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Roma
Vacanze finite, le letture no: “Le mie scarpe”, quarto racconto firmato Soares

“Le mie scarpe” è il quarto racconto estratto da “La piega del tempo” di Adriana Soares, fotografa, pittrice, poetessa e scrittrice di racconti per piccoli e per grandi e prossima romanziera, nata a Rio de Janeiro, e che vive a Roma dall’età di 11 anni.

 

"La piega del tempo" rappresenta l'ottava fatica letteraria della sorprendente autrice. È una raccolta di dieci racconti intervallati da alcune delle sue poesie in cui si specchiano le nostre miserie, costituendo per questo un chiaro monito a tutti noi. È inoltre in pubblicazione nel prossimo autunno l’ennesima fatica letteraria di Adriana Soares, giunta alla sua nona pubblicazione, con il suo primo romanzo intitolato: ”Presenze invisibili a Quixada”. Lo scritto è un thriller psicologico laddove il crimine e la sua espiazione possono rappresentare un nuovo inizio.

Ogni bambina ha un rapporto speciale col proprio padre. E qui fuoriesce un legame che dura tutta una vita, nonostante la più grave delle separazioni: la morte.

LE MIE SCARPE

Muovo le dita dei piedi. Dita lunghe, affusolate, con le unghie curate. Le muovo nella sabbia bianca, farinosa, luccicante, godo dalla sensazione di calore al tatto, una brezza calda ma avvolgente, che sa di mare, di mare calmo. Muovo le dita dei piedi a intermittenza, le faccio affiorare dalla sabbia, poi le rifaccio sprofondare in un gioco infantile pieno di sensazioni corporee. Seduta, con le ginocchia al petto, appoggio il viso su di loro e osservo le mie dita e ogni granello che scivola a terra o che resta attaccato negli interstizi delle unghie o tra le dita. Sento il tallone che sprofonda sempre più giù, scricchiolando.

Lo giro cercando di fare un buco nella sabbia per nascondere sempre di più e di tirare sempre più su la sabbia, i miei pensieri ammassati, fino a scioglierli, contandoli uno a uno. Ecco i miei piedi, sono l’azione del ricordare ed io cerco di scavare sempre di più in profondità per far riaffiorare il più possibile ciò che è occultato dalla mia coscienza.

Voglio l’incoscienza. So che io sono lì dentro, scavo sempre con più forza e veemenza fino a ferirmi i talloni ed a far saltare lo smalto delle unghie curate.

Guardo con disincanto, con tenerezza, e malinconia, l’orologio, un vecchio Seiko di mio padre accanto a me, appoggiato sulla sabbia, mezzo sepolto, eppure ancora perfettamente funzionante.

In quell’attimo, tanti e alcun pensiero in particolare, affiorano nella mia mente. Una folla di persone, un pezzo unico di tutto e niente.

La mia testa è piena, eppure sento un vuoto dentro.

Nonostante sappia che la donna che sono diventata sa benissimo che questi momenti non esistono nel mondo reale. Così, ogni tanto, mi immergo in un liquido autoprodotto, dentro a quel ventre immacolato nel mondo che più è vicino a me. Mi tuffo nella mia realtà immaginaria e accogliente, sicura, perfetta, mobile. Guardo quell’orologio, ormai è mio da quasi trent’anni, eppure sento che sia un prestito. Ogni cosa lo è in questo mondo. Ecco, come al mio solito faccio volare i miei pensieri in modo assurdo. Ogni tanto mi tuffo in luoghi abissali e finisco per non vedere, guardo in basso e non avanti. Giuro che cambierò. Poche volte riesco a fermarmi, a sedermi ed a pensare. Ho paura di questi momenti, per il semplice fatto che per forza mi devo dar retta, devo ascoltare e non è semplice sentire ciò che ho da dirmi.

Sono cruda, nuda, crudele, diretta, non perdono, non ho pietà di me. Non uso parole infiocchettate o compassionevoli con me. Gli errori sono errori, niente scuse. Cado? Bene, ora mi devo rialzare e non frigno. Non posso aver pietà di me, nessuno l’avrà, quindi, perché perdere del tempo col tempo?

