Emilia Felix -‘ndrangheta a braccetto. Motivazioni Cassazione processo AEmilia

La popolazione è omertosa. Devastanti le motivazioni della Cassazione sulla sentenza AEmilia. Mille anni di carcere per i tre quarti dei 220 imputati.

L'opinione di Antonio Amorosi
Cronache

La ‘ndrangheta è "vissuta" in Emilia come un affidabile “fornitore di servizi". Come i clan di ‘ndrangheta hanno colonizzato l’Emilia “grazie a pezzi di società conniventi", con un’organizzazione in parte imprenditoriale e in parte militare. Una storia antica scoperta solo ora

“Economia”, emiliana, “colonizzata grazie a pezzi di società conniventi". La ‘ndrangheta è vissuta come un affidabile “fornitore di servizi” che va del recupero crediti alla falsa fatturazione, dallo sfruttamento lavorativo alle minacce: una risolutrice di problemi. Questi i passaggi che forse spiccano di più nelle motivazioni della Cassazione sulla sentenza del Processo Aemilia e che mettono una pietra tombale sulle fanfare della superiorità morale della sinistra italiana. Lo scrivo da circa 20 anni. Ma ancora poco tempo fa queste parole erano sacrileghe nella terra rossa per antonomasia (Sic!).

La Cassazione traccia il profilo della supercosca Grande Aracri, egemone in Emilia da qualche decennio ma con solide radici a Cutro. Con l'economia emiliana c'è una connivenza utilitaristica, scrivono i giudici nelle complesse 458 pagine, rigettando la stragrande maggioranza degli 87 ricorsi degli imputati.

L’impianto accusatorio sostenuto dai Pubblici Ministeri esce confermato assieme a oltre mille anni complessivi di carcere per i tre quarti delle 220 persone coinvolte.

Il clan e le varie organizzazioni hanno una parte imprenditoriale e una parte militare. Ma è una 'ndrangheta autonoma dalle dinamiche calabresi, del tutto indipendente e che agisce conoscendo il territorio e vivendo in Emilia. I giudici ricordano una lunga scia di omicidi compiuti in Emilia ma spiegano anche che le organizzazioni non si sono limitate "a sfruttare il capitale intimidatorio accumulato negli anni Novanta e la fama criminale del sodalizio di riferimento facendo leva sulla consistente colonia di emigrati trasferitisi dalla Calabria in Emilia". Hanno "con costanza attualizzato il metodo, declinandolo secondo gli opportuni adattamenti suggeriti dal contesto operativo e dall’area di insediamento".

Il tutto ha sfondato sul territorio grazie a un'omertà fuori dal comune. Non a caso tutti coloro che hanno ricevuto intimidazioni (si citano 124 eventi della storia recente) quando sono stati interrogati hanno negato. Parlando di casi di incendi e danneggiamenti avvenuti a Reggio Emilia, Parma, Piacenza e Modena essi sono "caratterizzati dalla omertà delle vittime che non hanno denunciato i fatti e hanno negato di avere subito pressioni o richieste estorsive".

La storia accelera “a seguito di una sanguinosa guerra di mafia che ha interessato direttamente il Nord peninsulare e l’Emilia”. Li si è compiuto un passaggio strategico, fanno capire i giudici elencando gli omicidi compiuti in Emilia tra il 1992 e il 1999: Nicola Vasapollo, Giuseppe Ruggiero, Domenico Lucano, Giuseppe Abramo, Oscar Truzzi e il vecchio boss Antonio Dragone, evento quest’ultimo raccontato nei particolari nel libro Coop Connection che ho scritto nel 2016. Il clan Arena ne esce perdente e il Grande Aracri domina riorganizzando il territorio emiliano.

Chiarificatrici le parole del collaboratore di giustizia Antonio Valerio: “I cantieri li prendevamo sempre offrendo mille lire meno degli altri. Perché gli operai erano tutti in nero e non sapevamo neanche come si chiamavano realmente perché facevamo le fotocopie dei libri matricola”. Chi controllava? Ma nessuno. E nel caso vi fossero stati controlli “la ‘ndrangheta portava persone che si sarebbero accollate il rischio dei controlli, senza fare danni alle imprese”.

Uno dei referenti, Nicolino Sarcone, viene citato come uomo di congiunzione tra l’organizzazione e la società emiliana. Mitiche le auto blindate nere in giro per la piccola Reggio Emilia. “I quattro amici al bar: consiglieri, uomini di fiducia, portavoce, sviluppatori di idee, in stretto e confidenziale rapporto con esponenti delle forze dell’ordine e ben introdotti nella società civile emiliana. Soggetti puliti che fungevano da cinghia di trasmissione e reclutavano nuove imprese da coinvolgere nel sistema delle false fatturazioni”.

Uno dei più noti alla cronaca nel processo Aemilia è l’imprenditore Giuseppe Iaquinta, data la paternità del calciatore campione del mondo Vincenzo. Su di lui, sempre dichiaratosi innocente, la Cassazione cita ben 7 date, con dettaglio di luoghi e di partecipanti degli incontri, in cui era tra gli ospiti ai “summit” mafiosi.

I pentiti Antonio Valerio, Giuseppe Giglio, Salvatore Muto hanno reso possibile comprendere con maggiore precisione come si muovessero gli imprenditori emiliani e i collegamenti locali che manifestavano la “prestazione di un interessato consenso alla condivisione degli obiettivi e dei metodi delle imprese dominanti mettendo loro a disposizione mezzi e strutture societarie in cambio di protezione e condivisione di canali di illecito profitto”. Tra questi anche il giornalista Marco Gibertini, altro uomo di “raccordo tra esponenti dell’imprenditoria reggiana interessati al recupero dei crediti con mezzi non convenzionali e membri del sodalizio”.

 

 

 

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