Roma

Roma criminale: Appello amaro per le cosche Carzo e Alvaro, chiesta la conferma delle condanne col rito abbreviato

Per la 'ndrina romana procede il processo ordinario per gli altri imputati: “Noi siamo una propaggine di là sotto”

Chiesta in Appello la conferma delle condanne inflitte in primo grado, con rito abbreviato, nell’ambito della maxi inchiesta ‘Propaggine’ dei pm della Dda della Capitale contro le cosche calabresi Alvaro e Carzo.

Al termine della requisitoria, i pm Giovanni Musarò e Stefano Luciani applicati nel procedimento con il sostituto procuratore generale Paolo D’Ovidio, hanno sollecitato la conferma, tra gli altri, della condanna inflitta nel 2023 a 20 anni ad Antonio Carzo, il boss ritenuto insieme con Vincenzo Alvaro a capo della prima ‘locale’ di ‘ndrangheta nella Capitale.

In primo grado 17 condanne

Nel primo grado, il gup del tribunale capitolino aveva inflitto 17 condanne tra le quali anche quelle a 16 anni e 6 mesi per Domenico e a 12 anni e 2 mesi per Vincenzo, entrambi figli di Antonio Carzo.

Intanto davanti all’ottava sezione penale del Tribunale di Roma prosegue il processo ordinario per gli altri imputati. Nell’inchiesta sono state contestate, a vario titolo, le accuse di associazione mafiosa, cessione e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione aggravata e detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni, truffa ai danni dello Stato aggravata dalla finalità di agevolare la ‘ndrangheta, riciclaggio aggravato, favoreggiamento aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa.

La 'ndrangheta aveva messo le mani su Roma

Carzo e Alvaro, appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria, erano, secondo l’impianto accusatorio, al vertice della ‘locale’ che operava a Roma dal 2015 dopo avere ottenuto l’investitura ufficiale dalla casa madre in Calabria.

Le intercettazioni

“Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto”, dicevano in un’intercettazione gli indagati. E nelle conversazioni riportate nell’ordinanza del gip alcuni degli indagati facevano riferimento proprio al lavoro di alcuni magistrati e poliziotti che avevano lavorato prima in Calabria e poi a Roma: “c'è una Procura... qua a Roma ... era tutta ...la squadra che era sotto la Calabria. Pignatone, Cortese, Prestipino”…“e questi erano quelli che combattevano dentro i paesi nostri ...Cosoleto ... Sinopoli... tutta la famiglia nostra...maledetti”. A Carzo viene contestato il ruolo di promotore, avendo ricevuto dall’organo collegiale di vertice ‘la Provincia’ l’autorizzazione alla costituzione della locale di Roma, e quello di direzione insieme a Vincenzo Alvaro. In particolare Alvaro, secondo gli inquirenti, era capo di una ‘costola’ del sodalizio composta, tra gli altri, da cognati, nipoti, e altri soggetti, così come Antonio Carzo che ne capeggiava un’altra insieme a due figli.