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Culture
Coronavirus, "Choc come l'11 settembre. La cultura? Un esempio per la ripresa"
(fonte Lapresse)
Lucrezia Lerro non ha aspettato che dilagasse la paura, per chiudersi in casa. E non le è servito nemmeno attendere che il governo fermasse l’Italia, che emanasse decreti sempre più restrittivi, quando ormai il contagio da Coronavirus stava rompendo gli argini. No, la scrittrice di “Certi giorni sono felice”, segnalato al Premio Strega 2005, “Il rimedio perfetto”, “La girandola delle libellule” e del recente, splendido romanzo “Più lontano di così”, ha deciso di allontanarsi dalla vita convulsa di tutti i giorni dopo aver ragionato con grande lucidità. E senso di responsabilità, verso se stessa e verso gli altri.
 
Un illuminato caso di preveggenza? No, semplicemente Lucrezia Lerro ha cercato di analizzare con attenzione le notizie, frammentate ma assai allarmanti, che si susseguivano già attorno alla metà di febbraio. E conoscendo bene, da scrittrice, ma soprattutto da psicologa, che si confronta ogni giorno con il lato oscuro delle persone, esorcizzato e rimosso dalla società, quanto la paura spinga spesso a reagire aggrappandosi a un’apparente indifferenza, a un’allegria di naufragi, come recitava il titolo di una raccolta poetica di Giuseppe Ungaretti, si è sottratta per tempo al rischio del contagio.
 
unnamedLucrezia Lerro alla Palazzina dei Bagni misteriosi
Luglio 2019, La Milanesiana

 

 
Da casa, però, ha continuato a osservare con attenzione come l’Italia sta reagendo al dilagare dell’infezione. Per questo abbiamo chiesto a lei una lettura, spesso controcorrente, del presente che stiamo vivendo. Provando a ragionare anche su quale sarà il futuro del nostro Paese. Dell’Europa e del mondo. Quando ci sarà concesso aprire le porte di casa. Per ritornare a una vita con orizzonti più ampi dell’attuale ciabattare tra il salotto, la cucina e la camera da letto.
 
“Non eravamo preparati a quello che sta accadendo - spiega Lucrezia Lerro, nata a Omignano nel Salernitano, ma che vive da molti anni a Milano ed esercita la professione di psicologo -. Perché non siamo mai pronti ad affrontare le tragedie. Nel nostro stesso modo di essere, di comportarci, c’è una rimozione di fondo del lutto. Dell’idea di morire. Che, poi, è lo stesso meccanismo che ci permette di affrontare ogni giorno la vita con coraggio. Che ci permette di andare avanti, che ci fa studiare, lavorare, inventare sempre nuovi progetti e provare desideri. In questo momento, l’epidemia di Coronavirus ci costringe a confrontarci proprio con quei pensieri che accantoniamo sempre: il dolore, la morte. Ed è normale che questa emergenza ci colga di sorpresa”.
 
C’è il rischio che, in questo momento, aumentino i suicidi, dettati proprio dai pensieri senza speranza?
 
“Il rischio è, senza dubbio, alto. Ci sono già stati dei casi. Il più clamoroso è quello di Thomas Schaefer, ministro tedesco delle Finanze dell’Assia. E, proprio pensando a questa nostra situazione di permanenza forzata in casa, mi viene in mente il sociologo e filosofo francese Émile Durkheim. Quando parlava di suicidio anomico, cioè alla possibilità che chi può contare su un tenore di vita più che discreto, trovandosi all’improvviso in una situazione di deprivazione forzata, non riesca a fare fronte alla nuova condizione. Proprio perché ha sempre evitato di confrontarsi serenamente con la paura di perdere tutto. Il suicidio anomico è tipico delle società moderne, è fortemente connesso alle crisi da esse attraversate, quando si crea disordine, cioè anomia. Durkheim diceva anche che il numero di suicidi può aumentare sia in periodi di recessione economica sia di impetuoso sviluppo”.
 
Deriva da questo mancato confronto con la realtà il non credere al pericolo di contagio? Il non rispettare i divieti del governo a uscire di casa?
 
“Ogni soggetto ha una sua struttura psicologica più o meno forte. E reagisce alle situazioni di crisi in maniera del tutto soggettiva. Chi continua a uscire di casa, nonostante i divieti, non è più stupido o incosciente degli altri. Semplicemente ha una percezione del pericolo diversa”.
 
Come vivono le persone più fragili, dal punto di vista emotivo, questo momento di allarme e di crisi globale?
 
“Se tutti fossimo dotati di un’identità più forte, di una  lucida consapevolezza della realtà, risponderemmo meglio a questa emergenza. Invece, mi spaventa e addolora pensare alle tantissime persone fragili che vivono, già nella normalità della nostra routine quotidiana, forti situazioni di stress e di depressione. Questo momento di solitudine, di lontananza dagli altri, viene vissuto da loro in maniera ancora più complessa e problematica”.
 
