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Trifone Gargano e il Dante di Marco Santagata

Anche Affaritaliani.it - Puglia ha deciso di celebrare i 700anni dalla morte di Dante Alighieri, dedicando ogni week-end questo spazio per la pubblicazione di lavori ad opera di dantisti pugliesi o di autori, i cui articoli sono ispirati all’influenza del Somma Poeta sulla realtà pugliese in particolare o quella italiana in generale.

Trifone GARGANO Aracne

Esordio in accoppiata con Mina, poi riflettori accesi su Netflix con la fiction di successo con Sabrina, e incursioni ne "La casa di Jack" di Lars von Trier; quindi l'incontro con Harry Potter nella saga di Joaanne K. Rowling; l'avventura tra i twitter fulminanti delle terzine di dantesca memoria e l'esplorazione dell'influenza del Sommo Poeta nella prosa contemporanea. E dopo l'incursione dantesca nel mondo del giallo e l'approdo in Sicilia negli intrighi di Nino Motta, il viaggio si è dipanato tra le pagine dei libri di Eraldo Affinati e Giulio Ferroni, con la successiva polemica letteraria accesa da Arno Widmann. Per toccare poi la funzione di "Bussola" de La Divina Commedia per un romanzo di Marco Balzano, l'esame su Nick Tosches e "La mano di Dante"; continuando tra le pagine di "Inferno" il successo editoriale di Dan Brown; fino ad intruflarsi tra coloro che fecero violenza a se stessi (suicidi). Per poi addentrarsi nel labirinto suggestivo della matematica e del fronte didattico-scientifico.

La rassegna di Trifone Gargano (Pugliese, Docente Didattica Lingua Italiane e Informatica per la Letteratura, nonché dantista e divulgatore letterario) continua sul versante riflessivo con il libro di Marco Santagata (ag)

Santagata cop 01

di Trifone Gragano

È già nella Vita nuova che Dante sperimenta la poesia della "loda" della donna amata, per poi riprenderla, in anni successivi, nei primi, tristissimi, anni dell’esilio, nella canzone del Convivio, che inizia con il celeberrimo verso «L’amor che ne la mente mi ragiona». Accanto al tema della «loda», trova posto un altro, e cioè quello dell’indicibilità. Le qualità della donna non sono dicibili con parole umane: «perché dirlo non savrei» (come si legge al v. 13 della canzone). Ineffabilità e indicibilità, del resto, attraverseranno tutta la poesia di Dante, fino all’ultimo canto del Paradiso, con la solenne dichiarazione dell’impotenza della lingua umana: «Oh quanto è corto il dire [...]» (Pd, XXXIII, 121). Secoli dopo, Giacomo Leopardi, in A Silvia, avrebbe rilanciato la stessa idea della indicibilità:

Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno. (v. 26)

Le parole umane sono inadeguate a dire l’amore. Forse, per questa ragione Marco Santagata pone in esergo del suo romanzo, Come donna innamorata, che qui, oggi, suggerisco come lettura dantesca, la seguente citazione dalla Vita nuova:

E quando mi domandavano: «Per cui t’à così distrutto questo Amore?», e io sorridendo li guardava, e nulla dicea loro. (2, 5)

Marco Santagata, Come donna innamorata, Guanda, Milano, 2015

Santagata

Nel romanzo, Santagata isola alcuni momenti, e alcune figure di riferimento, della vita e dell’opera di Dante Alighieri (1290; 1294; 1314; Bice, Guido, Brunetto, Gemma), per re-inventarli attraverso il suo sguardo, la sua mente e il suo cuore di narratore. Il romanzo è diviso in due parti, Bice, la prima; e Guido, la seconda. Sono parti asimmetriche, sia per estensione (maggiore la prima, rispetto alla seconda parte); ma anche per l’opera dantesca scelta come riferimento (la Vita nuova, nella prima parte; gli ultimi canti del Purgatorio, nella seconda). Queste due parti, comunque, sono tenute assieme dalla figura di Beatrice; dapprima, la Beatrice donna; poi, la beata, santa tra i santi.

Il lettore maturo, dopo le primissime pagine, si accorge che Marco Santagata, recentemente scomparso, tra i massimi interpreti dell’opera dantesca (oltre che tra i più minuziosi e amorevoli studiosi della biografia di Dante Alighieri), con questo romanzo, ha voluto prendere per mano il lettore e condurlo fin dentro alcune segrete cose dantesche, oltrepassando, in molti casi, anche il sottile velo dei limiti scientifici (e filologici), per fargli cogliere il senso autentico di alcune scelte artistiche di Dante, non esprimibili diversamente, ovvero, non dimostrabili, in sede critica, se non (soltanto) attraverso la finzione della re-invenzione narrativa.

