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Roma
Coronavirus Roma, Raggi vuole pieni poteri: così porte aperte alle nuove mafie

di Cristina Grancio *

Il Covid è stato il banco di prova sulla quale si è schiantata l’autonomia delle regioni più decantate per la loro capacità a produrre lavoro e denaro.

La verità è che quella agognata autonomia, che tanto si desiderava, non era mirata in termini di capacità dell’amministrazione a produrre efficienza ed efficacia, ma tali scelte erano dettate esclusivamente dall’ingordigia di gestire i settori maggiormente redditizi in termini monetari, come la sanità.

Il sindaco di Roma ha rilasciato sabato scorso un’intervista al direttore de “La Repubblica” dalla lettura del quale affiora una volontà di muoversi, senza spartito con il rischio di fare scelte scellerate che potrebbero macchiarsi della colpa di aprire un’autostrada ed agevolare, pur non volendo, l’illegalità nella gestione degli appalti pubblici chiedendo poteri assoluti per i sindaci funzionali ad un taglio alla burocrazia per comprimere i tempi di realizzazione delle opere e gestire fondi senza fare una seria valutazione delle conseguenze ne di quanta economicità, efficienza ed efficacia questa scelta possa essere portatrice per le amministrazioni.

E’ chiaro che la Raggi comincia ad avere la percezione della gravità della situazione in cui non solo l’Italia, ma in modo particolare la sua città sta precipitando. Il malessere, la frustrazione dei cittadini è alle porte per la mancanza di lavoro, in particolar modo teme quei cittadini che per quattro anni sono stati sottoposti ad una melina da parte dell’istituzione capitolina, una per tutte, la partecipata Roma Multiservizi, e che ora presenta il conto all’istituzione romana.

Il sindaco è sembrato essere ingenua, il più delle volte, allorquando venivano arrestati prima Marra, poi Lanzalone, quindi De Vito, ove le questioni giudiziarie sono entrate facendo rumore in Campidoglio senza che la prima cittadina desse l’impressione di percepire cosa si muovesse attorno a lei ed attorno alle vicende connesse; ora, invece, ha la pretesa di credere che gli appalti pubblici posano essere tutti gestiti secondo il c.d. “modello Genova”.

Il Decreto Genova, usato per la ricostruzione del ponte Morandi, è stata un’immensa lacerazione del diritto, in deroga al codice degli appalti ed a tutte le norme extrapenali, dove un commissario ha potuto affidare direttamente i lavori, ottenere velocemente i finanziamenti, chiedere ed ottenere permessi rapidamente e senza incertezze. Ora la Raggi invoca per i sindaci questi poteri, nell’idea che qualsiasi intervento pubblico possa avere le caratteristiche di straordinarietà del ponte Morandi, un’opera strategica a livello nazionale che, nonostante, abbia avuto i fari di tutta Europa puntati addossi, che la illuminavano a giorno, non è stata in grado di evitare le infiltrazioni mafiose che hanno portato anche ad arresti. L’eccezionalità della genesi di quell’opera, non poteva permettersi scivoloni legati alla camorra, ciò nonostante è accaduto, ma l’eccezionalità data dalla morte di decine di persone, ha anche portato ad una eccezionale disponibilità dei cittadini di Genova ad accettare grandi sacrifici che fortunatamente, non sono ripetibili in condizioni di normalità.

Le parole della Raggi si traducono in un appello alla disperazione, così come quello di questo Governo in cui si percepisce il timore del fallimento di Roma e dell’Italia; disperazione tangibile nella disponibilità a qualsiasi forma di soluzione pur di poter riuscire a sbandierare effimere risposte al problema.

Il lasciare ampio spazio di discrezionalità nella scelta dell’affidamento di un appalto che deriverebbe dal taglio netto della burocrazia, coniugando questo taglio alla capacità di contrastare la crisi a cominciare dall'usura e paragonare ciò alla lotta che la giustizia della Repubblicana Italiana ha fatto ai Casamonica e perdipiù indossando lei la maschera della paladina, per esempio, significa stravolgere la realtà a favore proprio di chi si dovrebbe combattere.

In quattro anni di amministrazione la Raggi ha bruciato quelli che erano gli strumenti conosciuti da tutti per la lotta alla corruzione: mi riferisco alla partecipazione, alla trasparenza ed alla professionalità, elementi imprescindibili per produrre progettazioni di qualità. Strumenti, quelli della partecipazione, trasparenza e professionalità sbandierati per acquistare consensi elettorali, convogliati, poi invece nell’opacità.

La sintesi di questa opacità le ritrovo nel cassetto dei ricordi quando Bonafede, l’odierno Ministro della Giustizia, allora parlamentare Cinque Stelle sosteneva, mentre mi redarguiva in Campidoglio per un mio post dal titolo “Stadio sì, ma nella legalità”, che: “questa Giunta (la giunta Raggi n.d.a.) stesse valutando tutte le opzioni possibili (per la realizzazione dello Stadio della Roma n.d.a.) nella maniera più riservata possibile perché dall’altra parte ci sono dei mostri”. A quella riservatezza allora non ero riuscita a darle un nome o un volto.

Mi chiedo, oggi, quale sia il ruolo della Raggi ora, sindaco di una Roma che, nonostante lo sfacelo in cui versa, è l’unico baluardo rilevante del Movimento 5 Stelle per rimanere in sella ed è anche l’unico soggetto che può offrire una giustificazione, una parvenza di veridicità, legata alla opportunità di ascoltare le esigenze di un territorio importante quale la Capitale, per stravolgere le regole. Se rimarranno in sella questi cavalieri, che cavallo montano inconsapevolmente? Quello di Troia? La semplificazione amministrativa agevolerà l’entrata delle nuove mafie, quelle delle nuove generazioni, istruite, laureate, passate dalle stalle alle stanze con i bottoni.

* Cristina Grancio, consigliere DemA Gruppo Misto

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