Avi Loeb (Harvard): "Non siamo soli: la cometa 3I/ATLAS potrebbe essere un veicolo alieno. L'umanità cominci a guardare in alto" - Affaritaliani.it

Milano

Ultimo aggiornamento: 12:19

Avi Loeb (Harvard): "Non siamo soli: la cometa 3I/ATLAS potrebbe essere un veicolo alieno. L'umanità cominci a guardare in alto"

Dalla possibilità di civiltà intelligenti nell’universo al mistero di 3I/ATLAS, l’oggetto interstellare che potrebbe non essere una semplice cometa, l'astrofisico invoca un cambio di prospettiva, ma avverte: «Non siamo pronti ad accettare l'esistenza di a

di Alessandro Pedrini

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Avi Loeb (Harvard): "Non siamo soli: la cometa 3I/ATLAS potrebbe essere un veicolo alieno. L'umanità cominci a guardare in alto"

Abraham "Avi" Loeb è professore di Scienze presso l’Università di Harvard, dove ricopre la cattedra Frank B. Baird Jr. È tra gli astrofisici più noti al mondo e autore di bestseller tradotti a livello internazionale, presenti nelle classifiche del New York Times, Wall Street Journal, Die Zeit, Der Spiegel e L’Express. Laureato e dottorato in Fisica presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, ha diretto il primo progetto internazionale sostenuto dall’Iniziativa di Difesa Strategica (1983-1988) e successivamente è stato membro dell’Institute for Advanced Study di Princeton.

Ha pubblicato oltre mille articoli scientifici e nove libri, tra cui i noti "Extraterrestrial" e "Interstellar", dedicati alla vita intelligente oltre la Terra e al futuro dell’universo. È Direttore dell’Institute for Theory and Computation all’interno dell’Harvard–Smithsonian Center for Astrophysics e Head del Galileo Project, iniziativa pionieristica nella ricerca di tecnologia extraterrestre. Già Chair del Dipartimento di Astronomia di Harvard (2011–2020) e Fondatore della Harvard Black Hole Initiative, è membro dell’American Academy of Arts & Sciences, dell’American Physical Society e dell’International Academy of Astronautics. Ha fatto parte del President’s Council of Advisors on Science and Technology alla Casa Bianca, del Board on Physics and Astronomy delle National Academies e ha presieduto il Breakthrough Starshot Advisory Committee. Il suo ultimo TED Talk è stato tra i dieci più seguiti del 2024. Nel corso di una conversazione esclusiva con Affaritaliani.it, l'astrofisico, tra gli scienziati più visionari del nostro tempo, riflette sull’origine e il destino dell’umanità di fronte alle più grandi domande cosmiche.

Professor Loeb, siamo davvero soli nell’universo? Crede davvero che ci siano altre civiltà intelligenti là fuori, forse anche più vicine di quanto immaginiamo?
Sì, credo sia arrogante pensare che l’uomo sia al vertice della “catena alimentare” della Via Lattea. Nella nostra galassia esistono infatti circa cento miliardi di stelle simili al Sole, e una frazione significativa di esse ospita pianeti delle dimensioni della Terra, situati a una distanza analoga dalla propria stella. Se osserviamo le nostre “strade cosmiche”, scopriamo quindi miliardi di sistemi come il nostro, il binomio Terra-Sole. La teoria dominante in astronomia sostiene che su molti di questi mondi possano esistere forme di vita microbiche, ma individuarle è estremamente difficile: per cercarle servono telescopi spaziali potentissimi, come l’Hubble o il futuro Habitable Worlds Observatory, che costerà oltre dieci miliardi di dollari nei prossimi vent’anni. Ma se in una di quelle “case cosmiche” ci fosse un vero e proprio residente — un essere intelligente — sarebbe molto più semplice individuarlo rispetto a dei microbi. Potrebbe presentarsi alla nostra “porta di casa”, lanciare una “palla da tennis” che finisce nel nostro giardino o realizzare qualche “lavoro edilizio” visibile anche da lontano. Ecco perché ritengo che il motivo principale per cui non siamo ancora consapevoli della presenza di altre civiltà intelligenti — esistite forse molto prima di noi e in gran parte ormai scomparse — sia che non abbiamo ancora investito risorse sufficienti nella loro ricerca. Propongo che si dedichino miliardi di dollari, lo stesso livello di finanziamenti riservato agli studi sui microbi, anche alla ricerca di civiltà tecnologicamente avanzate. E se investissimo quelle risorse e non trovassimo nulla, non sarebbe un fallimento: saremmo semplicemente nella stessa posizione in cui oggi si trovano i ricercatori della materia oscura, che da quarant’anni spendono miliardi senza risultati concreti. Tuttavia, una cosa è certa: se non cerchiamo, non troveremo mai nulla. Probabilmente la nostra civiltà si colloca a metà della “classe” delle civiltà intelligenti nate dopo il Big Bang, 13,8 miliardi di anni fa. È dunque plausibile che, nel corso del tempo, siano esistiti “imprenditori spaziali” più avanzati di Elon Musk. Noi dobbiamo solo individuare i “prodotti” che hanno lasciato dietro di sé — alcuni dei quali potrebbero già aver raggiunto il nostro “cortile”, il sistema solare. Ed è proprio questo ciò che sto cercando di fare. Spero che in futuro vengano dedicate molte più risorse ed energie a questa ricerca. Oggi, per la prima volta nella storia, abbiamo infatti la possibilità concreta di scoprire oggetti tecnologici provenienti da altri sistemi stellari. Negli ultimi dieci anni sono stati individuati telescopi capaci di rilevarli, e finora conosciamo tre oggetti interstellari scoperti dagli astronomi: l’ultimo è 3I/ATLAS. Nel prossimo decennio, con l’arrivo dell’Osservatorio Rubin — dotato di una fotocamera da 3,2 gigapixel in grado di osservare l’intero cielo australe ogni quattro giorni — potremmo individuare nuovi oggetti interstellari ogni pochi mesi. Tra tutte queste “rocce cosmiche”, non possiamo escludere che, prima o poi, ne emerga una che non è un semplice frammento di pietra, ma una “palla da tennis” lanciata da un vicino.