Sono dura al di là di una pelle morbida e sensibile. Questa sono io, questa è la verità. Guardo i miei piedi, le mie scarpe posate accanto, il mio orologio. Sono in prestito, anche se mi hanno accompagnata ovunque in tutti questi anni. Quelle scarpe mi hanno seguita per lungo tempo.

Scarpe nere, dalla punta arrotondata, rassicurante, ormai del tutto screpolate dall’uso, nonostante fossero tanto curate e lustrate ogni giorno.

Il tutto come un silenzioso ringraziamento per avermi accompagnata ovunque in giro per il mondo e con quell’orologio usurato ma funzionante.

Le sole due cose fedeli che si sono fatte calpestare e che mi hanno sempre seguita.

Quell’orologio sempre con sette minuti in anticipo. Sono una donna che ha superato la quarantina, alta, più mora che bionda, sono consapevole che certi momenti non esistono, non possono esistere, non li trovo mai, ma sono consapevole che, solo in quei momenti, molte decisioni verranno prese. Sono una donna che si muove come un grande ragno, più desiderosa di avvolgere ogni cosa, di coprirla con la mia tela che guarda al di là. Però, quel ragno è ciò che vorrei essere perché quella tela l’ho costruita parzialmente. La dovrò ancora girare, avvolgere parecchio prima di dover fermarmi e costruire una tela- casa- tomba. Mi muovo in modo apparentemente sicuro, a volte mi capita di vestirmi apparentemente allo stesso modo, poi altre volte mi sconvolgo e mi vesto multicolore, anche a tinte forti e scombinate.

Oso, ma questa mia spinta dura poco.

Appena posso cammino a piedi nudi, amo il contatto fisico, tattile, con la terra e ora, qui al mare, mi sembra di stare finalmente tra i miei elementi, sono libera, sono felice e voglio esserlo e lo sono, per un attimo, per tutto il tempo che sarò qui, seduta con le dita, i piedi ed i talloni che scrocchiano sempre più in profondità nella sabbia lucente e calda.

Con estrema cura ho tolto le scarpe e, con ancora maggiore attenzione, le ho appoggiate al mio fianco, stando attenta a non farle sporcare. Perché sono cose diverse, il desiderio di essere me, selvaggia, bambina, spensierata e quella curata, attenta, contenta con le scarpe pulite, lucide.

Quelle scarpe erano di mio padre, sono uniche, come lo è il mio gesto nel toglierle, quelle erano reliquie a me lasciate in custodia.

Le ho riempite di cotone e le ho indossate per tutta la mia vita, fino a questo momento.

Le guardo e contemplo quell’orologio. Muovo i miei piedi e le mie mani con noncuranza, meccanicamente.

Sulla riva in controluce, intravedo la barca che attende che mi decida. So che quella barca è lì per me e nonostante sia seduta ed abbia la luce del sole negli occhi, riesco a sentire quello sciabordio, seppur lieve e delicato. Neanche un filo di vento in questo giorno, tutto è sospeso, in attesa con me. Guardo le mie scarpe e non so cosa decidere, se restare o se partire. Se andare al di là o restare di qua. Quella barca non mi attenderà per sempre, prima o poi si congederà.

Quella barca, come le scarpe e l’orologio, non potranno esistere, muoversi senza di me.

Dovrò decidere, prepararmi a salire, salpare in un pomeriggio primaverile. Non è un mistero quello che avvolge quel luogo, quella piccola spiaggia, accanto al porto di Niteròi, una città dello stato di Rio de Janeiro, baciata dalla luccicante e ridente Baia da Guanabara e quella barca bianca e azzurrina ereditata, quel timone che dominerò. Il mistero resterà in quelle scarpe, che lascerò appoggiate su di una roccia gremita di molluschi lucenti, secchi, in attesa dell’alta marea, per essere avvolti occultati da quell’acqua cristallina e fresca al calar della sera. Le mie scarpe con la punta arrotondata rivolte verso il cielo. Alla fine come vanno tutte le cose, non le guarderò più, girerò pagina, le darò le spalle ed il mio unico pensiero sarà passare in rassegna ciò che ho da portare, e ciò che potrò portare con me.

Sospiro più volte, mi alzo e mi risiedo, le riguardo, mi lacero, le prendo una ad una, le guardo dentro, sento il loro odore.

