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Economia
Borse, il rischio? L'addio dei banchieri centrali. Perché prendere profitto

Sarà che sono almeno due anni che molti investitori e analisti consigliano prudenza, nonostante abbaiano poi visto i mercati salire ulteriormente, sarà che l’avvicinarsi della fine dell’era del “denaro facile” rischia di coincidere con un cambio della guardia al vertice delle maggiori banche centrali occidentali (il mandato di Janet Yellen alla Federal Reserve scade a fine febbraio prossimo, in aprile toccherà a Haruhiko Kuroda lasciare la poltrona più alta della Bank of Japan, mentre Mario Draghi dovrebbe restare ai vertici della Bce sino all’ottobre del 2019, ma non è escluso lasci prima per candidarsi alle elezioni politiche italiane la prossima primavera), fatto sta che da qualche tempo ad ogni nuovo record di Wall Street e delle borse europee non si nota più la frenesia di pochi mesi fa e ad ogni storno delle quotazioni il numero di chi sembra pronto ad alleggerire le posizioni aumenta.

Eppure a guardare bene lo scenario non dovrebbe cambiare drasticamente da qui a qualche mese, come notano anche Toby Nangle e Maya Bhandari, gestori multi-asset di Columbia Threadneedle Investments (che peraltro mantengono per il momento immutata la propria asset allocation complessiva): se la Yellen non sarà riconfermata, è prevedibile che Donald Trump farà fuoco e fiamme per mettere al suo posto un banchiere altrettanto se non più “accomodante”, che forse non rallenterà il graduale, prudentissimo, rialzo dei tassi sul dollaro (finora un quarto di punto a semestre, dal prossimo anno forse un quarto di punto a trimestre) ma difficilmente lo accelererà più di quanto già non scontano i mercati. In compenso il prossimo governatore della BoJ potrebbe essere maggiormente tradizionalista e voler normalizzare quanto prima la politica monetaria giapponese, anche se questo rischia di mettere definitivamente fine alla Abenomics.

In Europa Mark Carney, a capo della Bank of England, sarebbe dovuto rimanere solo fino al giugno 2018, ma l’esigenza di pilotare quanto più dolcemente possibile la Gran Bretagna fuori dalla Ue ha già portato il banchiere centrale ad annunciare di essere disponibile a restare un anno in più (e Theresa May ad augurarsi che possa in realtà restare fino al giugno 2021, ossia tre anni oltre il mandato quinquennale “standard”), ma a segnalare, in settimana, come sia probabile che “a breve termine” l’istituto inizi a ritirare parte degli stimoli monetari, annuncio che ha portato la probabilità implicita di un rialzo dei tassi ufficiali sulla sterlina dello 0,25% entro novembre dal 40% al 50%. Una strategia simile (rimanere sino alla fine, ma iniziare ad alzare i tassi o meglio a ridurre gli acquisti di bond sul mercato) potrebbe essere seguita anche da Mario Draghi o comunque dal suo successore.

Col che ci si ritroverebbe in una situazione per certi versi antitetica rispetto a quella che finora hanno scontato i mercati, con tassi sul dollaro visti stabili e tassi sull’euro, sulla sterlina e sullo yen visti in rialzo. La reazione più prevedibile sarebbe sul mercato dei cambi, con un’ulteriore ribasso per il dollaro, e sui bond, con un calo delle quotazioni che sarebbe più marcato per i titoli a più lunga scadenza ma che non potrebbe risparmiare del tutto neppure gli strumenti a breve. Sui mercati azionari si tratterà di capire se il nuovo quadro di politica monetaria si potrà accompagnare a politiche fiscali in grado di offrire comunque un supporto alla ripresa, ovvero se la Trumpeconomics riuscirà a far ripartire la crescita a stelle e strisce, sostituendosi nuovamente all’Europa come locomotiva dell’economia mondiale.

(Segue...)

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