Che cos’è 3I/ATLAS e perché ritiene che possa essere un veicolo spaziale piuttosto che una cometa naturale?
Non si tratta di una questione di fede o di credere: nella scienza tutto si basa sulle prove. Il primo passo per scoprire qualcosa di nuovo è riconoscere le anomalie, quei fenomeni che non coincidono con ciò che ci aspettiamo. Di norma, ci aspettiamo che gli oggetti interstellari siano simili alle comete o agli asteroidi già osservati nel sistema solare. Ed è ciò che molti esperti di comete immaginano: nella loro mente, qualsiasi oggetto proveniente dallo spazio profondo deve per forza somigliare a quelli che già conosciamo. È un riflesso del loro stesso percorso scientifico: hanno costruito competenze su una certa tipologia di oggetti, e tendono a pensare che tutto l’universo debba rientrare in quel modello, fatto di rocce ghiacciate o corpi rocciosi. Ma il punto è che sappiamo bene che nello spazio interstellare non esistono soltanto rocce. Noi stessi, come civiltà, abbiamo già inviato cinque veicoli spaziali oltre i confini del sistema solare: Voyager 1, Voyager 2, Pioneer 10, Pioneer 11 e New Horizons. È— ne ho elencate dieci, ma citerò le più significative. La prima riguarda la sua dimensione: è circa un milione di volte più massiccio di ‘Oumuamua, il primo oggetto interstellare mai osservato. Sorge allora una domanda: perché non abbiamo visto prima milioni di oggetti più piccoli come ‘Oumuamua, invece di imbatterci subito in uno così grande? 3I/ATLAS ha una massa stimata di almeno 33 miliardi di tonnellate, una scala enorme. Inoltre, non c’è abbastanza materiale roccioso nello spazio interstellare da giustificare l’arrivo di una roccia così gigantesca nel sistema solare interno una volta ogni dieci anni: statisticamente, un evento simile dovrebbe verificarsi una volta ogni 10.000 anni o più. Questa è la prima grande anomalia che ho notato subito dopo la sua scoperta. Un’altra peculiarità è la traiettoria: 3I/ATLAS segue un percorso quasi perfettamente allineato con il piano dei pianeti del sistema solare. Si trova entro soli 5 gradi da quel piano, e la probabilità che ciò avvenga per puro caso è di appena 1 su 500. È dunque legittimo chiedersi se questa traiettoria possa essere stata intenzionalmente progettata — ad esempio per una missione di ricognizione. Ci sono poi altre anomalie: l’oggetto emette grandi quantità di nichel ma non di ferro, e presenta un contenuto d’acqua estremamente basso, solo il 4%. Inoltre, mostra un getto luminoso che si estende verso il Sole e non nella direzione opposta, come invece avviene di solito per le comete. Questo comportamento è stato osservato a luglio e agosto. E ancora: proprio il 29 ottobre, al perielio — il punto più vicino al Sole — nuove immagini hanno rivelato una struttura sorprendentemente complessa di almeno sette getti, orientati in tutte le direzioni, non necessariamente lontano dal Sole come ci si aspetterebbe. Normalmente, infatti, la radiazione solare e il vento solare spingono le particelle di gas e polvere in direzione opposta al Sole, allungando il pennacchio. Nel caso di 3I/ATLAS, invece, assistiamo a una configurazione caotica e multidirezionale, ancora oggi difficilmente spiegabile. Tutto ciò fa pensare che questo oggetto sia molto diverso da qualsiasi cometa conosciuta — e apre inevitabilmente la porta a domande affascinanti.

