Economia
“Kebab fighetto e di Vacchi? Ora basta. Abbiamo perdite: e allora?”. Kebhouze, parla il fondatore
Kebhouze tra perdite e problemi d'immagine: il co-fondatore Oliver Zon fa chiarezza sul futuro della catena di Gianluca Vacchi e sui prossimi bilanci



Kebhouze, parla il fondatore: "Pubblicare i bilanci ci ha creato molti danni"
Tre ragazzi, un imprenditore da milioni di follower e 24 locali aperti in meno di due anni. Non è l’inizio di una barzelletta, ma la storia di Kebhouze, la catena di fast food tutta dedicata al kebab che in poco tempo è diventata un fenomeno mediatico. Ma dietro le spezie e la mascotte rossa con la corona, non ci sono solo carne arrostita e panini farciti, ma una visione imprenditoriale bella tosta. Da una parte Oliver Zon, co-fondatore dei Kebhouze, dall’altra Gianluca Vacchi, imprenditore e volto social che oggi, tramite la sua Cofiva Holding, ne possiede il 70%.
Insieme hanno puntato tutto su un’idea: portare il kebab a un altro livello, con scelte che vanno dal pollo al vegano, dal tacchino al black angus. Ma il sogno, come spesso accade alle realtà che corrono veloci, ha presto fatto i conti con la voce dei media. Nel primo vero anno di attività, la società ha registrato una perdita di circa 1,9 milioni di euro. Per rimettere in ordine i conti, è stato necessario azzerare le riserve e abbassare il capitale sociale da un milione a 264mila euro. Eppure, a finire sotto i riflettori non sono stati i numeri, ma il nome in copertina: Vacchi.
E così la Kebhouze dell'influencer è stata presto bollata da molti come un "brand in crisi", un progetto da copertina più che da cucina, qualcuno lo ha anche etichettato come "un kebab di lusso", e da allora, nel 2022, i bilanci non sono più stati pubblicati. Molti hanno letto questa scelta come un segnale di difficoltà, ma Oliver Zan ad Affaritaliani.it racconta una realtà ben diversa.
Come nasce Kebhouze? Qual era la vostra visione iniziale e quanto siete riusciti a mantenerla intatta fino ad oggi?
C’era il desiderio di creare qualcosa di nostro: un brand con un prodotto protagonista, un monoprodotto. Abbiamo esplorato diverse opzioni e alla fine abbiamo scelto il kebab, perché ne eravamo grandi consumatori. In realtà, prima di arrivare al kebab, abbiamo provato altri prodotti come il tacos o il maritozzo salato. Il mondo del kebab ci sembrava molto distante da quello dell’imprenditoria italiana occidentale e quindi ci è sembrato subito interessante. È uno degli street food più consumati al mondo, universalmente conosciuto, senza bisogno di traduzioni. Questo lo rendeva molto attraente in ottica di scalabilità internazionale.
L'obiettivo era quindi di sdoganare il kebab in Italia. A distanza di quasi quattro anni, ci siete riusciti?
Nelle città in cui siamo presenti, assolutamente sì. Oggi ci sono clienti in giacca e cravatta che pranzano nei nostri locali. Questo è stato possibile anche grazie alla comunicazione: abbiamo creato una rottura rispetto al passato, evitando il format "arabbeggiante". Certo, ci vorrà tempo per cambiare completamente la percezione del kebab nella testa delle persone. È un processo lungo. Noi cerchiamo sempre di inventare qualcosa di nuovo, e quando crei qualcosa che non esiste, è difficile farlo accettare subito dal mercato.
Oggi la catena ha quattro anni, ma penso che il vero sdoganamento avverrà tra dieci. Ad esempio, al terzo anno, un brand come Mattel ci ha concesso gratuitamente l’uso di uno dei suoi marchi più forti dopo Barbie. Abbiamo così potuto creare l’“Uno Kebab”, personalizzando anche le carte da gioco.
Perché volevate tanto staccarvi dalla definizione tradizionale di kebab?
Volevamo staccarci soprattutto a livello di comunicazione. Sul piano del prodotto invece abbiamo mantenuto il rispetto della tradizione, perché non provenendo da quel mondo abbiamo costruito un team di fornitori e partner che si basasse proprio su questo. Quello che mancava nel mondo del kebab non era tanto la qualità, quanto un punto di riferimento. Il nostro fornitore di carne, ad esempio, è una persona di origine turca con 30 anni di esperienza nel settore. Ha impianti qui in Italia, vicino Milano, ma anche studiato insieme a noi per adattarsi meglio al nostro target, ad esempio con una speziatura più bilanciata.
L’idea iniziale era far mangiare il kebab anche a chi normalmente non lo sceglieva, incuriosito dal nostro approccio. Oggi, stiamo riuscendo a conquistare anche gli appassionati del kebab tradizionale. Un esempio è la recente collaborazione con Abibi, storico kebab libanese.
I prezzi di Kebhouze sono spesso considerati elevati rispetto ai kebab tradizionali. Cosa rispondete a chi vi accusa di vendere un prodotto "popolare" a prezzi "gourmet"?
