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Milano
"Ecco che cosa succederà al mondo del lavoro”. L'intervista
(Maurizio Del Conte)

di Fabio Massa

Professore della Bocconi, presidente di Afol Milano (Agenzia Formazione Orientamento Lavoro), Maurizio Del Conte vive immerso nelle tematiche riguardanti il mondo del lavoro. Un mondo difficile, che sempre di più è percorso da brividi profondi su un futuro che si fa via via più scuro.

Presidente Del Conte, viviamo nella paura di perdere il lavoro. Già prima era un incubo ricorrente. Adesso, secondo il presidente degli industriali Carlo Bonomi, sarà una realtà che si verificherà sicuramente.

Diciamo che viviamo oggi in una sorta di bolla, sospesi nel blocco dei licenziamenti e sussidiati da dosi massicce di cassa integrazione. La situazione è stata congelata: abbiamo perso milioni di ore di lavoro, ma meno posti di lavoro di quanti ne avremmo persi se ci fosse stata la libertà di licenziamento.

Questa è la situazione dei posti di lavoro a tempo indeterminato.

Esatto. Chi aveva posti precari o tempi determinati nella grande maggioranza non se li è visti prorogare. Questa è la avanguardia di quel fenomeno di ben più grandi proporzioni che si verificherà quando il blocco dei licenziamenti sarà rimosso. In questi mesi purtroppo non tutte le aziende hanno resistito alla forza della pandemia e purtroppo non tutte riprenderanno, o perlomeno non riprenderanno con le dimensioni occupazionali. Quindi è illusorio immaginarci che nel 2021 tornerà tutto indietro di un anno, che magicamente torneremo al pre Covid.

Che cosa succederà?

Assisteremo a una trasformazione. Io capisco le preoccupazioni delle persone. L'unica speranza in questa situazione economica è che il rimbalzo rispetto alla perdita di pil sia tale da compensare in parte questo anno disastroso. Ma non credo, e nessun analista stima, che la compensazione sarà totale. Quindi lasceremo sul terreno 4-5 per cento di pil. In più la cassa integrazione ha voluto dire aver lasciato sul terreno anche larga parte del salario, perché ovviamente non copre tutto lo stipendio.

Veniamo a Milano.

Per come è costruito, il modello Milano ha sofferto particolarmente. E' una crisi che ha inciso sotto il profilo economico e sopratutto dalla parte del commercio, del terziario, della ristorazione.

Fuga dalla città?

Paradossalmente hanno tenuto meglio le aree industriali. Io però non sono convinto che finiremo tutti nei borghi. Ritorneremo ad abitare le città e queste torneranno a essere i motori dell'innovazione. Ci saranno spostamenti all'interno delle aree cittadine. Ma non andremo a vivere in campagna.

Come cambia il lavoro a Milano?

Ci sarà bisogno di nuove competenze. Chi vive in settori che la pandemia ha mutato per sempre, o nei quali ha accelerato la crisi, dovrebbe porsi il problema di acquisire nuove competenze.

Quali settori si stanno sviluppando?

Tutto il settore ICT sta avendo una enorme accelerazione. In questa fase ha avuto e avrà una accelerazione con cifre due e tre volte i normali tassi di crescita precovid. Qui c'è sicuramente molto spazio. Sicuramente ci sarà una possibilità per il settore della logistica. Poi c'è il settore sanitario. Ci sono le biotecnologie che già adesso stanno registrando una forte richiesta. Spazi ce ne sono.

Invece gli impieghi da cui scappare?

Il settore del turismo in certe aree come quelle urbane avrà tempi lunghi prima di riprendersi. Vale per Milano e non solo. E lo stesso il settore della piccola ristorazione o dei bar e degli esercizi commerciali più minuti. Anche qui ci saranno forme alternative di business. Prima di due anni non vedremo una ripresa dei livelli precovid.

E' soddisfatto delle politiche attive per il lavoro di Anpal?

Anpal si era molto legata a politiche attive in fusione del reddito di cittadinanza. Aveva investito le sue risorse sui navigator. In questa fase ci vuole altro. Non solo incrocio domanda e offerta, ma ricostruzione delle competenze in funzione della domanda. Quindi ci vuole tanta formazione. E' finita l'epoca di politiche attive che venivano riassunte nella ricerca di contatto tra domanda e offerta. Non funzionano se non c'è anche una parte formativa. Finora questo non è stato fatto, non ci sono state le risorse e neppure i progetti per fare questo. Penso che il reddito di cittadinanza debba assolvere al suo compito di contrasto alla povertà ma non si può trascinare dietro tutte politiche attive.

Finiamo con lo smartworking.

L'attuale smarworking è per lo più la e emotizzazione da casa del lavoratore e delle funzioni che erano in presenza. E' evidente che tutte le criticità non possono che incrementare e moltiplicarsi se non c'è il consapevole governo del fenomeno. Troppo spesso i capi non sono in grado di valutare il lavoro per quel che è il resultato ma soltanto per quel che è la presenza. Dunque questa necessità di avere l'ossessione del controllo fisico e visivo. Il punto non è muovere il mouse ogni cinque minuti per far vedere che stai lavorando, ma valorizzare il risultato della attività lavorativa. Se noi riusciamo a trasferire fiducia verso il lavoratore, dando al lavoratore la più ampia libertà possibile, allora sì che avremmo quella trasformazione che davvero lo smartworking può rappresentare per il nostro sistema produttivo. Tenendo conto che l'Italia soffre un problema di produttività proprio per questa arretratezza culturale e rappresentativa del management medio, perché le imprese sono medio o piccole. Imprese nelle quali il capo riesce a capire se lavori solo se entra nella tua stanza. Il tema della connessione si lega strettamente a questo concetto. Non bisogna solo limitare il controllo, ma anche i tempi di connessione. La connessione dovrebbe essere solo eventuale e solo individuata in periodi precisi che sono necessariamente inferiori al tempo di lavoro, mentre adesso sono addirittura superiori.

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