Dopo l’emergenza, troveremo maggiore coraggio di confrontarci con la paura?
 
“La saggezza popolare dice: ciò che non ammazza, fortifica. Però, se esiste un inconscio collettivo come insegnano Carl Gustav Jung e altri pensatori, le reazione ai momenti di crisi sono sempre molto soggettive. Ognuno di noi riuscirà a sopravvivere all’epidemia reale del virus, ma anche al contagio psicologico del malessere, solo se riuscirà a fare i conti con la propria identità. Se non avrà paura di guardare negli occhi quelle domande che sempre rimuoviamo, che parlano di malattie, tragedie, morte”.
 
Potrebbe essere un’occasione di maturazione collettiva?
 
“Assolutamente sì. Se ognuno di noi, e poi tutti insieme, riusciremo ad affrontare il dolore, la paura, l’idea di una potenziale perdita delle persone amate, ma anche di noi stessi. A reggere il confronto con questi pensieri dolorosi, che da sempre tentiamo di esorcizzare. Ma sarà indispensabile fare un grande passo. Perché dovremo uscire dalle tante finzioni che governavano, finora, la nostra vita. Ammettendo che il forzato scintillare delle città, di tutto quelle che facevamo, in realtà, era solo un'illusione. Perché molti riti quotidiani a cui ci eravamo affezionati, in questo momento, ci sembrano del tutto inutili”.
 
Ci divideremo, in questo possibile percorso di crescita personale?
 
“Qui si nasconde un altro rischio. Temo che la risposta alla paura dell’epidemia porterà ognuno di noi ad avere reazioni e pensieri diversi. Se la società dei consumi mi sembrava un modello sbagliato già prima dell’arrivo del virus, allora mi rafforzerò nella mia convinzione. E cercherò di elaborare un’idea del mio stare nella realtà ancora più lucida, coraggiosa, responsabile. Però temo che tanti altri stanno aspettando soltanto di ritornare alla vita di sempre. Senza farsi troppe domande se sia giusto o sbagliato comportarsi così”.
 
Rabbia, accuse, recriminazioni: non rischiamo, anche in questo momento, di scaricare la colpa sugli “altri”, senza prenderci ognuno le proprie responsabilità?
 
“Ognuno di noi è fatto di una parte razionale e di un’altra, più in ombra, caratterizzata dai sogni, dagli atti mancati, dai lapsus. Se non abbiamo la forza di affrontare questo nostro lato nascosto, che può apparire quasi come un nemico, ci viene normale proiettarlo sugli altri. In una situazione come questa, caratterizzata dalla desolazione delle città vuote, dal silenzio profondo delle strade e delle case, aumenta a dismisura il desiderio di trovare un capro espiatorio collettivo su cui riversare tutta la rabbia che portiamo dentro. E ciò accade perché non c’è stata prima, e non c’è tuttora, abbastanza attenzione per la salute mentale. Nostra e degli altri”.
 
Questo nascondere il nostro malessere latente porta a fare errori clamorosi?
 
“Lo abbiamo visto in questo momento di emergenza. Non sono solo i cittadini a negare la realtà, quando continuavano ad affollare i parchi, a non capire che il contagio si stava diffondendo sempre di più. Anche i politici, dopo il 21 febbraio e il dilagare del virus da Codogno in tutta la Lombardia, e poi nel resto d’Italia e d’Europa, hanno continuato a non capire quanto grave fosse la situazione. C’era chi chiedeva che la vita ritornasse subito alla normalità. C’era perfino chi esortava la gente a non cambiare le proprie abitudini. Continuando a bere l’aperitivo con gli amici, frequentando i posti affollati. Questo significa non essere in contatto con la realtà. Negare l’evidenza, lasciandosi trasportare dalle proprie paure inconfessate”.
 
Molti dicono: non è il momento di attizzare polemiche…
 
“È giusto, io non intendo alimentare polemiche. Però non posso non constatare che si è sottovalutato il pericolo di una pandemia, quando da Wuhan, in Cina, arrivavano notizie terribili di contagi diffusissimi e di migliaia di morti. Pensavamo forse che la distanza da quei posti fosse una garanzia per noi, per evitare che il virus arrivasse fin qui? Oggi, più che mai, in un mondo globalizzato, la parola ‘lontano’ non ha più senso. Siamo tutti vicinissimi. E allora, ripeto, questo sfuggire alla realtà è un sintomo preciso del fatto che non stiamo bene”.
 
Riusciremo a liberaci in fretta dall’incubo di questo isolamento forzato, quando finirà?
 
