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L'avvocato del cuore
Cyberbullismo e Dad, ecco perché occorre la “patente informatica”

Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, ha indirizzato al personale del dicastero - che egli è stato chiamato a dirigere - una lettera piena di speranza e buoni propositi. Questo il passaggio conclusivo del messaggio augurale: “Abbiamo l’onore e la responsabilità di metterci al servizio della Scuola e conosciamo l’enorme sfida che ci attende. Insieme riusciremo ad andare oltre l’emergenza, oltre le solitudini e le difficoltà con fiducia ed energia. La Scuola è il battito della comunità e il futuro del Paese”.

Parole coinvolgenti, ricche di empatia e buoni intenti che non possono non essere condivise e apprezzate.

Tuttavia, resta vero che la Scuola, con la “S” maiuscola, così come l’ha voluta identificare il nuovo ministro, sia in grave difficoltà perché costretta dall’emergenza sanitaria ad alternare le lezioni “in presenza” con quelle “a distanza” (la cosiddetta DAD). Gli insegnanti hanno dovuto riconvertirsi e acquisire, a grande velocità, abilità informatiche e didattiche prima impensate o giudicate prescindibili, potendo essi contare sulla presenza fisica degli allievi in classe. I quali, a loro volta, hanno dovuto rinunciare alla socialità, toccando con mano il peso emotivo dello stare davanti al computer per ore e ore, nel rispetto del galateo imposto dalle istituzioni scolastiche (presentarsi in orario alle lezioni e in abbigliamento consono; puntare la telecamera sul volto in modo che il professore possa monitorare la situazione richiamando l’alunno in caso di disattenzione o interrogandolo al momento debito; organizzare un ambiente adatto ad ascoltare in silenzio le lezioni, senza ingerenze di fratelli, genitori, nonni, cani e gatti).

Oggi la Scuola avrebbe bisogno di un vaccino ad hoc per immunizzarla non solo e non tanto dal covid 19, ma anche e soprattutto dal cyberbullismo, divenuto endemico all’interno delle videolezioni. Non c’è pagina della cronaca locale dei vari quotidiani che non narri delle scorribande dei cyber- bulli durante la DAD: gli insegnanti e gli allievi ne subiscono le incursioni che vanno dal turpiloquio, alla minaccia, alla diffusione del materiale pornografico e/o pedopornografico, capace di turbare – trasversalmente - la sensibilità di tutti, adulti e minori.

Ma questi sono solo alcuni esempi. Vero è che - decorsi quattro anni dalla pubblicazione della legge n. 71/2017, contenente “disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo” - il bilancio è negativo.

Questa legge è stata scritta e approvata dal Parlamento all’indomani della tragica morte di Carolina Picchio che, a soli quattordici anni, aveva deciso di togliersi – apparentemente da sé – la vita, gettandosi dal balcone di casa.

Apparentemente da sé: se è vero che Carolina si è tolta la vita, è altrettanto vero che sono molte le mani “virtuali” di quanti l’hanno spinta nel vuoto. 2 Sono le mani dei “cyber-bulli”: persone ignoranti nel senso stretto del termine perché ignorano sia il modo in cui si usa correttamente la tecnologia digitale sia la dinamica dei sentimenti. Senza conoscenza di internet e senza empatia, i persecutori di Carolina ne hanno divulgate in Rete le immagini intime e personali, procurandole imbarazzo, sgomento e vergogna tali da indurla al suicidio.

La tragedia di Carolina ha ispirato, tra gli altri, l’articolo 4 della legge n.71/2017 dove si legge che “le istituzioni scolastiche promuovono l’educazione all’uso consapevole della Rete internet e ai diritti e doveri connessi all’utilizzo delle tecnologie informatiche”.

All’ultimo comma, la norma sopracitata responsabilizza, nuovamente, le istituzioni scolastiche impegnandole a elaborare “specifici progetti personalizzati volti a sostenere i minori vittime di atti di cyberbullismo nonché rieducare, anche attraverso l’esercizio di attività riparatorie o di utilità sociale, i minori artefici di tali condotte”.

Parole condivisibili, al pari di quelle del ministro dell’Istruzione, ma forse insufficienti. Non bisogna trascurare che, in base alla legge n. 71/2017, la condotta illecita integrante cyberbullismo è solo quella dove sono coinvolti minori, nella duplice veste di soggetti attivi e passivi dell’illecito. Tuttavia, la capacità di intendere e volere di un minore, e cioè la maturità di autodeterminarsi e comprendere il disvalore della propria condotta, non deve essere data per scontata. Per questo motivo il legislatore penale ha stabilito che non sia imputabile chi “nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni” mentre sia imputabile chi “nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d'intendere e di volere” (così, rispettivamente, gli articoli 97 e 98 del codice penale).

Siamo davvero sicuri che un ragazzino di quindici anni sia in grado di rendersi conto, autonomamente, di consumare “reati in Rete” quali l’accesso abusivo al sistema informatico o il furto di identità? De iure condendo sarebbe auspicabile che il legislatore vietasse ai minori senza “patente informatica” il diritto di accedere alla Rete, non solo per proteggerli dai reati consumati in loro danno, ma anche da quelli commessi senza consapevolezza. Se è vero che il giudice penale non macchierà la fedina penale del minore non imputabile, è altrettanto vero che il giudice civile potrebbe, invece, condannare i suoi genitori a risarcire il danno procurato (così l’articolo 2048 del codice civile).

La responsabilità genitoriale di aver educato male i propri figli non solo è invincibile, ma anche imperdonabile.

Studio legale Bernardini de Pace*

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