Per il Marco Santagata autore di questo romanzo, credo che si addicano perfettamente le parole pronunciate dallo stesso Dante, allorquando egli incontra Virgilio, (e ne implora l’aiuto):

"vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore

che m’ha fatto cercar lo tuo volume" [If., I, 83-4]

Nucleo lirico del romanzo, come ho già precisato, è Beatrice: la morte della donna, con la conseguente, lacerante, separazione (1290); la disperazione del poeta, e la successiva celebrazione di quella donna, attraverso la composizione della Vita nuova (1294); l’incontro con la donna (oramai beata), anni dopo, verso la cima del Purgatorio (1314). Quasi certamente, la stesura degli ultimi canti purgatoriali risalirebbe agli anni 1312-1314. Quindi, circa venticinque anni dopo il 1290, l’anno della morte di Beatrice.

Altro nucleo narrativo del romanzo di Santagata è rappresentato dai rapporti del giovane Dante con Guido Cavalcanti, che non furono mai rapporti tranquilli. Guido, autentico alter ego dantesco, amico, maestro, sodale, come si evince già dalla lettura della prima pagina del romanzo:

I sarcasmi di Guido li aveva messi nel conto. Lo avrebbero ferito, ma danneggiato no, anzi. le punzecchiature che l’amico non gli avrebbe risparmiato neppure in pubblico non sarebbero state la riprova che lui, Dante, era Dante e che nessuno, foss’anche Guido Cavalcanti, poteva fargli cambiare idea? [p. 15]

Questi rapporti, dunque, si annunciano come prepotenti e carichi di echi e di rinvii letterarii (testuali), alle rispettive opere. L’idea che la condivisione stilnovista, tra i due, non fosse, evidentemente, soltanto un fatto retorico e poetico, ma anche sociale, politico, di visione complessiva della vita, affiora di continuo, nelle pagine del romanzo di Santagata. Guido Cavalcanti, infatti, attraversa le pagine dell’intero romanzo, quasi contendendo a Dante il ruolo stesso di protagonista. Poi, a un certo punto, scompare, per riapparire verso la fine dell’opera, e per determinare, secondo la potente fantasia narrativa di Marco Santagata, la creazione del personaggio di Matelda, nel Paradiso terrestre dantesco. Com’è noto, Matelda appare in Purgatorio XXVIII, ma il suo nome verrà pronunciato soltanto nel canto XXXIII, al v. 119:

"[...] Priega

Matelda che ‘l ti dica". E qui rispuose

Matelda ha la funzione di accompagnare le anime del Purgatorio, giunte oramai al termine del loro cammino di espiazione, ai fiumi Letè e Eunoè, per assisterle durante i rispettivi riti di purificazione nelle acque dei due fiumi. Nella rappresentazione dantesca di questa splendida figura femminile confluiscono elementi classici ed elementi stilnovistici:

Beatrice Dante 02

e la m’apparve, sì com’elli appare

subitamente cosa che disvia

per maraviglia tutto altro pensare,

una donna soletta che si gia

e cantando e scegliendo fior da fiore

ond’era pinta tutta la sua via. (Pg, XXVIII, 37-42)

Al di là dei tentativi fatti, da parte degli studiosi, di identificare Matelda con un personaggio storico, ella resta la compiuta raffigurazione della felicità terrena. Matelda prefigura e anticipa l’arrivo di Beatrice (che avverrà nel successivo canto XXX del Purgatorio):

donna m’apparve, sotto verde manto

vestita di color di fiamma viva.

E lo spirito mio [...]

d’antico amor sentì la gran potenza.  (Pg, XXX, 32-4 e 39)

Per questa ragione, alcuni studiosi hanno proposto di interpretare il nome Matelda come anagramma di «ad letam», cioè «colei che conduce alla donna beata» (Beatrice). Nel romanzo, Santagata registra pure questa tesi critica:

L’avrebbe chiamata Matelda, ad letam, colei che conduce alla beata. Beatrice avrebbe avuto una ancella. (p. 171)

Latini

Nel romanzo, sono presenti, in maniera vivida, anche gli echi delle lotte di fazione, degli scontri familiari (tra i Cerchi, capi dei guelfi bianchi di Firenze, e i Donati, capi dei guelfi neri). Non mancano, ovviamente, pure riferimenti al partito dei Ghibellini (oramai sconfitti e scacciati da Firenze), e alle loro case diroccate e vuote. Le case degli Uberti. Trova posto il disprezzo per la gente nova, trasformatisi, grazie al «Dio Fiorino», da villani in conti. Di grande effetto il ritratto del maestro Brunetto Latini, con relativa sottolineatura del contrasto tra l’immagine sociale e istituzionale, di quel grand’uomo (notaio, scrittore, uomo di dottrina, capo della Cancelleria fiorentina, ed esule), e il suo aspetto fisico, ordinario:

"un ometto calvo, secco, un largo sorriso stampato su una faccia bislunga ornata da un gran naso" [p. 35],

e poi il suo eloquio, torrentizio, infiorato da battute, ricco di motti, aneddoti, citazioni, senza alcuna ostentazione. Infine, il ricordo dei libri di Brunetto Latini, dei tanti libri che lo circondavano, a casa, e che il giovane Dante aveva divorato con gli occhi, che avrebbe letto e riletto, negli anni a seguire (Dante, infatti, come precisa Santagata, frequentò Brunetto per quasi vent’anni, con amore filiale, e fu trattato da figlio). Dante collocherà Brunetto Latini nel terzo girone del settimo cerchio, tra i sodomiti (canto XV dell’Inferno), dedicandogli, però, nonostante la condanna, parole affettuosissime:

la cara e buona immagine paterna

di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m’insegnavate come l’uom s’etterna (vv. 83-5)

Dante, del resto, era animato dal desiderio che Firenze, la sua Firenze, lo ritenesse erede, unico erede di ser Brunetto Latini, e divenire, così, la massima autorità morale e culturale di Firenze. Ma le cose, come sappiamo, andarono (molto) diversamente.

