L'inazione europea minaccia l'idea di Continente unito: serve una scossa
Un anno fa l'ex presidente del Consiglio ha presentato il suo rapporto sulla competitività Ue, oggi ne ha tracciato un bilancio: il testo integrale
Ursula Von Der Leyen e Mario Draghi
"I cittadini europei sono delusi dalla lentezza dell'Europa, l'inazione minaccia la sovranità dell'Unione"
Ursula, molte grazie per le tue gentili parole in apertura di questa conversazione. Ma grazie anche di avermi dato la possibilità di servire l’Europa, cosa che cerco di fare al meglio delle mie possibilità. Un anno fa ci siamo incontrati qui per discutere tre sfide delineate nel rapporto: il modello di crescita europeo era da tempo sotto pressione, le dipendenze minacciavano la sua resilienza e, senza una crescita più rapida, l’Europa non sarebbe stata in grado di realizzare le sue ambizioni in materia di clima, digitale e sicurezza, per non parlare della capacità di finanziare i suoi sistemi sociali in pieno invecchiamento.
Nel corso dell’ultimo anno, ciascuna di queste sfide è diventata ancora più seria. Le fondamenta della crescita dell’Europa ‒l’espansione del commercio mondiale e le esportazioni ad alto valore ‒ si sono ulteriormente indebolite. Gli Stati Uniti hanno imposto i dazi più alti dai tempi dello Smoot-Hawley Act. La Cina è diventata un concorrente ancora più forte, sia nei mercati terzi sia, con la deviazione dei flussi dovuta ai dazi statunitensi, all’interno dell’Europa stessa. Dallo scorso dicembre, l’avanzo commerciale della Cina con l’Ue è aumentato di quasi il 20 per cento. Abbiamo anche visto come la capacità di risposta dell’Europa sia limitata dalle sue dipendenze, anche quando il nostro peso economico è considerevole.
La dipendenza dagli Stati Uniti per la difesa è stata indicata come una delle ragioni per cui abbiamo dovuto accettare un accordo commerciale in gran parte alle condizioni americane. La dipendenza dai materiali critici cinesi ha limitato la nostra capacità di impedire che la sovraccapacità cinese inondasse l’Europa, o di contrastare il suo sostegno alla Russia. L’Europa ha iniziato a reagire. Poiché gli Stati Uniti assorbono circa tre quarti del disavanzo globale delle partite correnti, diversificare dal loro mercato è irrealistico nel breve termine. Ma per esempio l’accordo Mercosur con l’America Latina può offrire un certo sollievo agli esportatori. La Commissione ha avviato progetti strategici per le materie prime critiche. E la spesa per la difesa sta aumentando rapidamente.
Tuttavia, questi impegni per la difesa si aggiungono a esigenze di finanziamento già enormi. La Bce stima ora che le esigenze annuali di investimento per il periodo 2025-2031 ammontino a quasi 1.200 miliardi di euro, rispetto agli 800 miliardi stimati un anno fa. La quota pubblica è quasi raddoppiata, dal 24 per cento al 43 per cento, con oltre 510 miliardi di euro l’anno in più, poiché la difesa è finanziata principalmente con fondi pubblici. Lo spazio fiscale è scarso. Anche senza questa nuova spesa, il debito pubblico dell’Ue è destinato a crescere di 10 punti percentuali nel prossimo decennio, raggiungendo il 93 per cento del PIL, sulla base di ipotesi di crescita più ottimistiche rispetto alla realtà attuale.
A un anno di distanza, l’Europa si trova quindi in una posizione più difficile. Il nostro modello di crescita sta svanendo. Le vulnerabilità stanno aumentando. E non esiste un percorso chiaro per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno.E ci è stato ricordato, dolorosamente, che l’inazione minaccia non solo la nostra competitività ma la nostra stessa sovranità.
Il rapporto ha individuato tre priorità per l’Europa: colmare il divario di innovazione nelle tecnologie avanzate; tracciare un percorso di decarbonizzazione che sostenga la crescita; rafforzare la sicurezza economica. Come ha sottolineato la presidente von der Leyen, queste priorità sono anche al centro dell’agenda della Commissione. Accolgo con favore la sua decisione di porre la competitività al centro, e il programma è ambizioso. I cittadini e le imprese europee apprezzano la diagnosi, le priorità chiare e i piani d’azione. Ma esprimono anche una crescente frustrazione. Sono delusi dalla lentezza con cui si muove l’UE. Ci vedono incapaci di tenere il passo della velocità che il cambiamento assume altrove. Sono pronti ad agire, ma temono che i governi non abbiano compreso la gravità del momento.
