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Roma
Covid e povertà, la coppia infernale. Il Recovery Fund unica salvezza

di Andrea Catarci *

Il Rapporto sulla Situazione sociale del Paese del Censis, tra molteplici spunti di riflessione, tratteggia un allarmante quadro dell’Italia del 2020 e conferma il carattere classista della pandemia.

Si muove dalla considerazione generale che essa, descritta come una di quelle “giravolte della storia” che trasformano profondamente il vivere individuale e collettivo, ha aggredito una società stanca, provata da anni di crisi, incerta sulle prospettive, aumentando rancori e risentimenti, paura dell’ignoto e ansia.

Sono in aumento povertà, sofferenza e cattiveria sociale

Uscendo dall’indistinto ci si accorge che sul piano economico il covid non ha colpito ovunque allo stesso modo, accanendosi sulla parte bassa della scala sociale e ampliando le disuguaglianze. Infatti, nel frastagliato mondo del lavoro, soltanto i 3,2 milioni di dipendenti pubblici mantengono sicurezza di reddito, restando però senza contratto collettivo nazionale e avendo subito blocco degli scatti e allungamento dell’età pensionabile. Poi si entra nelle sabbie mobili del settore privato, con il 53,7% degli occupati nelle piccole imprese e il 28,6% delle grandi aziende che temono la disoccupazione, seppur provvisoriamente protetti dal divieto di licenziamento. Non va meglio nella fascia media del lavoro individuale, autonomo e precario, con un 23% che ha continuato a percepire gli stessi redditi familiari e un 77% in rapida discesa. Sono messe peggio le categorie deboli della manifattura e dei servizi, delle imprese piccole e micro, dei contratti a tempo determinato e delle partite Iva. Ancora giù, all’ultimo gradino, si accomodano i precari della gig economy, circa 5 milioni di persone che sopravvivevano con lavoretti casuali, sommersi e al nero: si sono dissolti nel nulla o, per riprendere l’immagine da brividi del Rapporto, “hanno finito per inabissarsi senza rumore”. Stanno in imprevista compagnia dei “vulnerati inattesi”, cioè imprenditori, professionisti, commercianti e artigiani dei settori maggiormente colpiti. In questa tragedia nella tragedia, infine, a pagare il conto più salato è l’occupazione giovanile e femminile: nel terzo trimestre 2020 ben 457.000 su 605.000 posti di lavoro persi, rispetto al 2019, erano proprio di giovani e donne, il 76% del totale.

La risposta insufficiente è stata la “bonus economy”, ovvero i sussidi e i ristori per 26 miliardi di euro destinati a circa 14 milioni di persone. Nonostante il Censis ne sottolinei l’inadeguatezza e malgrado il carattere superfluo di alcune misure - vacanze, monopattini, biciclette -, essa ha costituito un concreto sostegno per varie categorie in difficoltà. Non ha invece contrastato la solitudine degli invisibili né il mescolarsi di paure, rancori e privazioni materiali, che produce un’esplosione di cattiveria sociale in svariate forme: basti pensare al 43,7% che si dice favorevole alla pena di morte, a quasi il 50% per cui è giusto assistere gli anziani solo dopo di loro, al 31,2% che non vuol curare chi ha avuto comportamenti irresponsabili, al 56,6% che chiede il carcere per chi viola la quarantena.

Una ristretta élite economica sempre più ricca si sottrae a responsabilità e solidarietà

Non è andata male a tutti sotto il profilo economico. Se il fiume in piena ha travolto ampi strati della popolazione, alcune minoranze privilegiate l’hanno scampata: sono state danneggiate poco o addirittura hanno riportato un vantaggio. “Sono 1.496.000 le persone con una ricchezza che supera il milione di dollari (circa 840.000 euro): sono pari al 3% degli italiani adulti ma possiedono il 34% della ricchezza del Paese”, compresi 40 miliardari. Durante il lockdown sono aumentati nel numero e nel patrimonio.

Una spaccatura insanabile percorre lo stivale nell’era del covid, da nord a sud. Da una parte ci sono i tanti accomunati da una parabola ampiamente discendente: il lavoro dipendente e precario, quell’insalata mista chiamata ceti medi, l’universo degli scomparsi, i vulnerati inattesi, il non lavoro. Dall’altra i pochi dell’élite economica, indisponibili a qualunque redistribuzione delle ricchezze, egemonici su governo e parlamento al punto da bloccare sul nascere ogni idea di patrimoniale, pronti a tuonare contro le misure assistenziali, a livellare al ribasso le tutele e a reclamare l’intero bottino delle risorse pubbliche. D’altronde prima del 2008 della crisi - dagli anni ’80 del Novecento - una classe dirigente abbastanza omogenea a quella di oggi sottraeva 8 punti di Pil ai salari e li investiva in disastrose avventure nei circuiti della finanza globale anziché in impianti, macchine, tecnologie, ricerca, brevetti.

Recovery Fund e politica redistributiva possono cambiare le cose: è un’occasione unica

Nel groviglio della questione italica la persistenza di un’imprenditoria improduttiva è uno dei principali problemi e fa il paio con l’inadeguatezza della sfera politica e governativa. Per questo sembra difficile che trovi ascolto la sollecitazione contenuta nel Rapporto ad andare verso “un ripensamento strutturale per la ricostruzione”. Eppure alle porte ci sono i 209 miliardi in sussidi e prestiti del Recovery Fund, con cui puntare alla transizione ecologica e digitale dell’economia, a rafforzare i sistemi pubblici di sanità e istruzione, ad assicurare “buona occupazione”, a garantire un reddito universale sinonimo di dignità. Il governo Conte deve però avere il coraggio di scegliere i tanti: nell’utilizzo delle risorse europee e in generale, oltre che con una sacrosanta patrimoniale, applicando diversi meccanismi fiscali per redistribuire. Non serve vivacchiare: è il tempo della trasformazione, dopo non resteranno che i rimpianti.

* Andrea Catarci, coordinatore del Comitato scientifico di Liberare Roma

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