Man Ray in mostra a Milano: la libertà sopra ogni cosa. Anche sopra l'arte stessa - Affaritaliani.it

Milano

Ultimo aggiornamento: 18:33

Man Ray in mostra a Milano: la libertà sopra ogni cosa. Anche sopra l'arte stessa

La vasta retrospettiva di Palazzo Reale dedicata al geniale surrealista, innovatore di linguaggi, nella fotografia e non solo. In primo luogo, uno spirito libero in grado di sovvertire regole e canoni

di Federico Ughi

Man Ray in mostra a Milano: la libertà sopra ogni cosa. Anche sopra l'arte stessa

"Ho sempre preferito l'ispirazione all'informazione. Creare è divino, riprodurre è umano". In questa che è forse la frase più celebre di Man Ray non si trova racchiuso solo il senso del suo percorso artistico, ma a ben vedere anche una parte significativa della parabola di tutta l’arte contemporanea. E del resto Man Ray  fu della rivoluzione concettuale ed estetica del Novecento prodigioso demiurgo e codificatore. "Fotografare senza macchina fotografica. Dipingere senza pennello". E' efficace la sintesi di Domenico Piraina, direttore di Palazzo Reale, nell’introdurre la monumentale mostra monografica che Milano dedica al pionieristico sperimentatore: "Man Ray. Forme di luce", aperta fino all’11 gennaio 2026, curata da Pierre-Yves Butzbach e Robert Rocca. Con circa trecento opere tra fotografie, disegni, oggetti, film e documenti provenienti da collezioni pubbliche e private. E quindi, aggiungiamo noi: trasformare errori e circostanze fortuite in parti integranti del processo creativo. Immaginare, generare, inventare. Libertà sopra ogni cosa. Sopra l’arte stessa e le sue regole.

La libertà di Man Ray si attua attraverso una vera e propria ricodificazione della realtà. I suoi numerosi ritratti e autoritratti costituiscono un incipit congeniale per raccontarne il metodo. O meglio ancora, il pensiero sottostante. In Man Ray il tema dell’identità è fondamentale. Ma la sua rappresentazione passa sempre attraverso una messa in scena, una interpretazione.  Tutti i soggetti dei suoi ritratti, che si tratti di se stesso, dei colleghi artisti, delle muse e delle amanti, diventano personaggi. Non sono più semplicemente loro stessi: assumono una maschera, un ruolo, un surplus di senso. Così Jean Cocteau, Picasso, Marcel Duchamp nel suo alter-ego femminile Rrose Sélavy. E ancora il gruppo surrealista di "La Rêve éveillé", fotografia-simbolo di un movimento che rivendica il sogno a occhi aperti come condizione necessaria per scardinare la logica e il razionalismo. Ogni ritratto, in mostra, è il frammento di un teatro mentale in cui il soggetto è al tempo stesso attore e spettatore di se stesso.

Questa ricerca euforica di un senso inedito del reale, che è al cuore della rivoluzione dadaista e surrealista, Man Ray la adotta naturalmente prima di tutto su di sé. Gli autoritratti diventano un laboratorio identitario e concettuale. Nel tempo l'artista si mette in scena in vestaglia, travestito, mascherato da parrucchiere, da Walt Whitman, con le parrucche più disparate. Si reinventa, manipola i codici della percezione, afferma l’idea di un sé fluido, inafferrabile. Umorismo, sovversione, gusto per il gioco: l’artista è un personaggio in continua mutazione.

Un indizio eloquente dei molteplici livelli di lettura di questo giocosa e pirotecnica masquerade è nel nome che si sceglie: il funambolico "uomo raggio", Man Ray, è sì il personaggio che decide di mostrare al mondo e impersonificare. Ma non si tratta di una totale invenzione: è già contenuto nel suo vero nome, Emanuel Radnitzky, di cui Man Ray costituisce una crasi, una condensazione luminosa. È un dettaglio piccolo ma rivelatore: quella diversa, inedita dimensione a cui vuole condurci esiste già davanti – o dentro – di noi, occorre solo indossare gli occhi giusti per vederla. O vederla in sogno, come i suoi amici surrealisti. In bilico fra veglia e visione, fra lucidità e abbandono.

E dunque questa magnifica ossessione di rimodellare la realtà è la stessa con cui Man Ray rimodella l’arte. A Parigi la fotografia diventa il suo mezzo privilegiato, ma solo perché gli consente di forzare il mezzo stesso. Reinventa la tecnica del fotogramma: oggetti comuni posati direttamente sulla carta fotosensibile, esposti alla luce senza passare da alcuna macchina fotografica. Ombre, silhouettes, sovrapposizioni danno vita a immagini astratte e oniriche, che Tristan Tzara ribattezza Rayografie, giocando sul suo nome. È già qui chiaro che per Man Ray “disegnare con la luce” significa soprattutto inventare nuove condizioni del vedere.

A questa grammatica della luce si aggiunge la solarizzazione, nata da un esperimento con Lee Miller, compagna e fotografa: una parziale esposizione alla luce in fase di sviluppo che ribalta i valori tonali e produce un’aura quasi spettrale attorno ai soggetti. Come se la fotografia registrasse non solo le forme ma il loro alone psichico. In mostra, le solarizzazioni rivelano quanto Man Ray non sia interessato alla tecnica come virtuosismo, ma alla tecnica come dispositivo di libertà: l’errore, l’incidente, il “difetto” diventano metodo. E illuminazione. 


