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Economia
Si credono i padroni dell'universo. Tutti gli errori delle banche d'affari


“Master of Universe”, i dominatori dell’Universo, con questa immagine mista tra il leggendario, il fumettistico e l’epico, sono sempre stati definiti i banchieri, le banche, i grandi scalatori, la finanza di Wall Street, quella che ancora oggi domina il mondo.

I “dominatori dell’Universo” quelli che fino a qualche anno fa, quando riempivano le tasche di risparmiatori piccoli e grandi, quando facevano impennare le borse fino a illudere che la ricchezza fosse a portata di tutti, anche dei comuni mortali, venivano idolatrati sull’altare, e poi, con la stessa carica di devozione, non più di gioia ma di odio, quando nel 2008 hanno gettato i comuni mortali nella miseria, sono stati etichettati come malvagi, sognando di vederli nella polvere.

Sogni, illusioni, perché i “dominatori dell’Universo” sono sempre al loro posto, sul trono più alto, dove si permettono il lusso, a piacimento, di dispensare giudizi e “condanne” su quella società o quel Paese, quasi determinandone i futuri destini.

Sopravvissuti alla purga del 2008, una fase di smaltimento degli eccessi e dell’orgia finanziaria del credito allegro e dell’indebitamento selvaggio, un periodo in cui le banche hanno dovuto resistere all’assalto di istituzioni, risparmiatori e stampa, oggi, con i mercati in crescita costante, foraggiata dalla politica monetaria espansiva infinita, trovano nuova forza ed energia, ritrovando muscolarità e notorietà di copertina.

E’ successo a Blackrock, un fondo d’investimento gigantesco, primo azionista in metà delle prime 30 società al mondo, da Exxon, Google, Microsoft, JP Morgan e Procter & Gamble, solo per citarne alcune, e a cui qualche anno fa l’”Economist” ha dedicato una copertina raffigurando la possanza di questo fondo come una grande roccia nera (che è poi la traduzione in italiano di Blackrock) su uno sfondo di cielo azzurro. Un’immagine rievocativa che ricorda molto il monolite di Stanley Kubrick in “2001: Odissea nello spazio”, monolite che tra le più svariate interpretazioni ha quella di rappresentare la presenza di un’esistenza superiore. Un po’ come appare il gigante Blackrock, posizionato, con una statura superiore, al centro dei mercati finanziari, tanto da essere definito “il King Kong dell’investimento moderno”.

Un’altra leggende della finanza, al cui fascino la stampa non ha saputo resistere, è Carl Icahn, un nome rievocativo dei fasti delle grandi scalate negli anni ’80, a cui recentemente Time Magazine ha dedicato una copertina. Ultimo grande successo, la centrifuga di mele, una spremitura di dividendi “imposta” ad Apple, un risultato che ha ottenuto le lodi anche dei piccoli azionisti, che oltre ai capital gain sono riusciti ad avere come strenna anche l’extra rendimento.

Prima di tutti loro, in origine, c’era la Salamon Brothers, gloriosa e dimenticata banca d’affari di Wall Street, che nel decennio della Reaganomics, grazie allo spettacolare calo dei tassi d’interesse, divenne il principale operatore sul debito americano. Un dominio che le permise di realizzare enormi guadagni, ma fu anche una banca dotata di grande genialità, infatti fu la prima a ideare la cartolarizzazione di mutui ipotecari, quelli che quasi 20 anni dopo furono conosciuti come MBS. Troppo forte, troppo grande e forse troppo fragile, perché tanto arrivò vicino al sole da bruciarsi le ali e cadere.

Il testimone negli anni ’90 fu preso da diverse banche, la principale, fu Goldman Sachs, uno scettro che mantiene tutt’oggi, essendo diventata una delle maggiori, sicuramente la più influente, banca d’investimenti al mondo. Un’autorità temuta e disprezzata, tanto che la rivista Rolling Stones, con irriverenza, nel 2010 mise in copertina il capo Lloyd Blankfein rappresentandolo come una gigantesca piova-vampiro.

Goldman Sachs che entra di diritto tra i “dominatori dell’Universo”, una nomina meritata, avendo superato indenne la crisi del 2008, una delle sopravvissute, divenuta oggi ancora più forte.

Forte, potente, influente, capace, con i suoi giudizi, di influenzare le decisioni del mondo, sia private che statali, questo dicono di Lei sia i critici sia gli ammiratori, ma non per questo anche infallibile.

Sono tante, nella storia della banca, i clamorosi “bagni” (come si dice in gergo, gli investimenti e le previsioni sbagliate) presi da Goldman Sachs e dai suoi analisti, che per anni sono stati definiti veri e propri guru, salvo poi incappare in gravi errori, tanto da scivolare nel dimenticatoio.

C’era una volta Abby Cohen, la regina di Wall Street, che di Goldman Sachs era la direttrice d’orchestra delle strategie sull’azionario, una donna dal gradevole aspetto materno, era richiesta da tutti, non solo organi di stampa, ma anche semplicemente sui mezzi pubblici newyorkesi, tutti a chiederle consiglio, perché se Abby lanciava il “buy” (indicazione d’acquisto) su un titolo, era come il bacio della fortuna, il titolo in oggetto volava immediatamente in orbita.