Troppo spesso si trovano scuse per la nostra lentezza. Diciamo che è semplicemente il modo in cui l’UE è costruita. Che un processo complesso con molti attori deve essere rispettato. A volte l’inerzia viene persino presentata come rispetto dello Stato di diritto. Io credo che questa sia una forma di autocompiacimento. I concorrenti negli Stati Uniti e in Cina sono molto meno vincolati, anche quando agiscono nel rispetto della legge. Continuare come sempre significa rassegnarsi a restare indietro. Un percorso diverso richiede nuova velocità, scala e intensità. Significa agire insieme, non frammentare i nostri sforzi. Significa concentrare le risorse dove l’impatto è maggiore. E significa ottenere risultati in mesi, non in anni.
Cominciamo con la tecnologia. Si dice spesso che l’IA sia una tecnologia “trasformativa”, come l’elettricità 140 anni fa. Ma essa dipende dal coordinamento di almeno altre quattro tecnologie: il cloud, per archiviare enormi quantità di dati; il supercomputing, per elaborare tali dati; la sicurezza cyber, per proteggere i settori sensibili; le reti avanzate - 5G, fibra e satelliti - per la trasmissione. In alcune aree, l’Europa mostra progressi. Sono in corso piani per almeno cinque gigafabbriche di IA,ciascuna con oltre 100.000 GPU avanzate. La capacità dei data center è destinata a triplicare nei prossimi sette anni. Una grande riforma delle telecomunicazioni è attesa entro fine anno. L’investimento recente di ASML in Mistral è un segnale promettente per l’ecosistema IA domestico.
Anche i livelli di adozione stanno crescendo: la BEI rileva che le imprese europee stanno adottando tecnologie avanzate a un ritmo vicino a quello dei concorrenti statunitensi, sebbene partendo da una base più bassa. Ma i divari sono netti. Sulla frontiera dell’IA, gli Stati Uniti hanno prodotto 40 large foundation models lo scorso anno, la Cina 15 e l’UE solo 3. Tra le PMI, l’adozione dell’IA è ancora bassa—tra il 13 per cento e il 21 per cento.E nel campo più strategico—IA basata su proprietà intellettuale europea per ancorare le nostre industrie chiave—i progressi sono minimi.
Ci sono tre aree in cui serve maggiore ambizione: Il primo: rimuovere le barriere alla scalabilità delle nuove tecnologie. Un vero “28° regime” deve diventare realtà, consentendo alle imprese innovative di operare, commerciare e raccogliere finanziamenti senza ostacoli in tutti i 27 Stati membri, proprio come avviene in altre grandi economie. Questo è particolarmente importante per dare ai giovani europei una possibilità nel loro continente: loro vogliono restare qui, non vogliono dover andare altrove per avere successo.
La Commissione si sta muovendo in questa direzione. Ma con un sostegno incerto da parte degli Stati membri, il primo passo sarà probabilmente limitato a un’identità digitale per le imprese.
Anche il finanziamento nelle fasi iniziali necessita di un sostegno più forte. Il Fondo Scaleup Europe può aiutare le startup a crescere—se la sua dimensione sarà adeguata alle loro esigenze finanziarie.
L’aumento previsto di Horizon Europe a 175 miliardi di euro è positivo. Ma per la ricerca dirompente, sarà insufficiente a meno che le risorse aggiuntive non vengano concentrate in programmi prioritari di dimensioni significative.
Le risorse devono fluire verso centri di eccellenza. Devono concentrarsi su progetti ad alto rischio e alto rendimento, scelti attraverso un processo in stile DARPA. Devono essere rafforzati da forti legami tra industria e istituzioni accademiche per trasformare la ricerca in applicazioni reali. L’attuazione deve essere affidata a project manager esperti—non a burocrati. E l’Europa dovrebbe essere in grado di effettuare investimenti diretti in poche, grandi iniziative strategiche di deep tech.
La seconda area è la regolamentazione. Tra le imprese europee, una delle richieste più chiare è una semplificazione radicale del GDPR; non solo della legge primaria ma anche delle pesanti aggiunte da parte degli Stati membri. L’addestramento dei modelli di IA richiede enormi quantità di dati pubblici dal web. Tuttavia, l’incertezza legale sul loro utilizzo crea ritardi costosi, rallentando la diffusione in Europa.
