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Notre-Dame, donazioni per la cattedrale e ipocrisia ecologista
Notre Dame

A correre in soccorso di Notre Dame non sono stati solo i giganti del lusso Kering, Lvmh e L'Oreal, che da soli hanno versato la buona metà del miliardo di euro che si stima servire per la riparazione dei danni della cattedrale parigina. Ma lo hanno fatto anche il bitcoin e le altre criptovalute: una startup svizzera ha appunto da poco annunciato una donazione di 10mila dollari. Finanche il sindaco di una cittadina italiana ha dichiarato sui social di voler fare la propria parte, cosa che ha subito suscitato molti commenti indignati da parte dei suoi concittadini che giudicano più prioritario l'aiuto ai terremotati del centro Italia ancora bisognosi di risposte. Questa corsa alla generosità, questa urgenza di donare, mi hanno fatto tornare in mente l'idea di fondo di un vecchio libro letto molti anni fa in cui l'autore, Cesare Marchi, con sapiente ironia sosteneva che a ogni grande cattedrale corrispondono grandi peccatori.

E quella di Parigi ne è un fulgido esempio. La costruzione di Notre-Dame è frutto dell'ambizione di Maurice de Sully il quale la volle poiché quando nel 1160 divenne vescovo di Parigi, la chiesa di Santo Stefano era in rovina e quella di Nostra Signora insufficiente per la popolazione in crescita. Parigi infatti, oltre a essere diventata capitale del regno di Francia era diventata anche un importante centro economico e culturale. Finanziarono la costruzione sia la Chiesa sia la Corona. In Notre-Dame è passata tutta la storia francese. Durante il Rinascimento è stata oggetto di una serie di restauri secondo i gusti delle varie epoche: prima rinascimentali poi barocche. Durante la rivoluzione invece fu devastata: prima furono mandati alla zecca per essere fusi tutti gli oggetti fatti di metalli preziosi, poi la Comune di Parigi fece distruggere tutte le statue della facciata e anche la guglia.

Infine stava per essere acquistata per essere demolita da Saint Simon, fondatore del movimento politico-religioso Sansimonismo. Poi, dopo essere stata adibita anche a deposito di vino, è tornata alla Chiesa cattolica che dopo aver fatto un sommario restauro, riprese le celebrazioni il 18 aprile del 1802 alla presenza di Napoleone il quale, due anni dopo, vi si fece incoronare imperatore di Francia. La messa solenne avvenne in una cattedrale ancora in stato di forte degrado.Ai giorni nostri milioni di persone varcano ogni anno i severi portali di questo tempio, alcuni per pregare Dio, altri per ammirare l'arte, altri per una foto su smartphone che come sappiamo presto svanirà. Permettere che ciò possa avvenire di nuovo è lecito come è lecito voler riavviare il giro d'affari che ne deriva. Non è questo il punto. E non lo è neanche se i gilet gialli abbiano o non abbiano ragione nell'avversare la raccolta fondi ritenendo più prioritario aiutare i poveri che in Francia non calano.

Il punto su cui mi voglio soffermare è che nonostante il medioevo sia finito da un bel pezzo, sull'equazione "grandi peccatori, grandi cattedrali" ha ancora ragione Marchi. La ricostruzione di Notre Dame è pagata dai colossi di un settore, quello del fashion, che inquina più dei grandi trasporti e segue la logica, poco edificante dal punto di vista etico per una società evoluta, dell'usa e getta. Un settore che nel 2018 ha toccato nuove vette grazie a una crescita del 4-5% supportata da una sempre più preoccupante voracità di acquisto: il consumatore medio oggi compra il 60% di capi in più rispetto a soli 15 anni fa e li usa per la metà del tempo. Consumatori di oggi che quando scendono in piazza sono animati da uno spirito anticapitalista, sbandierando ideali e buoni propositi ecologisti, e poi quando ritornano nella parte quotidiana del consumatore con la mano al portafoglio e compulsivamente attratti dal novità, razzolano male.

Ah se Greta potesse vedere.

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