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Roma
Roma, galleria degli orrori sociali. Parliamo di futuro senza Virginia Raggi

di Andrea Augello

Il declino di Roma negli ultimi dieci anni è un dato di fatto misurabile da molte angolazioni, a cominciare dalle condizioni di totale degrado in cui versa la città. Conclusa l’epoca in cui la Capitale non riusciva a rincorrere la capacità delle altre metropoli europee di generare profonde trasformazioni urbanistiche o produrre eventi culturali, economici, fieristici, siamo entrati in una fase depressiva in cui il Comune non riesce più neppure a garantire servizi essenziali.

La nettezza urbana, il trasporto pubblico, la manutenzione delle strade, persino l’illuminazione pubblica, non sono più servizi erogati in modo sufficiente in troppi quartieri della città. Inoltre il degrado aumenta la percezione di insicurezza e le tensioni sociali nella popolazione: se mi fai vivere in mezzo a discariche abusive e roghi tossici, non mi importa molto che le rapine siano diminuite di mezzo punto percentuale, perché la mia famiglia respira un’aria schifosa e convive con i cattivi odori quotidianamente, il che mi rende estremamente aggressivo verso istituzioni che non provano nemmeno a mettere fine alla gestione criminale ed abusiva del trattamento dei rifiuti.

L’insicurezza sociale è la madre di tutte le paure e il dopo Coronavirus si presenta, a Roma, come una galleria degli orrori: ci aspettiamo un 13% in più di disoccupati, la chiusura del 20% delle attività nel settore turistico, alberghiero e commerciale, oltre un’ulteriore lunga battuta di arresto degli investimenti privati in tutti i settori e soprattutto nel mercato immobiliare. Sarebbe dunque necessario aprire un dibattito concreto e fattivo su come evitare che la città finisca col precipitare in uno stato economicamente comatoso, dal quale diventerebbe assai problematico immaginare una fuoriuscita nel breve periodo.

Mi duole doverlo premettere, ma da questo dibattito rimane pregiudizialmente esclusa Virginia Raggi: non solo perché ha fornito ampie e ripetute prove di non comprendere la complessità dei problemi che stanno mettendo in ginocchio la città, ma perché non ha mostrato neppure la prudenza di affidarsi a persone capaci che riscuotessero la sua fiducia.

A cominciare dalle aziende di servizi di cui il Comune è azionista unico o di maggioranza, dove il passatempo principale del Sindaco è stato nominare manager e dirigenti con cui è poi subito entrata in conflitto o che, come nel caso Acea, sono stati travolti da tempeste giudiziarie. Ama è oggi sotto inchiesta per falso in bilancio, una tegola che giunge dopo anni di tensione tra management e Comune, costati la poltrona a due assessori all’ambiente - la Muraro e la Montanari - e a tutto il Cda prima di Lorenzo Bagnacani e poi del ticket Melara/Longoni, sempre per problemi connessi alla redazione del bilancio. I disservizi hanno raggiunto livelli paradossali, tanto da scatenare un’inchiesta della Procura sulla sciagurata gestione della raccolta presso le utenze non domestiche.

Per non parlare di Atac, dove le conseguenze del calo delle entrate della biglietteria durante l’emergenza Covid rischiano di mettere in discussione il già fragile equilibrio di un’azienda sull’orlo del collasso, su cui gravano le pesanti condizioni di un concordato che ha solo rinviato i rischi di fallimento.

Anche la gestione del bilancio comunale ha dimostrato tutte le fragilità del sindaco: Virginia Raggi ha scoperto a spese della città come la gestione degli equilibri finanziari capitolini sia materia per lei - e purtroppo anche per i suoi compagni di partito - assolutamente incomprensibile. Sembra passato un secolo da quando Daniele Frongia - che prima della vittoria della Raggi si autocertificava esperto dei conti capitolini - spiegava che risorse per rilanciare la città ce ne erano fin troppe già disponibili. Bastava tagliare ruberie e sprechi e lui sapeva come fare. Scrisse persino uno sgangherato libretto, intitolato “E io pago”, probabilmente con l’aiuto di Raffaele Marra, a quel tempo consulente gratuito della pattuglia di opposizione grillina.

