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Culture
Maria Latella, dall'infanzia a Sabaudia agli sgambetti dei colleghi. Il libro
Maria Latella

C’è l’infanzia a Sabaudia con i genitori insegnanti, il sogno dell’Inglesina per le bambole, il Buondì nella cartella e i comizi politici che affascinavano l’allora bambina Maria Latella, giornalista e conduttrice tv, che per la prima volta si racconta in un libro, “Fatti privati e pubbliche tribù. Storie di vita e giornalismo dagli Anni Sessanta a oggi” (Ed. San Paolo). Dalla Hollywood laziale, dove potevi incontrare Anita Ekberg in piazza e Alberto Moravia al mercato, alla prima vacanza studio a Londra con la scoperta di "Ultimo tango a Parigi", film censurato in Italia, che segna il primo giro di valzer con l’età adulta. Poi la facoltà di Giurisprudenza a Roma e a Genova, gli Anni di Piombo, i primi amori. Il concorso per la borsa di studio in giornalismo, che è il primo passo di una lunga carriera, affrontata con passione e determinazione, tra carta stampata e televisione, politica e costume, e di una vita trascorsa a fare delle scelte in cui si intrecciano lavoro e famiglia. Un racconto che unisce la storia alla vita privata: la nascita della figlia Alice e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, le incursioni negli Stati Uniti e l’addio al Corriere della Sera dopo 23 anni, per iniziare l’esperienza come direttrice del settimanale A. Oggi Maria Latella si divide tra “Nessuna è perfetta” su Radio24, “L'Intervista” su SkyTg24 e gli editoriali su Il Messaggero.

Il libro si chiude con una confessione a suo marito: "A proposito Alasdhair, ho deciso di dirtelo: non ci sono andata, al consolato. Non trovo più la cartelletta con i documenti del passaporto". Come mai? 

"Mio marito è un cittadino britannico che vive a Parigi, ma viene spesso in Italia a trovare me oppure va ad Amsterdam da sua figlia. Con la Brexit mi aveva chiesto di andare al consolato italiano a Parigi a istruire la pratica per avere la cittadinanza italiana. Io sono pronta a prendere aerei per volare in tutto il mondo se si tratta di fare un'intervista e non mi spavento mai se c'è da fare, ma gli iter burocratici mi bloccano. Così mi sono arresa e gliel'ho detto attraverso il libro. Vedremo cosa succederà in base alle prossime decisioni della Gran Bretagna".

maria latella copertina interna
 

"Tutta la vita è fatta di decisioni. A volte si sbagliano, l'importante è prenderle", scrive poco prima. Perché, per esempio, quella di raccontare la sua vita privata in un libro?

"Grazie al mio lavoro ho incontrato molte donne di fronte a un bivio, sia quando sono stata direttore del settimanale A, dal 2005 al 2013, sia come autrice del programma su Radio24 "Nessuna è perfetta". Donne che devono fare scelte che spesso le allontaneranno dalla famiglia. Capita sempre più di frequente perché le carriere si stanno internazionalizzando, ma non solo. Succede anche con lavori più semplici. Penso alla ragazza che mi ha raccontato di aver vinto un concorso come guardia carceraria: dopo tanti anni di disoccupazione, aveva un lavoro, finalmente, che la portava però a trasferirsi al Nord, a fronte di un progetto matrimoniale già definito al suo paese. In questi casi l'onere di queste decisioni sulle donne è altissimo, perché il 'conventional thinking' spinge a rinunciare. Io penso invece che bisogna andare, perché le cose poi si aggiustano sempre. Me lo ha insegnato mia madre, insegnante, che a 21 anni accettò un posto in un piccolo centro della Lucania: la notte aveva i lupi che ululavano fuori dalla porta. Fu una decisione pionieristica per gli Anni Cinquanta. Penso che alle donne oggi vada tolto un po' di peso: i loro familiari, i loro capi, i loro amici dovrebbero aiutarle a prendere le decisioni. Io stessa ho fatto scelte che inizialmente mi hanno penalizzato: quando da Roma ho voluto trasferirmi a studiare a Genova, i miei genitori mi hanno tagliato i fondi. Così è successo quando ho lasciato Il Secolo XIX per andare al Corriere della Sera: i miei guadagni si sono letteralmente dimezzati, perché a Genova avevo la qualifica di inviato e in più facevo la corrispondente per il Corriere stesso. Però tutte le volte la fatica di ricominciare secondo me vale il gioco. Non si tratta di fare un salto nel vuoto, ma di prendersi un rischio calcolato".

