante ripropone il tema politico).

I delitti della luce (2005), terzo romanzo del ciclo "Dante indaga", sempre ambientato a Firenze, e sempre nel corso dell’estate del 1300, con Dante Alighieri, priore della città, nei panni di un solerte e appassionato investigatore. La storia inizia con il rinvenimento di una galea da guerra, arenatasi nelle acque paludose dell’Arno, a ovest di Firenze, con tutti i membri dell’equipaggio morti, e con a bordo i resti di un misterioso macchinario.

Anche in questo romanzo, a quelli di fantasia, si mescolano i personaggi storici, come i poeti Guido Cavalcanti e Cecco Angiolieri; il pittore Giotto, il papa Bonifacio VIII, l’imperatore Federico II, il poeta, notaro e segretario Pier delle Vigne, e altri ancora. Sono presenti continui riferimenti a avvenimenti reali della vita di Dante, e a quelli della città di Firenze (come, per esempio, alla battaglia di Campaldino, dell’11 giugno 1289, tra Guelfi e Ghibellini, alla quale presero parte, tra gli altri, lo stesso Dante e il poeta Cecco Angiolieri; oppure, il Giubileo del 1300; i riferimenti alla setta dei «Fedeli d’Amore»).

La Sindone del Diavolo (2014), ambientato nell’estate 1313, a Venezia. Dante non ha mai visto nulla di simile, pur avendo girovagato molto nel corso del suo lungo esilio, e cioè una città sospesa sull’acqua, e in perenne movimento. Dunque, un labirinto di calli e di canali, una selva, all’interno della quale Dante deve rintracciare uno speziale saraceno, Nazeeh Al Bashra (un uomo accompagnato da una sinistra fama, che, molto probabilmente, è l’unico in grado di curare l’imperatore Arrigo VII). Con la morte di Arrigo, se ne andrebbe l’ultima speranza che Dante ha di rientrare a Firenze senza alcuna infamia. I veneziani e le autorità credono nella presenza fisica del demonio in città, e lo descrivono, come se lo avessero visto per davvero in faccia. La sindone, appunto, del Diavolo, come recita il titolo stesso del romanzo, impressa su di un panno di lana pesante, «tagliato nella foggia di un mantello» (p. 299).

Leoni ma anime

Nel romanzo, Dante non smette mai di essere uomo razionale, filosofo, che tutto esamina e discerne attraverso la ragione. Certo, non mancano, nel romanzo, gustose pagine nelle quali fanno capolino anche le debolezze umane di Dante, come, per esempio, quelle in cui egli cede alle lusinghe di una prostituta, Giacometta, la cortigiana che lo stupisce per le sue qualità di musicista e di cantante:

Giacometta era accoccolata su di un cuscino, intenta a pizzicare le corde del suo liuto. Le dita agili ne traevano una melodia lenta e ricca di un’armonia che Dante non aveva mai udito nella musica delle sue terre.

Sembrava che il liuto di Giacometta disponesse di altre note, diverse dalle usuali [...].

La missione dantesca, nella città lagunare si manifesta subito con risvolti inquietanti. Oscuri personaggi avvicinano il poeta, e sembra che conoscano già tutto dell’opera ch’egli, invece, sta ancora scrivendo: il suo viaggio nell’aldilà. Inoltre, costoro si ostinano a ripetere di aver visto il Diavolo aggirarsi per Venezia, e di conoscere le sue reali fattezze. Il poeta comincia a sospettare che Venezia sia per davvero il palcoscenico di una macchinazione diabolica, con il Diavolo stesso che avrebbe deciso di sfidare le leggi dell’universo, e di rivelare all’umanità il suo volto.

Sono presenti riferimenti espliciti allo stilnovo, in pagine nelle quali Dante, sempre con Giacometta, riflette su cosa sia esser poeti:

"È amore che ci rende poeti», disse finalmente Dante. «Dettando nel nostro animo le sue parole e i suoi intendimenti, e lasciando a noi il compito di stenderli sulle carte, perché altri uomini dal cuor gentile se ne impadroniscano e li vivano come se fossero propri" [p. 202]

Passaggio che rinvia ai versi del canto XXIV del Purgatorio, nei quali Bonagiunta da Lucca (1220-1296) riconosce a Dante la novità della poesia stilnovista: 

busto di Dante, marmo, ignoto (XIX sec)

 

Ma di’ s’i’ veggio qui colui che fore

Trasse le nove rime, cominciando

“Donne ch’avete intelletto d’amore”.»