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Dunque, professore, in teoria, pensa che 3I/ATLAS possa rappresentare una potenziale minaccia?
Beh, la cosa più importante è che impariamo a riconoscere un punto fondamentale: se ci preoccupiamo davvero del futuro dell’umanità e vogliamo proteggere la Terra, non dobbiamo limitarci a difenderla solo dalle rocce di cui possiamo prevedere la traiettoria. Questo è stato l’approccio tradizionale del passato. Ma se ci trovassimo di fronte a un dispositivo tecnologico funzionante, non potremmo prevederne in modo deterministico il comportamento. E questo rappresenterebbe un tipo di minaccia completamente nuovo per l’umanità. Naturalmente, i politici e il mondo finanziario non reagiranno a una minaccia del genere finché non si verificherà un primo incontro reale. Tuttavia, nel momento in cui avremo una prova concreta di aver osservato tecnologia aliena, tutto cambierà. Rivedremo le nostre priorità e decideremo di investire molte più risorse nella costruzione di un sistema di allerta che ci protegga da eventuali minacce in arrivo. La questione, oggi, è che stiamo cominciando ad avere dati su oggetti interstellari: dobbiamo soOumuamua, il primo oggetto interstellare mai scoperto, mostrava anomalie significative, seppur diverse da quelle di 3I/ATLAS. Era probabilmente piatto nella forma, ed è stato spinto lontano dal Sole da una forza misteriosa, senza però mostrare alcuna evaporazione cometaria. Non fu rilevata traccia di gas o polvere intorno ad esso. Dobbiamo quindi restare vigili davanti a questa possibilità. La mia raccomandazione è creare un’organizzazione internazionale che riunisca scienziati e decisori politici, in modo che, ogni volta che un nuovo visitatore interstellare entra nel nostro sistema, si possano coordinare immediatamente le migliori osservazioni. Centinaia di osservatori in tutto il mondo potrebbero seguirlo, raccogliere il maggior numero possibile di dati e determinare se rappresenta un rischio o meno. Ho anche definito una scala, che ho chiamato Scala di Loeb, in cui il valore 0 indica un oggetto naturale — come un asteroide o una cometa — mentre 10 rappresenta un oggetto sicuramente tecnologico e potenzialmente pericoloso per l’umanità. A ciascun oggetto dovremmo attribuire un punteggio e rispondere in modo appropriato, una volta chiarita la sua natura. Sarebbe ideale, per esempio, riuscire a ottenere una fotografia ravvicinata: per questo potremmo sviluppare un sistema di intercettori che, in presenza di un oggetto anomalo, permetta di avvicinarsi, scattare immagini da vicino, analizzarlo o addirittura atterrarvi sopra per raccogliere campioni di materiale. Portare sulla Terra materiale proveniente da un oggetto interstellare — anche se fosse solo una roccia — sarebbe di un valore inestimabile, perché ci consentirebbe di verificare se in esso siano presenti i mattoni della vita. E consideriamo che un frammento del genere ha viaggiato per miliardi di anni attraverso la galassia: studiarlo significherebbe risparmiarci la necessità di raggiungere stelle lontane per capire cosa c’è laggiù.