Odore di cuoio vecchio, odore di me, cerco quell’ odore non mio, cerco mio padre. Se mi chiedessero di descrivere quell’odore, non saprei farlo, sarebbe come descrivere me, l’idea di me.

Sono trent’anni che porto delle scarpe non mie, piene di cotone, che vivo la vita di un altro, i suoi sogni, le sue aspirazioni. Le ho lustrate, ho parlato con loro, mi sono confidata, non mi hanno mai fatto sentire sola.

Erano accoglienti, affidabili.

Ormai non c’è più nulla di materiale che sa di lui, ma solo l’idea di lui, quindi sono pronta, lui è dentro di me, non più in quelle vecchie scarpe dismesse, screpolate, nostalgiche, comode.

Invece, l’orologio è diventato me, non posso controllare il tempo, ecco che il ticchettio automatico mi conforta, è lo sciabordio delle onde.

Sospiro, guardo il cielo, la linea dell’orizzonte, la schiuma, le onde che mi chiamano lontana, mi promettono, cantano per me.

Al di là ci sarà la mia vita, la mia, finalmente quella nuova. Ora voglio scegliere. Le ho portate molte volte con noncuranza, mossa dall’abitudine, senza pensare che erano le scarpe di un morto, ed io non ho mai accettato questa realtà. Finche fossero state ai miei piedi, lui avrebbe vissuto, avrebbe visto il mondo con i miei occhi e sentito la terra sotto i miei piedi.

Così, come il serpente che cambia pelle per poter continuare a vivere, le abbandonerò e avrò la possibilità di essere responsabile, artefice del mio futuro.

Non sarà più il suo, ma il mio. Voglio futuri di ricordi che verranno. Voglio che siano i miei.

Ecco, li lascerò lì, in attesa, aspetteranno qualcuno con cui condividere il loro andare.

Le poso una accanto all’altra, le sposto da destra a sinistra, sotto sopra, le guardo di lato, sotto le suola, usurate, nonostante le risuolature, la realtà non cambia, saranno sempre le sue vecchie scarpe.

Penso come sarebbe stato separarle, offrire loro la possibilità di farle seguire ad ognuna, una strada diversa.

Non è possibile. Così, sospiro ancora.

Una lotta tra la me e l’altra me. Quelle scarpe appoggiate su se stesse rivelano di non essere scarpe normali, ordinarie.

Quell’orologio scandisce il momento di andare, ma io, oggi, compierò un gesto rivoluzionario. Resterò ancora per un po’ qui, in compagnia di me, e ascolterò con umiltà ed attenzione ciò che avrò da dirmi.

Continuerò a muovere le mie dita sotto la sabbia e cercherò di contare i granelli di sabbia che scorrono, scivolano a destra e a sinistra del piede e quelli temerari che restano aggrappati in lotta contro la gravità.

Resteranno sul piede come una grande zattera che li porterà chissà dove. Anche loro sono in cerca di avventura, avranno un’anima? Chissà.

I pensieri si muovono in libertà, pensieri idioti, e pensare che desideravo solo ascoltarmi.

Si vive di numeri, di grandezze, si può dare la dimensione ai sentimenti, alla sofferenza, alla delusione o alla speranza?

A volte ognuna di queste sensazioni avrà l’ampiezza di un paesaggio compreso di linea dell’infinito, che si piegherà su se stesso per abbracciarmi.

Sarò in mezzo alle nuvole, mi mancherà il respiro e annegherò tra le gocce di quella pioggia che ancora non si è riversata a terra.

È ancora non pioggia, è nuvola, è aspirazione. Io sono nuvola in attesa. Ora ascolto il mio silenzio. Il mio terrore non era giustificato.

Non sono così terribile, dunque?

Oppure sto cercando le giuste parole per poi scaricarle tutte assieme, in un monologo schizzato, insensato.

Quelle scarpe appoggiate su se stesse rivelano di non essere normali, ordinarie. Quell’orologio non si fermerà mai.

Mi arrotolo i pantaloni, mi muovo e mi avvio verso la riva, a piedi nudi, con l’orologio al polso.

Non ancora, aspetto al di qua ancora per un momento, il tempo che trascorre tra un sospiro e l’altro. Così, nel frattempo, si era fatta sera, mi ero persa nei meandri della mia mente. Mi sono ritrovata seduta sulla sabbia, ormai nera di quella piccola spiaggia.