Tassando il Vaticano, recuperando morosità e non sprecando più l’acqua delle fontane capitoline, Frongia era certo che il Campidoglio avrebbe recuperato risorse vicine al miliardo di euro l’anno. Lo hanno poi prudentemente relegato a gestire - male - le attività sportive nella Giunta Raggi e pare che intenda fuggire prima delle prossime elezioni, cogliendo al volo l’opportunità di fregiarsi di un promettente contratto manageriale sportivo. Se qualcuno riconoscesse generosamente il controvalore di 50 centesimi a fronte di ogni stupidaggine scritta in quel libro, forse non risaneremmo i conti del Comune, ma certo raccoglieremmo diversi milioni di euro per una qualunque buona causa benefica.

Così al bilancio si sono succedute, con l’effimera consistenza di meteore in transito in un cielo notturno, le stagioni di Mazzillo e Minnenna, di cui la città non serba alcun ricordo, per arrivare poi alla nomina di Gianni Lemmetti, un tipo che ricorda gli esordi proletari di Lo Tito come Presidente della Lazio, quando metteva in prima squadra i fratelli Filippini ed altri volenterosi atleti a parametro zero o comunque a bassissimi costi di ingaggio. Grazie a Dio Lemmetti non ha un fratello da portare in Giunta, ma è stato importato da Livorno e cooptato nel governo cittadino con lo stesso criterio: ha un profilo basso, è estraneo alle faide romane del Movimento Cinque Stelle, parla poco, non sporca e quindi, politicamente, costa poco. Ovviamente di contabilità pubblica non capisce granché, ma chi volete che se ne accorga in Campidoglio?

Difficile parlare seriamente di crescita e rilancio della città con questa gente, che pure si è giovata del passaggio a carico dello Stato di 1,4 miliardi di euro del maxi bond veltroniano del 2004 - che tra l’altro sviluppa interessi fino a un onere complessivo di poco superiore ai 3,5 miliardi - senza però neppure tentare di porre il problema centrale per il futuro di Roma: rientrare a pieno titolo nella programmazione economica degli investimenti del Governo nazionale, con un piano decennale dedicato alla resurrezione della Capitale. Meglio, molto meglio che questa prospettiva venga discussa con il mondo imprenditoriale, con gli intellettuali, con la stampa cittadina, con i docenti delle tre università, con tutto ciò che di vivo e vitale c’è ancora a Roma e che non si rassegna al declino. Perché è verissimo che il dopo Covid si presenta come un dolorosissimo Calvario, ma porta con sé anche un ventaglio di opportunità, con l’arrivo delle risorse dei cosiddetti Recovery bond.

Se la crisi si registra soprattutto nel settore turistico e alberghiero, nel terziario, nel commercio, nell’edilizia e nel tessuto delle PMI, per il peso che hanno Roma e il sistema Roma su queste filiere, è semplicemente impossibile immaginare una ripartenza che non assembli nella Capitale il suo motore principale. Abbiamo pochi mesi per definire la progettazione di questo motore e anche due protagonisti politici della scena nazionale, Nicola Zingaretti e Giorgia Meloni, che a Roma hanno le loro radici e la loro principale base politica di riferimento, ai quali affidare la speranza che il futuro della Capitale torni ad essere, dopo decenni, un tema centrale nei programmi delle loro coalizioni di riferimento. Per la mia esperienza, purtroppo non indifferente dal punto di vista anagrafico, su questioni di questo genere un dialogo, non ostentato sui media ma concreto e fattivo, tra destra e sinistra, ha già dato in passato qualche frutto decente. Penso agli anni della coabitazione tra la Giunta Storace alla Regione e la Giunta Veltroni al Comune, nel corso della quale si completarono grandi infrastrutture viarie, come la terza corsia del Gra, oltre alla riorganizzazione dell’offerta dei servizi sanitari, con l’apertura del S.Andrea, del Policlinico di Tor Vergata, dell’IFO e la ristrutturazione della piastra del San Camillo.

Di quel periodo ricordo il grande pragmatismo con cui, in tanti momenti difficili nel rapporto con il governo in carica, era normale che mi confrontassi con l’Assessore Causi sul da farsi. Rispetto ad allora, oggi la posta in palio è molto più alta, perché molto più drammatica è la situazione in cui siamo tutti chiamati ad agire rapidamente: è necessario creare una zona franca da ogni contrasto e dalle incertezze di un quadro fin troppo fluido politicamente, all’interno della quale definire un piano condiviso di ricostruzione del tessuto economico cittadino. La pandemia, oltre a tante tragedie, offre anche questa opportunità: circostanza che crea un discrimine lungo il quale possiamo ancora sperare di ritrovare una classe dirigente romana degna di questo nome.

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