Déshabillé en contre-jour (1935)

Libertà è anche il modo in cui guarda agli oggetti, sulla scia dell’amico e compagno di scacchi Marcel Duchamp. Come lui frequenta il ready-made, ma con una differenza sostanziale. Duchamp enfatizza il concetto puro: basta scegliere un orinatoio, ribattezzarlo "Fontaine" e collocarlo nel contesto dell’arte perché diventi opera. Man Ray, invece, preferisce l’assemblaggio e la trasformazione, la creazione di cortocircuiti visivi. "L’Enigma di Isidore Ducasse", una macchina da cucire avvolta in una coperta e legata con una corda, non si limita a nominare un oggetto: lo sottrae allo sguardo, lo rende mistero opaco, anticipando gli impacchettamenti di Christo. "Le Cadeau (Il Regalo)", il ferro da stiro irto di chiodi, nato da un gesto quasi improvvisato con Erik Satie, sovverte la funzione domestica e rassicurante di un utensile quotidiano trasformandolo in paradosso ed arma potenziale. Se Duchamp si accontenta spesso della dichiarazione concettuale, Man Ray insiste sull’ambiguità tattile, sull’ironia corrosiva, sul piacere della trasformazione. Ed è significativo che molti di questi oggetti tornino in forma di multipli e variazioni, perché ciò che conta, come ricordava Roland Penrose, è “la permanenza dell’idea incarnata nell’oggetto”, non la sua unicità materiale.

Man Ray, la moda e la pubblicità

Ed è con spirito altrettanto libero che Man Ray si avvicina alla fotografia di moda, rinnovandola profondamente. Quando Paul Poiret lo convince a cimentarsi con gli abiti invece che solo con gli artisti, la fotografia di moda è ancora rigida, illustrativa, spesso subordinata al disegno. Man Ray porta in quell’ambito il suo sguardo ironico e visionario: luci che scolpiscono il tessuto, inquadrature oblique, pose meno convenzionali. Confondendo i confini tra arte e pubblicità, collaborerà con riviste come Vogue e con stilisti come lo stesso Poiret, Schiaparelli, Chanel, trasformando le modelle in presenze enigmatiche più che in semplici supporti per vestiti.

Una sintesi esemplare del suo modo di usare la fotografia commerciale come laboratorio concettuale è "Larmes (Glass Tears)" del 1932. All’origine è un semplice scatto pubblicitario per il mascara Cosme Cils di Arlette Bernhardt, accompagnato dallo slogan: “Piangete al cinema, piangete a teatro, ridete fino alle lacrime, senza timore per i vostri begli occhi”. Man Ray fa posare Ildy, ballerina di can-can, le applica piccole perle di glicerina sul viso, scatta più volte il volto intero, poi in camera oscura ingrandisce, ritaglia, isola lo sguardo. Le lacrime risultano palesemente finte nella loro iper-realtà. La fotografia pubblicitaria diventa così un piccolo trattato visivo sulla natura stessa dell’immagine: ciò che vediamo è reale o è solo una perfetta simulazione del sentimento?

Ed ancora, le sue pellicole sperimentali, come "Le Retour à la raison" (1923) o "L’Étoile de mer" (1928), in cui frammenti di realtà, sovrimpressioni, giochi di luce e di movimento smontano la linearità narrativa e costruiscono una sorta di poesia in immagini. Cinema allucinato, come estensione naturale della fotografia.


"Le violon d'Ingres" (1924)

E libertà in Man Ray è anche vivere con pienezza totalizzante il rapporto con le sue modelle, che divengono muse, compagne, complici artistiche. Kiki de Montparnasse, regina bohémienne dei primi anni parigini, è protagonista di una delle opere più celebri, "Le Violon d’Ingres" (1924). Nuda, di schiena, turbante orientale e trecce, il corpo di Kiki viene trasformato in strumento musicale dai due fori a “f” disegnati direttamente sulla stampa. Omaggio alla pittura di Ingres, gioco di parole sull’espressione avere un “violon d’Ingres” (un hobby coltivato con devozione), dichiarazione esplicita di eros: Kiki è al tempo stesso oggetto del desiderio, strumento sensuale, estensione del gusto dell’artista. In "Noir et blanche" la stessa Kiki tiene tra le mani una maschera africana baulé: il suo volto pallido si accosta al nero lucido del legno in un contrappunto che è anche riflessione sul dialogo fra culture, omaggio a Brancusi, eco della scultura africana filtrata dal Cubismo.


Noire et blanche (1926)

Accanto a Kiki scorrono nella mostra milanese le altre muse: Lee Miller, brillante fotografa, coautrice degli esperimenti sulla solarizzazione. Meret Oppenheim, artista surrealista e icona di un erotismo ambiguo. Ady Fidelin, danzatrice antilliana e prima modella nera a comparire nelle riviste d’arte europee. Nusch Eluard, poetessa, Juliet Browner, attrice e compagna degli ultimi decenni. In tutti questi ritratti al femminile il corpo non è mai neutro: è superficie, ma anche schermo su cui proiettare desideri, paure, fantasie, tensioni politiche e culturali.

Insomma, le trecento opere in mostra a Milano restituiscono un laboratorio inesauribile e traboccante di intuizioni, un archivio in movimento che racconta come l’“uomo raggio” abbia attraversato – illuminandola come una scarica – larga parte dell’arte del Novecento. Fotografia, cinema, pittura, oggetti, moda, pubblicità: tutto, in Man Ray, diventa occasione per verificare fin dove si può spingere la libertà. Di una immagine, di una idea, di una vita. 

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