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Economia
Sparkle e Stellantis o le cessioni: la strategia indecifrabile del governo
Adolfo Urso, Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti

Sparkle e Stellantis o le cessioni: la strategia indecifrabile del governo

Sparkle, ex-Ilva e Stellantis da una parte, una pletora di aziende statali dall’altra. In mezzo, il governo – e in particolare il Ministero del Made in Italy e il Ministero dell’Economia – che cerca di darsi una politica industriale. L'offerta vincolante da circa 800 milioni per i cavi della rete Tim rappresenta il ritorno “ufficiale” dello Stato nel mondo della telefonia abbandonato nel 1995. Dopo che Cassa Depositi e Prestiti aveva rilevato il 10% dell’ex-Telecom, ottenendo anche un posto in consiglio d’amministrazione, ora è Via XX Settembre a scendere definitivamente in campo.

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Ma non basta: il ministro Urso, provando a stanare Stellantis, si dichiara pronto a un ingresso nel capitale dell’ex Fiat. Anche questo un unicum, un tentativo di emulare lo Stato francese per costringere l’azienda guidata da Carlos Tavares a non dare seguito alle continue minacce di lasciare l’Italia. E poi ancora l’Ilva: Invitalia è già socia dell’acciaieria, di cui detiene il 38%. Ma potrebbe salire fino al 66% se trovasse un accordo con ArcelorMittal. Ma gli anglo-indiani dichiarano guerra al governo e sono pronti ad adire le vie legali.

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E allora viene da pensare: si sta tornando all’Iri? Il progetto industriale del governo è di riportare le lancette indietro di un trentennio all’economia di stato? Non si capisce. Anche perché dall’altra parte si annunciano urbi et orbi le cessioni di quote delle aziende partecipate. Eni, Poste, Ferrovie e chissà quali altre e in che misura. Aziende strategiche che fruttano miliardi di dividendi ogni anno e che verrebbero sacrificate con un duplice intento: da una parte dimostrare ai mercati la volontà di avere un’economia sempre più aperta. Dall’altra ridurre l’indebitamento monstre. Perché il governo degli italiani, dei patrioti, dei sovranisti non chiede al popolo di partecipare attivamente e comprare quote di debito pubblico? Il Paese con il più alto risparmio privato in Europa potrebbe anche pensarci, se debitamente coinvolto e convinto. Ma non si arriva al dunque.

Indicazioni discordanti, di segno opposto, dunque. Senza contare l’invito del Mef a Unicredit a chiarire se intende far partire il risiko bancario: e perché una “public company”, un’azienda quotata in Borsa con una molteplicità di azionisti, dovrebbe spiegare al Ministero dell’Economia se intende comprare – o meno – una partecipazione in un altro istituto di credito o prenderne il controllo? Non si capisce, a meno che quella banca non sia Mps, partecipata al 39% dal Tesoro.

Messaggi confusi, dunque, che non chiariscono una volta di più quale sia l’intenzione del governo. Puntare verso un’economia liberista, priva di quei lacci e lacciuoli che rappresentano un fardello alla libera impresa – ma allora serve disboscare col machete quei rivoli di burocrazia che rendono farraginosa qualsiasi operazione. Oppure tornare a un’economia di stato, riprendere le redini dell’Iri e tornare alla stagione delle grandi partecipazioni pubbliche. Questo continuo ondeggiare tra un’idea e l’altra rende difficile comprendere la strategia del governo. E fa sorgere un sospetto malizioso: c’è?
 






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