Le ricerche lo confermano: il GDPR ha aumentato il costo dei dati di circa il 20 per cento per le imprese UE rispetto ai concorrenti statunitensi. Eppure, l’unico cambiamento finora sul tavolo è un alleggerimento della tenuta dei registri e l’estensione delle deroghe per le PMI alle imprese mid-cap. Una riforma più ampia verso regole semplici e armonizzate è ancora vaga.
L’AI Act è un’altra fonte di incertezza. Le prime regole, che includevano il divieto dei sistemi a “rischio inaccettabile”, sono state introdotte senza grandi complicazioni. I codici di condotta firmati dalla maggior parte dei principali sviluppatori, insieme alle linee guida della Commissione di agosto, hanno chiarito le responsabilità.
Ma la prossima fase, che riguarda i sistemi di IA ad alto rischio in settori come le infrastrutture critiche e la sanità, deve essere proporzionata e sostenere innovazione e sviluppo. A mio avviso, l’attuazione di questa fase dovrebbe essere sospesa finché non comprendiamo meglio gli svantaggi. Più in generale, l’applicazione dovrebbe basarsi su una valutazione ex post, giudicando i modelli in base alle loro capacità reali e ai rischi dimostrati.
La terza area è l’integrazione verticale dell’IA nell’industria. Le applicazioni settoriali dell’IA sono ancora più critiche della pura potenza di calcolo. Qui, l’Europa ha un vero vantaggio: le sue imprese detengono oltre la metà del mercato globale delle soluzioni di automazione industriale, una pietra angolare dell’IA industriale. Tuttavia, solo circa il 10 per cento delle imprese manifatturiere ha utilizzato l’IA lo scorso anno. Industria e governi devono collaborare per trasformare questo vantaggio in soluzioni europee proprietarie. La strategia “Apply AI” della Commissione, prevista per questo autunno, sarà un banco di prova cruciale.
I prezzi del gas naturale nell’UE sono ancora quasi quattro volte superiori a quelli degli Stati Uniti. I prezzi industriali dell’elettricità sono in media più che doppi. Se questo divario non si riduce, la transizione verso un’economia ad alta tecnologia si bloccherà. L’energia è fondamentale tanto quanto la tecnologia per lo sviluppo dell’IA. La domanda di elettricità da parte dei data center in Europa aumenterà del 70 per cento entro il 2030. L’energia rappresenta già fino al 40 per cento dei loro costi operativi. L’AIE avverte che, senza interventi, un progetto su cinque a livello globale potrebbe subire ritardi a causa dei colli di bottiglia nelle reti.[^9] Solo i Paesi che allineano la strategia energetica con la politica digitale cattureranno i maggiori benefici nella corsa all’IA.
La Commissione ha lanciato il Clean Industrial Deal e il Piano d’Azione per l’Energia Accessibile, entrambi coerenti con l’agenda del rapporto. Ma il passo principale finora è stato allentare le regole sugli aiuti di Stato per consentire agli Stati membri di sovvenzionare i prezzi. Questo può offrire un sollievo temporaneo. Non risolve però le ragioni strutturali per cui l’energia in Europa è così costosa. Queste ragioni includono i prezzi del gas che, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sono ancora circa il doppio dei livelli pre-Covid; un sistema di prezzo in cui il gas continua a determinare il prezzo dell’elettricità la maggior parte del tempo, anche con l’espansione delle rinnovabili; oneri e tasse elevati.
La decarbonizzazione è il percorso migliore a lungo termine per l’Europa per raggiungere l’indipendenza energetica nonostante la mancanza di risorse naturali. Ma richiede investimenti molto più rapidi per far funzionare un sistema basato sulle rinnovabili: nelle reti, negli interconnettori e nella generazione pulita di base come il nucleare. Oggi, metà della capacità transfrontaliera necessaria entro il 2030 non può contare su un piano di investimento. Anche i progetti approvati richiedono più di dieci anni, con metà del tempo perso per le autorizzazioni.
Il Pacchetto Reti previsto per la fine di quest’anno e l’aumento di bilancio proposto per i collegamenti transfrontalieri sono passi avanti. Ma l’attuale sistema, basato sul coordinamento nazionale di permessi e finanziamenti, non è adatto a un mercato energetico europeo. I progetti transfrontalieri necessitano di pianificazione ed esecuzione a livello Ue.
Allo stesso tempo, dobbiamo essere realisti: queste misure non ridurranno i prezzi dell’energia rapidamente. Ecco perché dobbiamo agire sulle leve che possono offrire sollievo più veloce.