E pensa che l’umanità sia pronta ad accettare l’esistenza della vita extraterrestre e di civiltà aliene avanzate?
No, non credo che siamo pronti. Anzi, anche solo sollevare la possibilità che possa esistere un oggetto di origine tecnologica suscita forti resistenze, non solo all’interno della comunità scientifica ma anche in molte persone comuni. Il pubblico, naturalmente, è affascinato da questo tema, ne è entusiasta e profondamente interessato. Ma il problema — l’errore, direi — di molti scienziati è che sono abituati ad associare una probabilità alle varie interpretazioni dei dati, e di conseguenza tendono sempre ad adottare quella più probabile. È un approccio del tutto appropriato quando si parla, per esempio, di una galassia ai confini dell’universo: se l’interpretazione si rivelasse errata, non cambierebbe nulla, non avrebbe alcun impatto sul futuro della società. Ma la situazione è molto diversa quando si tratta di un “visitatore” nel nostro cortile cosmico. In quel caso, anche se la probabilità che si tratti di un oggetto tecnologico è molto bassa, se mai dovesse risultare vera, le conseguenze per la società sarebbero enormi. Le agenzie di intelligence conoscono bene questo tipo di ragionamento: spesso considerano i cosiddetti “eventi cigno nero”, ossia eventi a cui si attribuisce una probabilità molto piccola, ma che — se accadessero — avrebbero un impatto devastante. Il fatto che siano improbabili non significa che non debbano essere presi sul serio. Al contrario, la maggior parte dei fondi delle agenzie di intelligence viene destinata proprio a prevenire eventi che, nella maggior parte dei casi, non si verificano mai. Sono rischi presi molto seriamente — e quando poi non accade nulla, tanto meglio. Gli scienziati, invece, ragionano in modo diverso. Se dessi loro gli stessi dati, direbbero: “Con il 98% di confidenza posso affermare che questo non accadrà mai”, e quindi ridicolizzerebbero l’ipotesi, la respingerebbero e concluderebbero che non c’è bisogno di agire. Ma questo non è l’approccio corretto. Perché, se anche solo quel 2% di probabilità si dovesse concretizzare, le conseguenze per la società sarebbero colossali. In altre parole, una piccola probabilità moltiplicata per un enorme impatto diventa qualcosa che non può essere ignorato: va preso sul serio. Questo principio è ben compreso nel mondo politico e nei servizi di intelligence, ma non altrettanto nel mondo accademico. Così, quando gli scienziati affermano che 3I/ATLAS è “molto probabilmente” una cometa, la risposta è: va bene, è l’ipotesi più probabile, ma non per questo dobbiamo ignorare l’alternativa. Anzi, dovremmo affrontarla con rigore, raccogliendo il maggior numero possibile di dati, invece di ridicolizzare la questione — come purtroppo avviene ancora oggi.

Professore, alcuni ricercatori sostengono che Marte possa aver ospitato in passato un’antica civiltà: che ne pensa?
Non abbiamo alcuna prova di questo. Tuttavia, sarebbe straordinario — quando finalmente l’uomo metterà piede su Marte — poter esplorare il pianeta a fondo: entrare nelle grotte, analizzare le pareti rocciose e verificare se esistano pitture o segni preistorici che possano suggerire la presenza di antichi esseri intelligenti. Sappiamo che Marte ha perso la sua atmosfera circa due miliardi e mezzo di anni fa, all’incirca a metà della sua vita. In precedenza, però, il pianeta possedeva acqua liquida sulla superficie: laghi, fiumi, forse perfino oceani, proprio come la Terra. È possibile che la vita si sia sviluppata lì prima che sulla Terra, perché Marte, essendo un corpo più piccolo, si è raffreddato più rapidamente. La sua superficie, più estesa in proporzione alla massa, ha favorito un raffreddamento precoce, e questo potrebbe aver permesso l’origine della vita in tempi antecedenti rispetto al nostro pianeta. In fondo, per avere vita intelligente su Marte sarebbe bastato che l’evoluzione avesse proceduto due volte più velocemente rispetto a quella terrestre — un’ipotesi perfettamente plausibile. Non sappiamo davvero perché sulla Terra l’intelligenza sia emersa così tardi: se la storia si fosse svolta un po’ diversamente, sarebbe bastato un “anticipo” di qualche milione di anni per permettere alla vita intelligente di nascere prima su Marte. Poi però il pianeta ha perso la sua atmosfera, e la vita è stata spazzata via dalla superficie. Marte è diventato un deserto gelido, privo di aria e di acqua liquida. Nel corso di miliardi di anni è stato bombardato da asteroidi — calcoli indicano un’energia complessiva pari a decine di bombe atomiche di Hiroshima per chilometro quadrato. Tutto ciò che poteva trovarsi sulla superficie è stato distrutto, disintegrato. È per questo che oggi è così difficile individuare eventuali tracce di un’antica civiltà risalente a miliardi di anni fa. Ma quando finalmente potremo esplorare Marte di persona, potremo fare archeologia interplanetaria: scavare, cercare, analizzare con precisione. E chissà — forse troveremo davvero indizi che ci racconteranno una storia più antica e sorprendente di quanto immaginiamo. In ogni caso, credo che varrà la pena cercare.