“Un isolamento forzato di questo tipo lascerà dietro a sé una serie di problematiche psicologiche non indifferenti. Perché nessuno di noi è abituato a restare chiuso dentro una gabbia troppo a lungo. Subentra l’avvilimento, cresce la rabbia. Quando potremo di nuovo uscire, aumenteranno le nostre paure. Se ‘l’altro’ rappresentava il capro espiatorio perfetto su cui scaricare tutte le colpe delle cose che non funzionano, adesso saremo ancora più portati a demonizzare chiunque possa essere portatore di disagio. Quindi, bisognerà trovare il coraggio di farsi assistere da psicologi, psicoterapeuti. Da chi sa come aiutare le persone a gestire l’ansia, lo stress, la depressione. Temo che vivremo una sorta di shock post-traumatico simile alle persone che hanno visto da vicino la tragedia dell’attacco alle Twin Towers, in America, l’11 settembre del 2001. Dobbiamo ricordarci sempre che il corpo e la mente non sono due mondi separati. Se soffre uno, gli effetti si rifletteranno sull’altro”.
 
La paura del virus ha fatto scendere il silenzio su molti altri problemi. Ma le donne, le compagne di uomini violenti, come vivranno questa convivenza forzata in piccoli spazi?
 
“Nessuna patologia, nessun problema psichico è sparito durante questo periodo di emergenza. Anzi. Semplicemente la paura del nemico invisibile ha messo in secondo piano tutto il resto. La disperazione di chi già viveva i maltrattamenti, in questo momento di isolamento sarà ancora maggiore. Chissà quanto malessere viene vissuto in silenzio, senza la possibilità di farlo sapere all’esterno. Perché la persona violenta vive tutto il giorno, tutti i giorni, a strettissimo contatto con la sua vittima. Io, come scrittore e psicologo, posso soltanto immaginare il dolore immenso di chi prima poteva almeno uscire di casa, andare al lavoro, sfogarsi con un analista, un medico, qualche assistente dell’Asl. Adesso, probabilmente, non riesce più nemmeno a fare una telefonata senza incorrere nelle ire dell’altro”.
 
A proposito di lavoro, il ritorno alla normalità riserverà amare sorprese?
 
“Credo che il governo dovrà prevedere molte, ma molte risorse in più di quelle che ha stanziato perché l’Italia non subisca un tracollo. E il terrore di restare senza lavoro rischia di rendere ancora più fosco il quadro di questa tragedia”.
 
Il mondo della cultura, tra tanti, sta soffrendo. Però ha provato a reagire, a reinventarsi in rete…
 
“Un esempio da indicare con grande ammirazione è quello della casa editrice La nave di Teseo. Elisabetta Sgarbi, con il suo staff di collaboratori, ha lanciato subito l’iniziativa #iorestoaleggere, che è piaciuta molto. Tanto che, poi, altri editori e operatori culturali si sono accodati. Stanno facendo tutti un grande lavoro perché la gente continui a leggere nelle proprie case, utilizzando la rete internet. In particolare, La nave ha deciso di pubblicare in traduzione italiana, per il momento in formato digitale,  l’autobiografia di un grande regista come Woody Allen, ‘A proposito di niente’, in un momento in cui le librerie sono chiuse. Un atto di coraggio che andrebbe premiato acquistando il libro”.
 
La parola scritta può aiutare ad ancorarci alla realtà?
 
“Assolutamente sì. E bene ha fatto il mondo della cultura a non lasciarsi cullare dalla tentazione di mugugnare, di piangersi addosso. Credo che abbia agito nel modo giusto. Continuando a lavorare, a esercitare e condividere il dono della creatività”.
 
Sarà difficile per gli scrittori raccontare questo momento?
 
“Io non ho mai scritto un romanzo raccontando quello che stavo vivendo. Sarà importante osservare lo stato di emergenza, analizzare tutto con calma e lucidità, raccogliere appunti, riflessioni, che, poi, in un secondo tempo potranno ritornare utili. Adesso, direi che è fondamentale reagire alla voglia di lasciarsi andare,. Lavorare e curare se stessi”.
 
Lavorare, appunto: gli impegni sono aumentati in casa?
 
“Aumentati di molto, soprattutto per le donne. Prima, chi se lo poteva permettere aveva qualcuno che lo aiutava a fare i lavori di casa. Adesso bisogna pensare a tutto: cucinare, lavare, stirare, riordinare il posto dove vivi. Tempo per la scrittura non ce n’è molto. Anche perché un romanzo richiede concentrazione, approfondimento dei temi che devi trattare. In questi giorni, ho letto un’intervista a Sandro Veronesi, lo scrittore de ‘Il colibrì’, che confessava di tenere un diario per annotare lo scorrere del tempo in un periodo così particolare e inaspettato. Ecco, forse quella può essere la formula giusta. Io mi sono limitata a scrivere qualche articolo, alcuni sono usciti proprio su Affari Italiani. E l’ho fatto soltanto dopo aver riflettuto bene su ciò che sta accadendo”.
 
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