Due si distinguono: migliorare il funzionamento dei mercati del gas, e allentare il legame tra gas e prezzi dell’elettricità.
L’Europa è già il più grande acquirente mondiale di Gnl statunitense e si è impegnata ad acquistare fino a 750 miliardi di dollari di prodotti energetici dagli Usa. Qualunque siano le condizioni di quell’accordo, dovrebbe essere trattato come un’opportunità per riorganizzare il modo in cui ci approvvigioniamo di gas.
Dal mese di marzo, il Gnl sbarcato in Europa è costato dal 60 per cento al 90 per cento in più rispetto allo stesso gas negli Usa, anche tenendo conto delle componenti logistica e rigassificazione. Gli acquisti collettivi dell’Ue, come proposto dalla Commissione dopo l’invasione russa, potrebbero ridurre questo divario rafforzando il nostro potere negoziale, riducendo i margini degli intermediari e proteggendoci dalla volatilità dei mercati spot.
Parallelamente, l’Europa deve portare avanti il lavoro della Gas Market Task Force e aumentare la trasparenza nel trading energetico. I profitti dei quattro maggiori trader globali sono quadruplicati tra il 2020 e il 2022. Una supervisione congiunta e regole più rigorose sono in ritardo. Dobbiamo poi disaccoppiare la remunerazione delle rinnovabili e del nucleare dalla generazione fossile, ampliando i contratti a lungo termine: mi riferisco in particolare a Power Purchase Agreements (PPA) e Contratti per Differenza (CfD). Alcune iniziative utili sono in corso, come il progetto pilota della BEI per la garanzia dei PPA. Ma serve un’azione molto più decisa: i contratti a lungo termine devono essere estesi a tutte le rinnovabili e agli impianti nucleari, nuovi (come già avviene oggi) ed esistenti. L’attuale meccanismo di formazione dei prezzi assegna rendite a molti interessi consolidati.
La Commissione ha allentato alcuni dei requisiti di rendicontazione più gravosi attraverso l’Omnibus sulla sostenibilità. Ma in alcuni settori, come quello automobilistico, gli obiettivi si basano su ipotesi che non sono più valide. La scadenza del 2035 per le emissioni zero allo scarico era pensata per innescare un circolo virtuoso: obiettivi chiari avrebbero stimolato gli investimenti nelle infrastrutture di ricarica, ampliato il mercato interno, spronato l’innovazione in Europa e reso i modelli elettrici più economici.
Si prevedeva che le industrie adiacenti (batterie, semiconduttori) si sarebbero sviluppate in parallelo, sostenute da politiche industriali mirate. Ma ciò non è avvenuto. L’installazione dei punti di ricarica deve accelerare di 3-4 volte nei prossimi cinque anni per raggiungere una copertura adeguata. Il mercato dei veicoli elettrici è cresciuto più lentamente del previsto. L’innovazione europea è rimasta indietro, i modelli restano costosi e la politica delle catene di fornitura è frammentata.
Di fatto, il parco auto europeo di 250 milioni di veicoli sta invecchiando e le emissioni di CO₂ sono calate appena negli ultimi anni. In questo contesto, attenersi rigidamente all’obiettivo del 2035 potrebbe rivelarsi irrealizzabile—e rischia di consegnare quote di mercato ad altri, soprattutto alla Cina. Come suggerito nel rapporto, la prossima revisione del regolamento sulle emissioni di CO₂ dovrebbe seguire un approccio tecnologicamente neutrale e fare il punto sugli sviluppi di mercato e tecnologici.
Serve anche un approccio integrato per il potenziamento dei veicoli elettrici, che copra le catene di fornitura, le esigenze infrastrutturali e le potenzialità dei carburanti a zero emissioni di carbonio.
Nei prossimi mesi, il settore automobilistico metterà alla prova la capacità dell’Europa di allineare regolamentazione, infrastrutture e sviluppo delle catene di fornitura in una strategia coerente per un’industria che ‒ non dimentichiamolo ‒ impiega oltre 13 milioni di persone lungo l’intera catena del valore. Il rapporto invitava a utilizzare in modo attivo la politica industriale, per ridurre le dipendenze e difendersi dalla concorrenza sostenuta dagli Stati. All’epoca, erano state sollevate preoccupazioni su nazionalismo economico, protezionismo e sul rischio che l’Europa potesse abbandonare le regole globali.