E io a lui: «I’ mi son un che, quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

ch’e’ ditta dentro vo significando» [Pg., XXIV, 49-54]

Il manoscritto delle anime perdute (2017), dopo un capitoletto introduttivo, in cui un misterioso personaggio (forse, un monaco) riesce a impadronirsi di un antico codice, commettendo omicidio, il romanzo entra nel vivo, mettendo in scena Dante, e la potente famiglia dei conti Guidi, nella cornice del castello di Poppi (nell’aretino). La scena si svolge nei primi giorni del mese di giugno del 1304. Dante sta partecipando, all’inizio con un atteggiamento di silenzioso distacco, a un incontro tra fuoriusciti fiorentini di parte Bianca e cospiratori, intenzionati a metter su un’azione militare per rientrare in Firenze, e per tentare di sconfiggere i Neri, capeggiati da Corso Donati. Non condividendo l’andamento della discussione, Dante rompe il suo silenzio, e interviene energicamente per criticare quello ch’egli giudica come un progetto mancante palesemente di «amor di patria», e di "logica di guerra". Ovviamente, raccoglie ostilità, da parte dei presenti, e anche qualche commento di scherno, ai quali il poeta risponde prontamente, e con disprezzo, ricordando a tutti di aver preso parte, proprio in quelle terre, alla battaglia di Campaldino, nel 1289:

"Io fui a Campaldino, a difendere col sudore e col sangue la nostra patria, quando l’aquila imperiale minacciava la nostra libertà".

Dante

Dante viene autorizzato a recarsi a Verona, dagli Scaligeri, vicari dell’imperatore, per chiedere loro aiuto militare e appoggio politico. La missione, con tutta evidenza, non si annuncia facile, ma Dante assicura il conte Guidi di nutrire fondate speranze sul buon esito della stessa. Nella discussione, vengono citati alcuni tra i personaggi più celebri (ancorché nefasti) della recente storia di Firenze, tra cui, Corso Donati e Mosca de’ Lamberti, quest’ultimo, diventato proverbiale per aver pronunciato la nota espressione proverbiale «cosa fatta capo ha», che Dante, qui, fa propria per zittire i presenti. Nell’Inferno, Dante colloca Mosca de’ Lamberti nella nona bolgia, tra i seminatori di discordia.

Il presente narrativo della storia è, dunque, il 1304; e cioè i primissimi tempi dell’esilio dantesco. I primi mesi, e i primissimi anni di quel lungo esilio, caratterizzati (ancora) dall’illusione di tornare a Firenze con un colpo di mano. A Verona, Dante si imbatterà, casualmente, in un manoscritto misterioso, con segreti pericolosi, capaci di far crollare le fondamenta stesse della fede cattolica. Il personaggio del capitoletto introduttivo, si scoprirà essere un fraticello francescano, della corrente radicale degli Spirituali, tal Guiscardo da Imola, sulle cui tracce è già da tempo il temibilissimo inquisitore domenicano Lanfranco da Cuma, capo dell’Inquisizione, con il compito di sottrargli proprio il misterioso manoscritto, redatto nella lingua con la quale Dio aveva dato «ordine ai suoi angeli» (p. 23). La pericolosità di questa lingua risiederebbe nella possibilità, per chi la conoscesse e la utilizzasse, di evocare i demoni, gli angeli caduti, gli angeli ribelli a Dio e seguaci di Lucifero.