Abby Cohen era sempre rialzista, di anno in anno, rivedeva al rialzo i target sull’indice S&P500, e ogni anno, poco più o poco meno, gli obiettivi erano raggiunti, e quel che più conta, ogni anno la sua previsione rialzista si tramutava in realtà. L’unico problema, se così lo vogliamo chiamare, era che gli anni in cui la regina spadroneggiava erano quelli di fine anni ’90, quando tutte le borse del mondo erano trainate da un toro incandescente, e quando arrivò il 2000, con lo scoppio della “Bolla internet”, la tragedia del WTC (l’11 settembre) e gli scandali contabili del 2002, improvvisamente le magie previsionali e il fluido magico svanirono, come la fine di un incantesimo e Abby Cohen da regina tornò a essere una competente e nota operatrice, ma senza più la corona.

Dalla borsa al forex, il mercato valutario, anche qui Goldman Sachs è riuscita a prendere abbagli clamorosi, come quando nel 2015, in pieno stimolo monetario europeo, confidando nella generosità di Mario Draghi, con un Euro/Dollaro poco sopra la parità, la banca americana arrivò a prevedere una graduale caduta della moneta unica europea, fino ad un ritorno del Dollaro forte con una quotazione finale a 0,80 (i minimi del 2000) per il 2017. Oggi siamo a 1,14.

Anche sul mercato obbligazionario non sono mancati errori clamorosi, come quando Jan Hatzius capo economista di Goldman nel 2014 arrivò brillantemente ad anticipare ed individuare la finestra temporale del primo rialzo dei tassi Usa, ma si sbilanciò a prevedere tassi sui Fed Funds al 4% per il 2018. Previsione ipotizzabile con questa impetuosa crescita economica, ma non per questa (generosa) politica monetaria, infatti i tassi oggi non arrivano nemmeno al 3%.

Si dirà che sono tutti errori veniali, perché tra i pochi svarioni ci sono anche delle indicazioni di lungimiranza straordinaria, previsioni formulate da grandi analisti poi diventate vere e proprie star del mercato e da sofisticati e precisi algoritmi, ma è anche vero che questi algoritmi hanno preso delle toppate clamorose. Non solo in economia e finanza, ma anche quando si sono cimentati in altri settori, come quello del calcio, e nello specifico le previsioni sui recenti mondiali in Russia, dove gli algoritmi di Goldman avevano previsto un Portogallo in semifinale e una Germania che doveva correre spedita in finale. Germania che in finale avrebbe dovuto giocare contro la grande favorita, il Brasile.

Ma la topica più grande rimane quella del Maggio del 2008, quando all’alba della grande crisi, il capo analista Arjun Murti annunciò il petrolio proiettato verso i 200$ entro due anni. Con l’aggiunta della nota “sebbene sia difficile individuare esattamente il picco delle quotazioni ed al tempo stesso la durata di questa fase rialzista”. Sappiamo tutti com’è andata a finire, e dove è rotolato il barile di petrolio. Per correttezza c’è da dire che lo stesso analista strabiliò il pubblico nel 2005 prevedendo il petrolio oltre i 100$, e proprio grazie a questa “magia” guadagnò notorietà e prestigio. Ma anche ai migliori capita di sbagliare.

L’ultima nota, o meglio previsione, emessa da Goldman è di ieri, ed è proprio sull’Italia ed è un giudizio fortemente negativo. L’Italia, secondo la banca americana, è “fra i rischi che potrebbero complicare più del previsto lo scenario di mercato europeo nel 2019, la crisi di bilancio rimane irrisolta e l’economia italiana flirterà con la recessione all’inizio del prossimo anno”, concludendo con una stima di crescita per la nostra economia ferma allo 0,4%. Le attuali lancette dell’economia dirette verso la zona rossa, sembrano dare ragione a Goldman Sachs, ma è anche vero, e il passato insegna, che le variabili in gioco sono molte, e se le previsioni nefaste si rivelassero sbagliate?

Nel 2008, con la finanza che vedeva appiccare i primi focolai di crisi, con la BCE di Trichet che aumentava i tassi d’interesse compiendo un autentico suicidio, con il petrolio che stroncò i consumi, nessuna tra le principali banche arrivò a prevedere che ci sarebbe stata una recessione, di più, lo scoppio di una bolla speculativa, di più, il rischio di un 1929 con conseguente depressione economico e sociale.

Nessuno riuscì nella previsione, tutte le banche, Goldman compresa, finirono in quello che negli anni ’80 Tom Wolfe definì il “falò delle vanità”. Falò in cui furono bruciate quantità indefinite di denaro, ma falò da cui come fenici le maggiori banche d’investimento del mondo, Goldman compresa, riemersero più forti e brillanti di prima.

Fenici che risorgono con o senza aiuto, perché le previsioni sono libere, giuste o sbagliate, a pagare, se c’è da pagare è sempre lo stato. E’ la legge del mercato, di questo mercato dove a decidere i destini del mondo sono i “dominatori dell’Universo”.

@paninoelistino   

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