Annusavo l’aria calda e gonfia d’umidità. Gli occhi si tuffavano dentro le acque nere e calme del mare e lì avrebbero desiderato rimanere immersi e cullati dalle dolci onde notturne. Non mi ricordavo com’ero arrivata in quella città, l’avevo completamente rimosso.

Ero più vigile del solito ed i miei sensi erano così tesi che sembravano in attesa di qualche inevitabile evento. Percepivo ogni respiro, ogni passo, ogni bisbiglio, riuscivo perfino a sfiorare i pensieri degli ignari passanti.

I granchi ticchettavano nervosamente sugli scogli lisci e consumati dal continuo lisciare delle onde schiumose, piene e pesanti, alcuni schizzavano in cerca di riparo sotto le rocce, altri, invece, venivano inghiottiti dalle onde argentee per poi rispuntare sotto la luce lunare più lucenti e colorati di prima. Il vento caldo sfiorava gli alberi delle barche in mare e le foglie degli alberi in terra, ammassandole l’una sull’altra quasi con cura e precisione, fino poi a gonfiarle spingendole in un vortice informe, alzandole da terra per poi riposarle giù sul marciapiede caoticamente. Con una certa sfacciataggine continua il suo cammino, slacciando e portando via un foulard dai grandi fiori colorati sopra impressi, scompigliando così dispettosamente i capelli di una vecchia fioraia, che con la sua mano nodosa, con un certo imbarazzo, come se fosse stata privata delle sue vesti, li rimescola alla buona e prova a ricomporli in un abbraccio stretto dentro ad un elastico consumato dal tempo. Non poteva lasciare solo il suo prezioso banco all’inseguimento del suo unico foulard, così ci ha rinunciato. Fortunatamente, una mano gentile glielo restituisce. Ho deciso di alzarmi e spostarmi da lì.

Salto sul largo marciapiede che affianca la spiaggia. Cammino contro vento lungo la banchina e vengo colpita violentemente da un odore pungente di pesce e molluschi in putrefazione. Questo squallore mi catapulta nella realtà, interrompendo quell’attimo di solitudine caotica.

La puzza liberata da montagne di gusci di cozze era insopportabile.

Erano ammucchiate a bordo mare, su di un tappeto di alghe secche dal colore scuro. Liberavano stranamente del fumo denso e scuro che danzava in aria in balia del vento.

All’improvviso, vengo quasi buttata giù da un ragazzo. Si affrettava con passo sostenuto, con un secchio di plastica scolorito in testa, colmo di buste trasparenti gonfie di cozze dal colore arancione, appena sgusciate. In un attimo, ho incontrato il suo sguardo, era pieno di storie di vite sospese o mai vissute, tanti rimpianti ed un’immensità di sogni semplici ma impossibili da realizzare, tutti ammassati e quasi dimenticati in un angolo impolverato della sua mente. Mi sono sentita quasi in imbarazzo per la sua triste e disincantata profondità. Allungo il passo e attraverso la strada. Sentivo intorno a me, un intrecciarsi di passi, alcuni erano leggeri, altri pesanti, altri ancora incerti. Alcune persone erano chine su se stesse, come se avessero tutto il mondo sulle loro spalle. Altre, invece, si affrettavano come se stessero scappando. Mi sentivo parte di un formicaio. Un gruppo di gabbiani chiassosi strillavano convulsamente intorno ai pescherecci in arrivo nel porto di Niteroi, in preda ad una incontrollabile frenesia, per la presenza dei pesci appena pescati. I pescherecci con le loro sirene acute, avvertivano stancamente, con la solita metodicità che erano in arrivo. Che fossero in arrivo o in partenza mi era alquanto indifferente. Il suono delle sirene si fondeva ai rumori, alle voci, alle risate ed ai canti, il lezzo dell’immondizia abbandonata sul marciapiede si decomponeva nell’indifferenza generale. Il fetore si confondeva con l’odore di carne arrostita e del fritto di pesce e di gamberetti proveniente dalle bancarelle improvvisate, con delle casse di legno coperte da tovaglie di plastica in finto pizzo, il tutto condito dalla propaganda di un politico, trasmessa dagli altoparlanti montati su di una macchina girovaga e sgangherata. Questa automobile era il risultato della fusione di più automobili, dato che era multicolore e piena di ammaccature, toppe e ruggine. Il tutto dava l’idea di una realtà parallela, amara e quasi astratta. La mia testa si era persa nel vortice di luci al neon e quelle multicolori, ad intermittenza provenienti dalle bancarelle, queste mi obbligavano a vedere immagini frammentate, e provavo un senso di squallore per l’atmosfera forzatamente natalizia.