Se ci confrontiamo con i prezzi del kebab tradizionale di quattro anni fa, eravamo effettivamente fuori scala. Oggi anche il mercato tradizionale ha aumentato i prezzi. Noi siamo partiti un po’ più alti, ma li abbiamo mantenuti stabili, anche durante periodi complessi come la guerra e l’aumento generalizzato dei costi nel 2022, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Il nostro prezzo base oggi è 6,99 euro. Se confrontato con altri kebab forse siamo ancora leggermente più alti, ma in linea con la tendenza attuale (6-8 euro). Se invece lo paragoniamo al mondo dell’hamburger, siamo addirittura sotto prezzo.
Avete introdotto una proposta vegana. È stata una scelta etica, commerciale, o entrambe? E come ha risposto il mercato?
È stato sicuramente un vantaggio. Fin dal primo giorno abbiamo proposto un prodotto vegano, e la comunità vegana ci ha premiato per questo. C’è un forte passaparola tra di loro: siamo finiti anche in gruppi WhatsApp dedicati. Il prodotto vegano oggi non è solo una vetrina di comunicazione, ma rappresenta il 7% delle vendite totali di kebab: un numero davvero impressionante.
Qual è il vostro punto di forza nella comunicazione?
Credo sia un’identità molto chiara, definita fin dall’inizio, che ha saputo dare un’anima al brand. Non ci limitiamo ai social, ma portiamo avanti una comunicazione a 360 gradi, compresa l’attività di eventi, creando un vero e proprio "movimento". Parliamo soprattutto alla generazione Z, che ha capito il nostro riposizionamento del kebab. Per loro è naturale scegliere Kebhouze. A differenza della mia generazione, io sono dell’‘89, che associava il kebab all’idea di cibo notturno, i giovani di oggi non hanno questo pregiudizio.
Nel 2021 eravamo gli unici a parlare bene del kebab. È stata una sfida, certo, con costi anche più alti, ma ci crediamo molto. È un cibo semplice, universale. Perché non dovrebbe funzionare come ha funzionato la piadina? E c'è anche da dire che la piadina, all’estero, ha il problema di dover essere spiegata. Il kebab, invece, è già conosciuto ovunque.
Com’è strutturata oggi Kebhouze? Quanti store ha e quanti dipendenti?
Oggi abbiamo 18 locali in Italia, più uno a Ibiza e uno a Londra. E specifico che negli ultimi anni non abbiamo avuto una riduzione dei dipendenti: oggi ne abbiamo 115, quando avevamo più locali ne avevamo circa 124 e lo scorso anno abbiamo anche investito sul welfare aziendale.
Molti hanno scritto che siete cresciuti troppo in fretta, in modo poco sostenibile. È una critica che vi tocca?
Noi abbiamo aperto 20 locali il primo anno, poi ne abbiamo aperti altri 5 il secondo, e ne abbiamo chiusi 4 il terzo. Perché volevamo conquistare il mercato ed essere i primi. Nel nostro piano abbiamo un investitore dietro (Gianluca Vacchi ndr.) che ci ha dato un solo suggerimento, ci ha detto che dovevamo essere i primi a muoverci, i primi a ritagliarci il mercato. Questo ha un costo? Certo. Su 20 locali aperti in un anno, qualcosa si sbaglierà. Ma faceva parte del gioco, e fa parte ancora oggi del gioco. Avremmo potuto aprire 20 locali in 4 anni ed essere più attenti nelle scelte, invece ne abbiamo aperti 20 subito e poi ci siamo fermati. Però intanto, come brand di kebab, c’eravamo solo noi. Devo dire che oggi, anche se abbiamo buttato via dei soldi, è stata una mossa che ci premierà in futuro.
Se tornasse indietro, rifarebbe la stessa scelta?
Sì, tirerei solo 4 o 5 mesi in più per lo studio del prodotto. Quando siamo partiti, avevamo un prodotto che non è quello di oggi. Nel secondo anno l’abbiamo affinato, abbiamo sistemato le ricette e le procedure. Oggi è un prodotto veramente valido.
Siete molto esposti mediaticamente, Gianluca Vacchi è un moltiplicatore di visibilità. Quanto vi ha aiutato davvero? E vi siete mai chiesti se potesse oscurare il valore del prodotto?
All’inizio la sua immagine ci ha aiutato tantissimo a farci conoscere. Per i primi sei mesi abbiamo comunicato sui nostri canali che era il nostro investitore, poi non l'abbiamo più fatto. Ma Gianluca non è mai stato coinvolto operativamente: non taglia il kebab, per capirci. Abbiamo sempre voluto che Kebhouze camminasse con le proprie gambe, e per questo abbiamo creato un’identità forte, con una mascotte e non che fosse sempre accostata a Gianluce.