Ma l’ultimo anno ha mostrato chiaramente che operiamo in un mondo diverso. La linea di confine tra economia e sicurezza è sempre più sfumata. Gli Stati utilizzano ogni strumento a loro disposizione per promuovere i propri interessi. Finora, la risposta europea è caduta in due trappole: sforzi nazionali non coordinati, o cieca fiducia che le forze di mercato costruiranno nuovi settori. La prima non potrà mai garantire la scala necessaria. La seconda è impossibile quando altri distorcono i mercati e inclinano il campo di gioco.
Dobbiamo invece costruire la capacità di difenderci e resistere alle pressioni nei punti di strozzatura chiave: difesa, industria pesante e tecnologie che plasmeranno il futuro.
Tre leve possono darci la scala e l’intensità necessarie: la prima è un nuovo approccio al coordinamento degli aiuti di Stato. In pratica, gli aiuti di Stato spesso agiscono come protezionismo, bloccando l’attività entro i confini invece di costruire industrie europee competitive a livello globale. Le ricerche del FMI mostrano che gli aiuti in un Paese spesso avvengono a spese della crescita nei Paesi vicini.
L’Europa dispone di strumenti di coordinamento, come i Progetti Importanti di Interesse Comune Europeo (IPCEI), che possono concentrare il sostegno e ridurre questi effetti collaterali. Eppure, nel 2023, i Paesi UE hanno speso quasi 190 miliardi di euro in aiuti di Stato, cinque volte più di quanto sia stato destinato agli IPCEI dal 2018.
Usati in modo strategico, gli IPCEI potrebbero aiutare l’Europa a raggiungere la scala in settori come le tecnologie nucleari innovative (ad esempio i reattori modulari di piccola taglia) o nella catena di fornitura automobilistica per veicoli a zero e basse emissioni a prezzi accessibili. La Commissione sta adottando misure per rendere tali progetti più attraenti e accessibili.
Ma il modello IPCEI è ancora essenzialmente nazionale nella progettazione e nel finanziamento. Questo crea un limite intrinseco rispetto ai nostri concorrenti.
Prendiamo l’IPCEI europeo sui semiconduttori approvato nel 2023: mobilita 8 miliardi di euro di fondi pubblici, distribuiti tra 14 Stati membri, 68 progetti e 56 aziende. L’obiettivo generale ‒raggiungere una quota del 20 per cento nella produzione globale di semiconduttori entro il 2030 ‒ è già stato definito dalla Corte dei Conti europea come “molto improbabile”.
Al confronto, il Giappone, con Rapidus, mostra un approccio diverso: creato nel 2022, canalizza 12 miliardi di dollari di sostegno pubblico, nonostante l’economia più piccola, verso un unico grande leader nei chip avanzati. È focalizzato su un obiettivo chiaro, sostenuto da grandi aziende come investitori e clienti di riferimento. E si muove molto più velocemente, puntando alla produzione di massa entro il 2027.
L’Europa dovrebbe imparare da questo modello concentrato ed estenderlo ad altre tecnologie avanzate—combinando investimenti pubblici e privati per innovazione dirompente e progetti industriali su larga scala.
La seconda leva è rappresentata dagli appalti pubblici. Gli aiuti di Stato non possono costruire nuova offerta di tecnologie critiche senza una domanda europea corrispondente. La regolamentazione può aiutare rimuovendo le barriere all’adozione, ma gli appalti sono lo strumento più potente per creare mercati.
Funziona in due modi. Primo: con appalti pubblici pari al 16 per cento del PIL dell’UE, destinare anche una piccola quota alle industrie europee creerebbe una domanda stabile per l’innovazione e rafforzerebbe i settori strategici.
Secondo: nei settori in cui la scala è un fattore decisivo, regole armonizzate possono guidare la standardizzazione e sostenere cicli di investimento lunghi e ad alta intensità di capitale. Il potenziale è chiaro in molti settori: riservare una quota UE negli appalti per chip destinati alla difesa; sostenere il cloud europeo e l’IA verticale; o fissare quote per prodotti clean-tech come acciaio e alluminio verdi. Sono iniziati i lavori su regole preferenziali per gli appalti pubblici a livello UE, anche se i dettagli sono ancora incerti. Ma il successo dipenderà dall’armonizzazione tra gli Stati membri. Senza di essa, gli appalti, come gli aiuti di Stato, rischiano di scivolare nel protezionismo nazionale e di non garantire la scala necessaria.