Delle ghirlande di plastica accartocciate, incorniciavano insieme alle lucette colorate di qualche anno abbellendo le bancarelle ed i chioschi di noccioline caramellate e quebra-queixo, una sorta di caramella mou gigante ed appiccicosa fatta di zucchero e cocco fresco. Strizzavo gli occhi come se fossi stata miope, cercando di mettere a fuoco il volto del povero venditore, perso in mezzo al fumo grigio, prodotto dal grasso sciolto e le luci variopinte delle lampadine appese ad una specie di arco, poco al di sopra della sua testa, tanto da sembrare una buffa aureola colorata. L’uomo offriva un mezzo sorriso poco convinto, illuminato solo da due denti d’oro che vagavano in solitudine dentro quel vuoto oscuro. L’immagine era tra il buffo e l’inquietante. Dalla stessa macchina sgangherata proveniva un terribile fracasso di una musica commerciale e sdolcinata, più simile al rumore di ferraglia che a qualcosa di armonico e non degno di essere chiamata melodia. Non ho mai capito perché la musica qui, in questa terra, sia sempre presente ovunque, anche negli angoli delle strade e sui pali dell’elettricità, sono montati degli auto parlanti. Da dove vengo io, invece, regnava il silenzio, anzi regnava l’equilibrio dei suoni naturali degli abitanti della foresta. Ero esausta, non tanto una stanchezza fisica quanto mentale. Avevo camminato per tutta la notte o per tutta la vita. Avevo bisogno di schiarirmi le idee, cambiare aria. Erano trascorsi troppi anni vagabondando senza una meta precisa e poi, all’improvviso, ero lì in quel posto squallido e maleodorante, ma reale. La mia esperienza vuole insegnarmi che nulla capita per caso, e che se mi fossi fermata proprio lì in quel luogo, forse, non era stato proprio un semplice caso. Gli ultimi anni della mia lunga esistenza li ho passati girando il mondo, cercando di comprendere, desiderosa di conoscere o di vivere semplicemente, vivere una vita normale, ma per me questa normalità non esisteva, non mi era concessa. Girai su me stessa e iniziai a camminare sulla banchina, mischiandomi ai passeggeri pendolari del primo mattino; attraversavano la Baia per raggiungere Rio. Era ancora notte e scendeva una pioggia quasi impercettibile e tiepida. Ho preso il traghetto che collegava le due città. Lasciavo alle mie spalle quella città squallida, dove gli edifici erano fatiscenti e privi d’illuminazione, qualche finestra qua o là era illuminata da una luce fioca dal colore giallo. In effetti, era ancora troppo presto. Sono rimasta in piedi sulla prua, attorno a me vi erano tante persone in piedi, erano troppe ma riuscivo comunque a sentire i loro pensieri. Li guardavo e lo sguardo di molti era spento, privo di scintilla. Pochi la possedevano. La crisi economica si era ormai incancrenita dentro al nervo del paese, continuava a dilagare ovunque con i suoi tentacoli, strozzando i deboli in una stretta morsa asfissiante. Questi uomini e donne, come automi, si spingevano verso l’uscita, spintonandosi come buoi all’uscita della stalla. Una volta sciolta la corda di sicurezza dell’uscita, saltavano sul ponte, almeno, pensavo, mostravano così qualche segno di vitalità, dato che non riuscivano ad aspettare che il barcone si accostasse totalmente alla banchina di cemento in sospeso sull’acqua nera. Per puro caso, qualcuno non è finito dentro le torbide acque del porto di Rio de Janeiro, tra lattine di coca cola, patatine fritte e buste di plastica.

Faccio i miei primi passi senza scarpe, guarderò per l’ultima volta questi luoghi familiari con occhi diversi senza poterli condividere, sono i miei ricordi, i primi.

Domani, all’alba salperò con la mia barca bianca e azzurrina, a piedi nudi.

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