Lui non lo vediamo nei locali da più di un anno e mezzo. Ha molti progetti. Ha investito attraverso la sua holding, Cofiba, mettendo oltre 15 milioni. E continua a sostenere l’azienda, che oggi, lo dico con trasparenza, è ancora in perdita ogni mese. Ma è una perdita voluta, per presidiare il mercato.
Il bilancio 2022 parlava di 4,7 milioni di fatturato ma 1,9 milioni di perdite. Perché non avete pubblicato quelli successivi?
Non abbiamo ancora depositato i bilanci 2023 e 2024, ma lo faremo presto: non possiamo permetterci di non essere trasparenti. Abbiamo aspettato per poter lavorare con maggiore serenità, ma sappiamo che ora è necessario. Quando abbiamo comunicato il primo bilancio, con le perdite, ci ha causato diversi problemi: centri commerciali che hanno bloccato trattative, problemi con i fornitori.
Ecco perché abbiamo preferito rimandare. Non depositare un bilancio comporta una multa anche alquanto contenuta, ma pubblicarlo troppo presto può danneggiare davvero, e tornassi indietro quello del 2022 non so se lo presenterei. Ora però è il momento di farlo perchè serve anche per sbloccare nuove aperture e investimenti.
Che tipo di perdite prevedete per questi ultimi bilanci?
Parliamo di perdite strutturali, legate al fatto che la nostra struttura è più grande rispetto all’attuale rete di store. Oggi ne abbiamo 18, ma la nostra struttura è pensata per gestirne almeno 30-35. In questi due anni ci siamo fermati con le aperture (solo 2-3 nuovi locali), ma abbiamo lavorato molto sull’ottimizzazione, sia sul lato operations che food cost: Nel 2022 il food cost era del 46,9%, siamo scesi al 37,2%, poi 31,6%, oggi siamo intorno al 28%
Questo senza toccare la qualità, e anzi migliorando tutto. Inoltre nel 2023 abbiamo raddoppiato il fatturato rispetto al 2022, arrivando a 8 milioni, pur mantenendo circa lo stesso livello di perdita. E nel 2024, senza nuove aperture, sono cresciuti i locali esistenti. Nel primo trimestre 2025 abbiamo fatto un ulteriore +7% sul 2024 e solo su Glovo abbiamo registrato 40.000 ordini, di cui 30.000 da clienti abituali.
Cosa vi aspettate quando pubblicherete i bilanci?
Non mi aspetto che vengano valorizzati i numeri positivi. Purtroppo so che verranno evidenziate solo le perdite. Chiedo solo un po’ di pazienza: siamo in un mercato molto competitivo, e oltre alle difficoltà operative c’è anche tanto accanimento mediatico.
C’è chi dice che avete solo cavalcato un trend. Qual è la vostra visione per i prossimi 5 anni?
Il nostro obiettivo è entrare nella quotidianità. Vogliamo che Kebhouze diventi una garanzia: lo incontri in aeroporto, in stazione, in centro città e sai cosa aspettarti. Un prodotto standard, di qualità. Abbiamo lavorato tanto sull’uniformità dell’esperienza: oggi il kebab è identico in tutti i nostri store. Questo è fondamentale, soprattutto per il canale travel dove vogliamo essere sempre più presenti. In più, è un prodotto inclusivo: tutte le carni sono halal, e abbracciamo così oltre che un pubblico vegano anche una comunità musulmana.
Il kebab è per sua natura un prodotto semplice e popolare. Come si fa a renderlo più esclusivo o differenziato senza snaturarlo?
Non vogliamo essere esclusivi. In realtà, quando ci definiscono "il kebab gourmet di Vacchi", mi dà fastidio. "Il kebab di lusso" è ancora peggio. Non è quella la nostra idea. È un assoluto controsenso. Il nostro è un kebab buono, con prodotti ottimi, una garanzia. E questo lo stiamo vedendo adesso e lo stiamo vedendo negli eventi che stiamo facendo. Perché da due anni a questa parte abbiamo deciso di investire molto sull’out of store, come al K-Future Festival.
Avete in programma nuove aperture? C’è un progetto che oggi sembra ancora irrealizzabile, ma che vorreste realizzare per Kebhouze?
Sì, siamo ripartiti con la ricerca dei locali e con le aperture. In questi anni abbiamo imparato una cosa: abbiamo capito dove Kebhouze non funziona e già questa è una cosa importantissima. Non voglio dire numeri precisi, però nel 2025 ci saranno 3-4 aperture. Oggi il format funziona molto bene nei centri commerciali.
E dove invece non funziona?
Non funziona nelle piccole realtà, nelle piccole città. Abbiamo chiuso alcune località, come Biella. Ma sulle grandi città (Roma, Milano, Torino, Genova, Venezia) e nei centri commerciali, è un format che funziona. Lì sta andando bene. Ad oggi il mio obiettivo è consolidare la società, metterla in sicurezza, far sì che generi degli utili e che nel 2030 sia una vera e propria realtà. Se esistiamo ancora dopo quattro anni, è un segnale importante. Se non funzionasse, ce ne saremmo già accorti due anni fa. Invece ci sono segnali veri che ci spingono ad andare avanti.