Spread, due miliardi di interessi sul debito. Quanto ci è costato il Salvimaio - Affaritaliani.it

Economia

Spread, due miliardi di interessi sul debito. Quanto ci è costato il Salvimaio

Difficilmente lo spread calerà sotto la quota di 200 punti base se il governo non cambierà passo

Crisi sì, crisi no, crisi forse: mentre Matteo Salvini starebbe valutando se ritirare dal governo i ministri leghisti o se aprire la crisi di governo, aprendo ad elezioni anticipate già a ottobre, in piena sessione di bilancio, una sola cosa è certa. Sotto il 2% lo spread Btp-Bund, che il 25 aprile dello scorso anno stava attorno all’1,15%, non riesce a scendere, neppure approfittando di curve dei tassi sempre più invertite e di tassi sempre più bassi ovunque a partire dalla Germania (che ormai vede l’intera curva dei rendimenti negativa dai 3 mesi ai 30 anni).

salvini di maio
 

Saranno le tensioni in seno al governo tra Lega e M5S, sarà la constatazione, sottolineata anche da una nota della Lega, che “su grandi opere, infrastrutture e sviluppo economico, shock fiscale, applicazione delle autonomie, energia, riforma della giustizia e rapporto con l’Europa tra Lega e 5 Stelle ci sono visioni differenti” e dunque si rischia solo di continuare a “tirare calci al barattolo”, come dicono gli inglesi. Fatto sta che dalle elezioni dello scorso anno ad oggi il differenziale di rendimento tra Btp decennali e Bund di pari durata è cresciuto di almeno uno 0,7% (con punte, nei momenti di maggiore incertezza e tensione, dell’1,9% in più).

Il rischio ora è che elezioni anticipate in autunno possano far risalire nuovamente il premio per il rischio che i mercati chiederebbero per investire in titoli italiani, riportando lo spread almeno in area 2,4%-2,5% (già oggi lo spread si è riportato sopra il 2,1%), con un rendimento del decennale che dall’attuale 1,50%-1,55% potrebbe rimbalare sull’1,75%-1,90% o forse più. In soldoni, con un debito pubblico superiore ai 2.358 miliardi a livello assoluto (il 132% del Pil), rinnovato a colpi di circa 400 miliardi di euro l’anno e a fronte di una durata media di 6,8 anni, l’eredità del governo Conte rischia di essere circa 2 miliardi di maggiori oneri finanziari sulle spalle degli italiani.

tria
 

E’ un male o un bene? Dipende evidentemente in cambio di cosa questo maggiore onere finanziario sul debito viene sostenuto: se fosse una crescita più pronunciata potrebbe essere un modo per rendere più sostenibile il debito stesso agli occhi del mercato e dunque ridare slancio all’economia e al contempo andare gradualmente a incidere sempre meno sulle casse pubbliche. Peccato che le cose finora non siano andate esattamente così: lo scorso anno il deficit è stato pari al 2,1% del Pil (era del 2,4% nel 2017), ma il Pil stesso è cresciuto dello 0,9% (+1,5% nel 2017).

Non solo: nel Def 2018 il governo Conte ha quantificato in 0,5 la grandezza del moltiplicatore medio del primo anno di proiezioni, di 0,35 come valore medio del triennio. Ovvero prevedeva che ogni euro di maggiore spesa pubblica potesse creare maggiore ricchezza per circa 0,5-0,35 euro. Se poi si prende la letteratura internazionale in materia, si scopre che la spesa pubblica può avere ritorni (sempre in termini di moltiplicatori medi) molto diversi ma raramente superiori all’unità e che tendenzialemente quando si tratta di spesa per trasferimenti (come sono sia il Reddito di cittadinanza sia Quota 100) non si superano moltiplicatori di 0,7-0,8 volte.

tria ape ape
 

Di questo passo, che il governo tenga o si sfasci sugli scogli di una crisi d’agosto, il risultato non sembra dunque poter cambiare di molto. Salvo miracoli “esogeni”, ossia una forte ripresa della crescita economica mondiale, su cui peraltro continuano a pesare le minacce di una guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina e i rischi di una “Brexit al buio” come minacciata dal neo-premier britannico Boris Johnson, o una ripresa degli acquisti di titoli di stato italiani da parte della Bce, il deficit pubblico italiano (su cui grava un interesse medio sceso al 2,9% a fronte di un costo marginale attorno all’1%) continuerà a crescere più rapidamente del Pil.

Questo presumibilmente porterà gli investitori, pur alla ricerca disperata di rendimento in questo periodo (e ancor più nei mesi a venire se i tassi ufficiali dovessero calare in Europa come in America), a usare sempre maggiore cautela, rendendo difficile comprimere lo spread a livelli ante-elezioni 2018. Le cose potrebbero cambiare? Nulla è scritto nella pietra in finanza e quindi la risposta è affermativa, ma a condizione che si rimuovano i motivi di diffidenza degli investitori verso l’Italia.

Ad esempio accantonando definitivamente le posizioni “no-euro” o ottimizzando la spesa pubblica e limitando gli sprechi, ma anche certamente valutando con attenzione dove e quando investire, promuovendo preferibilmente investimenti privati rispetto che (o insieme a) quelli pubblici. Resta poi il problema di riuscire a ridare slancio ad una cultura dell’intraprendere che in Italia sta invecchiando di pari passo alla popolazione, salvo poche meritorie eccezioni. Ma questo è un problema che non dipende solo dal governo o solo dal partito di maggioranza relativa.

Luca Spoldi