Allora, che dire dell’intelligenza artificiale? È pericolosa o rappresenta una potenziale risorsa per l’umanità?Come ogni nuova tecnologia, anche l’intelligenza artificiale può essere sia buona che cattiva: tutto dipende da come viene utilizzata. Il pericolo più grande che vedo — e che pochi comprendono davvero — è la sua capacità di manipolare la mente umana. L’IA può rendere le persone dipendenti, proprio come è accaduto con i social media, ma in modo ancora più profondo e pervasivo. I social hanno già avuto un impatto devastante su molte società, diffondendo visioni distorte della realtà, creando polarizzazione e danneggiando la salute mentale dei più giovani — tanto che alcuni Paesi hanno iniziato a vietare l’uso dei telefoni cellulari durante le lezioni scolastiche. Ma con l’intelligenza artificiale potrebbe essere molto peggio. L’IA, infatti, non ha bisogno di robot per connettersi al mondo reale: basta che influenzi la mente delle persone, e saranno gli esseri umani stessi a eseguirne le istruzioni. Se l’IA riuscisse davvero a “mettere le mani” sulla mente umana, potrebbe convincere gli individui a fare cose contrarie ai propri interessi, alterando la percezione della realtà e spingendo la società verso divisioni ancora più radicali di quelle già create dai social media. Ciò che noto con preoccupazione nei miei studenti è che stanno smettendo di pensare in modo creativo e critico. Non vanno più alle fonti originali, non leggono le notizie, non analizzano: si affidano completamente alle risposte generate dall’IA. In questo modo ricevono spesso disinformazione, una visione distorta del mondo, e soprattutto smettono di usare il proprio cervello. Il cervello, come un muscolo, ha bisogno di esercizio: se non lo alleni, si indebolisce. E così, paradossalmente, prima che l’IA superi l’intelligenza umana, potrebbero essere gli esseri umani stessi a diventare più stupidi, delegando ogni processo decisionale o creativo alle macchine. Questo è ciò che mi preoccupa di più. Detto questo, non considero l’IA solo una minaccia. Può essere anche una risorsa straordinaria, soprattutto per svolgere compiti ripetitivi, amministrativi o di scarsa creatività. In questo senso potrà liberare gli esse— e alla nostra libertà di pensare.

Professor Loeb, lei è paragonato a Galileo ed Einstein perché è capace di guardare “al di là”, anche andando controcorrente…che messaggio vuole dare all’umanità?
La mia speranza è che, prima o poi, ci renderemo conto che non ha alcun senso continuare a combatterci su questa piccola roccia su cui siamo nati. È ciò che facciamo ora: la maggior parte delle nostre risorse, della nostra energia e del nostro ingegno viene spesa in conflitti, in competizioni, in guerre. Se guardiamo alla politica mondiale, tutto ruota attorno al “vincere”: vincere guerre, vincere contro gli altri, prevalere. È un enorme spreco di tempo, energia e denaro. Ogni anno l’umanità spende 2,4 trilioni di dollari nei bilanci militari. La mia speranza è che, se un giorno scopriremo di avere un “fratello” nella nostra galassia — una civiltà più antica, più capace, più saggia — questo ci spingerà a cambiare le nostre priorità. Forse capiremo finalmente che siamo tutti sulla stessa barca, che tutti gli esseri umani sulla Terra appartengono alla stessa famiglia, e che ha più senso cooperare che combattere. E magari, se un giorno avremo un visitatore proveniente da un’altra stella, decideremo di fare noi il passo successivo: andare a trovarli. Ma questo non significa limitarsi a viaggiare su Marte. Marte è solo un’altra roccia, per di più molto meno ospitale della Terra. Oggi la nostra “grande visione” di esplorazione spaziale si ferma lì: la Luna, Marte… Ma io credo che la vera visione debba andare molto oltre. La visione autentica è costruire una piattaforma spaziale capace di ospitare esseri umani e portarli in un viaggio di secoli, fuori dal sistema solare. Se dedicassimo anche solo una parte di quei mille miliardi di dollari all’anno che oggi destiniamo alle spese militari, potremmo, nel giro di un secolo, realizzare un progetto straordinario: un’impresa internazionale che coinvolga architetti, s— forse là fuori incontreremo qualcun altro che ha fatto lo stesso. Forse vedremo arrivare altre civiltà, altri viaggiatori. E allora, ispirati da loro, continueremo a guardare verso l’alto, non più verso il basso. La mia speranza per il futuro è proprio questa: che l’umanità impari finalmente ad alzare gli occhi verso il cielo!

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