Lei spesso si è trovata davanti a scelte che avevano la famiglia da un lato e il lavoro dall'altro. Qual è stata la più sofferta?

"Lasciare Milano per venire a Roma a seguire la politica nel 1993, sempre per il Corriere della Sera. Mia figlia si era ben ambientata alla scuola tedesca, io stavo bene alla redazione Interni. Avevo appena comprato casa a Milano, che era ed è la mia città d'elezione. Non ci ho dormito per mesi e ho fatto fatica a far accettare questo cambiamento alla mia famiglia. Ma sono contenta, a conti fatti è stata una scelta giusta".

La maggior soddisfazione lavorativa, invece?

"Ce ne sono state tante, anche se, narcisisticamente, di alcuni scoop ci accorgiamo solo noi giornalisti, più che i lettori. Penso però al caso della nave Achille Lauro: fui io a scrivere che l'Italia aveva fatto scappare Abu Abbas. Da lì cominciò il mio rapporto come corrispondente con i media americani, tra cui Time e la Nbc, dove tempo dopo feci uno stage. Ripenso sorridendo anche a tanti momenti da cronista politica: c'era una corsa frenetica a scoprire qualcosa che gli altri non sapevano, come il primo incontro tra Berlusconi e De Mita, per esempio. Notizie che costavano fatica, perché bisognava stare in giro tutto il giorno per conquistarsele. A oggi la cosa che più mi piace aver raccontato sono le convention e le campagna elettorali americane".

Il rapporto con gli Stati Uniti è una parte importante della sua vita.

"Vedere la realtà dall'America ti fa capire quello che succede in Italia. Per esempio, ho seguito la sfida elettorale di George Bush contro Michael Dukakis nel 1988. Quando nel 1993 Silvio Berlusconi è diventato il candidato a sorpresa di qualcosa che non esisteva prima, il centrodestra, ho visto ripercorrere certi schemi punto per punto. Vale anche l’inverso, però. Quando nel 2016 ho insegnato all’Institute of Politics dell’Università di Chicago, ho fatto il paragone tra Trump e Berlusconi. Nessuno, tranne me, credeva potesse vincere. Ma io vedevo ripetersi le stesse tappe".

Il giornalismo rende anche molto cinici: c'è una notizia che non riscriverebbe? 

"C'è un'intervista che non rifarei, proprio perché al cinismo va messo un limite. Era il mio primo anno da cronista a Genova. Tutti noi giovani venivamo spinti a essere scaltri e aggressivi nella ricerca della notizia. C'era stato un pesante episodio di bullismo e a me venne detto che dovevo tornare al giornale con l'intervista alla mamma del ragazzino a capo del branco. Le assistenti sociali volevano giustamente proteggerne l'identità e avevano consigliato alla donna di non parlare. Io bussai alla sua porta, ma io non le dissi di essere una giornalista e la lasciai volutamente nel dubbio. Lei si fidò, mi parlò e io scrissi il pezzo, ma poi, giustamente, arrivò la querela e fui condannata. Ho ricevuto altre querele successivamente, ma ho sempre vinto, anzi, in un caso il diritto di cronaca fece anche giurisprudenza. Negli anni seguenti prese piede un certo giornalismo senza scrupoli stile tabloid inglese: penso al cronista che si camuffò da sceicco per incastrare Sarah Ferguson. Io non ho mai pensato che questo sia il modo corretto di fare giornalismo".

Chi sono stati i suoi maestri?

"Il primo è stato Michele Tito, direttore al Secolo XIX quando ero ancora una stagista. Quando lo incontravo nei corridoi, mi chiedeva:  “Signorina, quanti libri ha letto questa settimana?". Io sono sempre stata un’avida lettrice, ma questo fu un grande sprone. Giulio Anselmi mi ha insegnato il rigore nella ricerca delle notizie. Poi Tommaso Giglio e Carlo Rognoni, sempre per restare a Genova. Paolo Mieli al Corriere della Sera è il direttore che mi ha spinto a fare politica, la mia grande passione. E ancora, Ferruccio De Bortoli e Carlo Verdelli... Ho avuto la fortuna di avere sempre dei direttori e vicedirettori di grande qualità. E’ un passo in più che tu ricevi. Io credo nei maestri".

Paolo Mieli è stato anche il direttore che le ha proposto la direzione del settimanale A.