L’inquisitore Lanfranco da Cuma, senza alcun risparmio di energie e di mezzi, cerca questo manoscritto, per impedirne la diffusione. Dante si sente attratto dal manoscritto, e dal fraticello Spirituale che lo possiede, e intuisce che tutto ciò lo distrarrà dai suoi impegni politici, finalizzati al rientro in Firenze, per riaccreditarsi socialmente nella sua patria. La città di Verona diventa, dunque, teatro di questo scontro, e proprio Lanfranco da Cuma, il potente e temibile capo dell’Inquisizione, sarà l’antagonista principale di Dante. Tra i due, infatti, la contesa andrà ben oltre i confini legati al possesso di queste misteriose (e pericolose) carte, per assumere, invece, il profilo di uno scontro molto più ampio, di carattere generale.

In un concitato confronto con Dante, Lanfranco da Cuma intuisce che il proponimento dantesco di utilizzare il volgare, come lingua della nuova cultura, è una scelta pericolosa. Dante tenta una difesa:

"Ho scelto di stendere alcune mie cose nella lingua del popolo, perché ad esso sono destinate. E perché credo che il linguaggio del popolo sia ricco di una sua naturale capacità di raggiungere anche i sensi più profondi [...]". 

Leoni 9 cieli

I delitti dei nove cieli (2019), ulteriore tappa del grande romanzo dantesco che Giulio Leoni va componendo dal 2000. Con questo romanzo, il lettore si trova proiettato nel 1307, in un momento particolarmente delicato per la vita del poeta, dopo che ha già sperimentato senza successo il tentativo di un ritorno a Firenze con l’onore delle armi. Leoni, dunque, immagina che intorno al 1307 sarebbe avvenuto il viaggio a Parigi di Dante. Nel romanzo, infatti, si legge che il 29 ottobre del 1307 Dante giunse dinanzi alle rossa mura di Parigi:

"...dopo aver superato ancora una modesta collina, apparve in lontananza un grande anello di pietra e mattoni rossicci, scandito a intervalli regolari da un sistema di torri difensive".

Del viaggio e del soggiorno dantesco a Parigi, ovviamente, non abbiamo alcuna notizia certa, e i critici sono molto scettici nel ritenere fondata questa notizia, affidata, quasi unicamente, a un verso del Paradiso, riferito a Sigieri di Brabante: «che, leggendo nel Vico de li Strami» [Pd., X, 137]. Il verbo «leggendo» sta per «teneva lezione» (nel senso proprio di leggere e di commentare i testi classici”); e «Vico de li Strami» sarebbe «rue du Fouarre», o «via della paglia», cioè la strada di Parigi dove si trovavano le scuole di filosofia della Facoltà delle Arti, dove, appunto, Sigieri era maestro. Presso la Facoltà delle Arti, a Parigi, insegnavano gli aristotelici come Sigieri, in continua polemica con la Facoltà di Teologia. Del resto, è ben nota la contrapposizione che divise, in vita, e per tutta la vita, san Tommaso d’Aquino, voce parlante del cielo del Sole, da Sigieri, capo riconosciuto dell’averroismo latino, chiamato a comparire dinanzi al tribunale dell’Inquisizione.

Leoni Giulio

Secondo Leoni, Dante avrebbe intrapreso il viaggio a Parigi mosso dalla curiosità di approfondire alcuni dubbi, che da qualche tempo lo impegnavano, intorno alla struttura dei nove cieli celesti. La scrittura della terza cantica pone dubbi nuovi. Da un mercante veneziano di libri, Dante aveva appreso che a Parigi, nel Vico de li Strami, ci fossero maestri capaci di discutere di altre «forme» della struttura dei cieli. Questioni che Dante direttamente affronta nei canti XXVIII e XXIX del Paradiso, e che qui, stando alla fantasia di Leoni, starebbe già indagando sul finire del 1307, con il viaggio a Parigi, per ascoltare altri magistri:

"Non era il segno di un’ambizione smisurata la sua, questa di rubare il campo a maestri come Giotto e Cimabue, per rappresentare con le parole quello che loro avevano solo osato sfiorare? I cieli, i cori angelici, le beatitudini che ancora in modo confuso si agitavano nella sua fantasia [...]".

Giunto a Parigi, però, Dante si lascerà coinvolgere nelle indagini su di un caso di apparente suicidio di uno astronomo di origini italiane. Cedendo, così, ancora una volta, al segreto fascino dell’enigma da portare alla luce.

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