La terza leva è rappresentata dalle politiche della concorrenza. Qui sostanzialmente ripeterò quel che ha già detto la Presidente. Nella difesa e nello spazio, e nelle tecnologie dual-use che li sostengono, le dinamiche di mercato sono molto diverse dai mercati consumer. Qui, la consolidazione non è necessariamente una minaccia per i consumatori. Può essere un modo per ridurre la duplicazione della R&S, abbassare i costi, accelerare l’innovazione e concentrare i budget di approvvigionamento.
I concorrenti negli Stati Uniti e in Asia beneficiano non solo del sostegno statale e di vasti mercati di approvvigionamento, ma anche della consolidazione in questi settori. L’Europa, invece, resta divisa tra più campioni nazionali e basi industriali sovrapposte.
L’Europa dovrebbe essere in grado di proteggere la concorrenza pur promuovendo il consolidamento e l’innovazione. È in corso una revisione delle linee guida sulle fusioni, ma l’industria non può aspettare fino al 2027 ‒ questa scadenza, tra l’altro, è coerente con la procedura inizialmente scelta. Resilienza e innovazione devono essere integrate nella politica di concorrenza ora. Al minimo, dovrebbe essere istituito immediatamente un processo accelerato.
La domanda successiva è: come aumentare la velocità? In alcune aree, l’Ue può fare di più con i poteri che già possiede. La regolamentazione è il campo in cui l’Unione può agire più rapidamente e in modo più deciso. L’Europa si è a lungo definita una potenza normativa, ora deve dimostrare di sapersi adattare a un panorama tecnologico in rapida evoluzione.
In altre aree, sono necessarie riforme più profonde: delle competenze, dei processi decisionali e del finanziamento. In ultima analisi, in alcuni ambiti cruciali, l’Europa deve iniziare ad agire meno come una confederazione e più come una federazione. Ma tali riforme richiederanno tempo, un tempo che potremmo non avere.
Nel frattempo, i progressi potrebbero dipendere da coalizioni di Stati volenterosi, attraverso meccanismi come la cooperazione rafforzata. Anche senza modifiche ai trattati, l’Europa potrebbe già andare molto oltre concentrando i progetti e mettendo in comune le risorse. Se riusciremo a concentrare i nostri sforzi in questo modo, il passo logico successivo sarà considerare debito comune per progetti comuni, a livello UE o tra una coalizione di Stati membri, per amplificare i benefici del coordinamento.
Un’emissione congiunta non espanderebbe magicamente lo spazio fiscale. Ma consentirebbe all’Europa di finanziare progetti più grandi in aree che aumentano la produttività ‒ innovazione dirompente, tecnologie su scala, R&S per la difesa o reti energetiche ‒ dove la spesa nazionale frammentata non può più bastare.
Aumentando la produzione più rapidamente dei costi di interesse, tali progetti ripristinerebbero gradualmente lo spazio fiscale e renderebbero più facile finanziare esigenze di investimento più ampie. Il rapporto stimava che anche un modesto aumento del 2 per cento della produttività totale dei fattori in un decennio potrebbe ridurre di un terzo l’onere delle finanze pubbliche.
E se abbattiamo le barriere nel mercato unico e consentiamo alle imprese di crescere più rapidamente, accelereremo anche lo sviluppo dei mercati dei capitali europei. Questi possono aiutare a finanziare la quota privata delle esigenze di investimento.
In sostanza, più spingiamo le riforme – e questo è un punto che ho sollevato a più riprese anche in passato ‒, più il capitale privato interverrà—e meno denaro pubblico sarà necessario.
Naturalmente, questo percorso infrangerà tabù di lunga data. Ma il resto del mondo ha già infranto i propri. Per la sopravvivenza dell’Europa, dobbiamo fare ciò che non è mai stato fatto prima e rifiutarci di essere frenati da limiti autoimposti. Soprattutto, dobbiamo andare oltre le strategie generali e le tempistiche dilazionate. Servono date concrete e risultati misurabili, e dobbiamo essere chiamati a risponderne. Le scadenze devono essere abbastanza ambiziose da richiedere vera concentrazione e sforzo collettivo.
Questa è stata la formula alla base dei progetti europei di maggior successo, il Mercato Unico e l’euro. Entrambi sono andati avanti attraverso fasi chiare, traguardi fermi e un impegno politico costante.
E concludo sulle stesse linee di Ursula: i cittadini europei chiedono che i loro leader alzino lo sguardo verso il destino comune europeo e comprendano la portata della sfida. Solo l’unità d’intenti e l’urgenza della risposta dimostreranno che sono pronti ad affrontare tempi straordinari con azioni straordinarie.