"Non avrei mai immaginato di fare il direttore di un settimanale femminile, perché non leggevo quel tipo di stampa. Venivo dall'adrenalina del quotidiano e dalla frenesia della cronaca politica. Inoltre il settore della stampa periodica cominciava a mostrare i primi scricchiolii a causa della crisi economica. E' stata un'esperienza faticosa, ma meravigliosa. Mi ha messo in contatto con il mondo delle donne, che fino ad allora non avevo mai conosciuto e di cui avevo sottovalutato l'energia e la forza".

Lei ha sempre lavorato in un ambiente maschile molto competitivo. Qual è lo sgambetto che non ha dimenticato?

"Ero l'unica donna nel gruppo dei cronisti che seguivano Berlusconi e già questo bastava a farmi sentire sola. Nel 1993-1994 era ancora più difficile di oggi. Loro parlavano di calcio, di ragazze... ero completamente tagliata fuori da un certo cameratismo. Inoltre io lavoravo per il Corriere della Sera, la testata più prestigiosa, ed erano tutti molto competitivi. Quando facevamo la posta sotto casa di Berlusconi, a una certa ora mi facevano credere di andare tutti a pranzo e io correvo da mia figlia. Loro, invece, giravano l'angolo e tornavano ad appostarsi, beccando Berlusconi mentre usciva. E’ successo un paio di volte, ma poi ho mangiato la foglia e ho iniziato ad andare a pranzo con loro oppure a rimanere in attesa da sola".

Una volta si ritrovò in uno sgabuzzino con Augusto Minzolini...

"Abbiamo avuto decine di scontri. Lui era alla Stampa di Ezio Mauro, io al Corriere di Paolo Mieli, due direttori agguerritissimi. Questo ci portava a sfidarci spesso. Quella volta eravamo al Palatino per il primo confronto forte tra Berlusconi e Occhetto: mi venne l’idea di chiudermi nello sgabuzzino accanto al camerino di Berlusconi, convinta di aver avuto un’ideona. Invece poco dopo sentii qualche rumore… C’era anche Minzolini”.

Visto lo scandalo molestie di queste settimane, tra tanti colleghi maschi è capitato anche a lei di ricevere delle avance?

"Distinguerei tra avance e molestie. Di avance ne ho ricevute spesso, come molte altre giornaliste. Ricordo una volta a Genova, quando ero ancora stagista al Secolo XIX. In quegli anni c'erano gli inviati di tutti i principali quotidiani, perché era la città del terrorismo, purtroppo. Presi ingenuamente l'ascensore con uno di loro, eravamo soli e lui tentò un approccio. Me lo ricordo bene. Era molto più anziano di me e io rimasi senza parole. Per fortuna il viaggio in ascensore durò poco. Io non gli rivolsi più la parola per tutto il suo soggiorno e lui era evidentemente imbarazzato per quel goffo tentativo. Ripensandoci, credo di essere stata un po' Biancaneve. Penso ci siano stati molte volte dei tentativi di avance, ma io non me ne accorgevo, erano atteggiamenti soft. Credo però che nella relazione tra una giovane donna e un uomo potente, che si trovano nello stesso ambiente di lavoro, sia davvero molto importante per la propria sopravvivenza professionale mandare subito un segnale di indisponibilità. Ci sono tanti modi per farlo. Bisogna proteggersi perché il rapporto vittima-carnefice segna poi la carriera e anche la psiche, come stiamo notando. Certo, bisogna capire che accettare un invito per un colloquio in una camera d’albergo e andarci da sola è rischioso. A volte uno pensa che nel migliore dei mondi possibili tutto sia regolato da norme, invece, come si vede, non è così”.

Come vede lo scandalo molestie che, partito da Hollywood, è arrivato in Italia?

"Lo trovo positivo se serve a far capire agli uomini di potere che non tutto è più consentito, perché la riprovazione sociale può rovinare la loro carriera, non solo quella delle ragazze in qualche modo ricattate. C'è però qualcosa che non mi è ancora chiaro. Mi inquieta che questo genere di campagne globali cominci sempre da qualcosa che non viene spiegato. Perché ora? Perché tutto insieme? Da giornalista vorrei capirne di più".

Qual è l’intervista che vorrebbe fare e che non ha ancora fatto?

“Ce ne sono moltissime. Un paio di mesi fa, però, ho intervistato Wolfgang Schaeuble (neo eletto presidente del nuovo Parlamento tedesco, ndr) e ho capito che mi piacerebbe molto approfondire il metodo della politica tedesca, l’unica in questo momento che affronta cambiamenti radicali, ovvero mettere insieme un governo complicato, avendo però dei solidi punti di riferimento. E questa solidità è personificata da Angela Merkel. Ecco, mi piacerebbe chiederle come si diventa Angela Merkel”.

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