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Esteri
India caos: ultranazionalismo, discriminazioni e (tanti) morti nelle proteste

L'autonomia di un territorio declassata improvvisamente, da un giorno all'altro. Poi le leggi discriminatorie nei confronti di una (numerosissima) minoranza. Infine, il numero dei morti durante le proteste diffusesi in più parti del paese che continua a salire. E' quanto sta accadendo in India, in una crisi di (probabilmente) maggiore gravità ma di minore risalto rispetto ad altre (leggasi Hong Kong) che hanno conquistato molto più facilmente le prime pagine dei giornali e le attenzioni della politica europea e, soprattutto, ça va sans dire, statunitense.

Da giorni l'India si trova alle prese con un'ondata di proteste, nate dal Citizenship Amendment Act, che introduce un criterio religioso nella concessione della cittadinanza indiana. Già, perché la cittadinanza viene garantita ai profughi fuggiti dai vicini paesi Afghanistan, Bangladesh e Pakistan. La possono ottenere tutti: hindu (ovviamente), sikh, cristiani. Ma non i musulmani, eppure anche loro vengano perseguitati nonostante si trovino in paesi a maggioranza islamica. 

Negli ultimi giorni, secondo le cifre ufficiose, i morti sarebbero 18. Dieci vittime nell'Uttar Pradesh, tre a Mangalore e Lucknow, mentre altri cinque morti ci sono stati la settimana scorsa nello Stato nord-orientale dell'Assam. Tra gli ultimi a essere uccisi, ci sarebbe anche un bambino di otto anni. Con decine di altre persone ferite più o meno gravemente e migliaia di arresti. Il bilancio è gravissimo anche perché i protestanti sono rimasti coinvolti in pesanti scontri con la polizia, con gli agenti che avrebbero aperto il fuoco in diverse occasioni. Anche se le forze dell'ordine respingono qualsiasi accusa.

A protestare c'è, ovviamente, la minoranza musulmana (che in un paese sterminato come l'India conta circa 200 milioni di persone), ma non solo. La nuova legge sulla cittadinanza introduce infatti un criterio religioso che non piace ai moderati che vedono a grave rischio l'inclusività e la diversità della società indiana. Sì, perché il primo ministro Narendra Modi si è reso protagonista sin dal suo primo mandato di una svolta nazionalista che soffia sui sentimenti indù. Una svolta resa ancora più forte dopo la sua recente rielezione per un secondo mandato.

Dopo gli incidenti pre elettorali (utilizzati anche in maniera strumentale per un maggiore successo alle urne) con il Pakistan, Modi ha deciso di trasformare il Kashmir da "stato" a "territorio dell'unione". E lo ha fatto senza sostanziale preavviso. Dopo di che la Corte Suprema ha dato il via libera alla costruzione di un tempo indù nello stesso sito dove nel 1992 gli estremisti avevano distrutto una celebre moschea. Nello stato nordientale dell'Assam, invece, è stato introdotto il Registro nazionale dei cittadini del territorio dai quali sono rimasti esclusi tutti coloro non in grado di dimostrare di essere stati presenti (loro o i loro genitori) nei registri elettorali prima del 24 marzo 1971. Una misura secondo molti atta a identificare i migranti musulmani entrati in India dopo l'indipendenza del Bangladesh.

Modi, che finora era riuscito a mantenere la situazione sempre sotto controllo, si trova in mezzo a diversi problemi, visto che la repressione delle proteste non ha per ora scaturito particolari effetti, con il variegato fronte degli oppositori che non sembra fare passi indietro. Insomma, la vicenda pare davvero seria. Chissà se alla Casa Bianca stanno osservando.

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