Alle pp. 36-55, il romanzo di Santagata scorre parallelamente con l’intreccio della Vita nuova dantesca. Rari, ma molto belli, sono pure i momenti in cui anche Gemma Donati entra nel romanzo, in pagine delicatamente private, intime. Come si legge, per esempio, a p. 119, anni già tristi, per il poeta, perché anni d’esilio:

"Gli mancava Gemma. Aspettava il suo arrivo con impazienza. Con lei sarebbero venuti anche i ragazzi..."

Un ordinario quadretto di vita familiare, ma di grande forza evocativa, teso al recupero, da parte dello scrittore Marco Santagata, della figura e del ruolo di Gemma, per la vita di Dante, altrimenti assente (Gemma è, in effetti, un “fantasma”). Santagata utilizza il romanzo pure per compiere riferimenti ad alcune tra le questioni critiche dantesche più dibattute. Come, per esempio, la questione dei così detti “due tempi” della Commedia, agitata già da Giovanni Boccaccio, che di Dante fu il primo (appassionato) biografo. Ipotesi suggestiva, questa dei così detti due tempi della Commedia, anche se non dimostrabile (ma mai nemmeno del tutto confutata in sede scientifica), secondo la quale, cioè, il poeta avrebbe cominciato a scrivere la Commedia prima dell’esilio, quando ancora si trovava in Firenze, limitatamente ai primi sette canti dell’Inferno. Questo sarebbe il primo tempo della Commedia. Il secondo tempo, invece, sarebbe iniziato, grosso modo, intorno al 1306, o 1307, in esilio, a partire dal canto VIII dell’Inferno, che, aveva fatto notare già Boccaccio, non a caso inizia proprio con l’espressione:

Io dico, seguitando, ... (If, VIII, 1).

Il riferimento alla tesi dei due tempi della Commedia compare chiaramente in più pagine del romanzo:

Quando aveva concepito l’idea di una visione viveva ancora a Firenze, era stato eletto priore, era al culmine della sua carriera politica. Voleva insegnare ai suoi concittadini a vivere in pace; pochi mesi dopo, i fiorentini avrebbero scatenato una guerra civile [...].

Il giorno prima della sua fuga da Firenze l’aveva vista armeggiare intorno a un piccolo forziere [...].

«Lo porti con te, questo?»

«No» aveva risposto con un sorriso amaro, «conservalo per tempi migliori».

Su quei fogli erano scritti i primi canti della visione da lui concepita per ammaestrare i fiorentini alle virtù civiche. (pp. 127 e 131)

Gargano Trifone declama

Santagata pone pure la questione critica della così detta poesia indicibile, cioè, della poesia non dicibile con le sole parole umane; dunque, poesia dell’ineffabile, del non inesprimibile:

La mente umana mica può trattenere il ricordo di ciò che Dio gli ha eccezionalmente concesso di vedere e udire nella città celeste. La lingua umana non potrebbe mai articolarlo in parole. (p. 76)

Credo di poter affermare che la lettura di romanzi come questo, specie se suggerita e consigliata nel corso dei primi due anni degli studi secondari, avrebbe, nella mente di un giovanissimo lettore, l’effetto potente di suscitare in lui quella curiosità (letteraria e storica), intorno ai Classici della nostra letteratura, che, poi, nel corso del triennio successivo, verrebbe colmata, con lo studio sistematico della storia letteraria. Un viatico, dunque. Agli occhi, invece, di un lettore adulto, di un lettore esperto, ritengo che il romanzo Come donna innamorata abbia poca attrattiva, in termini di aspettativa di lettura (per la trama, per lo sviluppo narrativo delle vicende, per l’esito finale, ecc.), in quanto, un lettore adulto saprebbe già che Beatrice muore (l’8 giugno del 1290).

Le cose non possono andare diversamente. Il lettore adulto, inoltre, sa pure che Dante, a seguito della morte prematura di Beatrice, cadrà nella disperazione più nera; come sa anche, che, egli intraprenderà la scrittura della Vita nuova (per poi interromperla e dar concretezza al progetto della Commedia), per celebrare la sua donna, raccontando la storia d’amore. Beatrice, agli occhi di un lettore adulto, è forma storicamente e narrativamente compiuta. Non costituisce alcun tipo di attrattiva. Analogamente, per tutti gli altri personaggi storici del romanzo, come Gemma Donati, Guido Cavalcanti, Brunetto Latini. Tutte forme prevedibili, poco attraenti, perché storicamente compiute.

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