L’élite domina il potere, che si ripresenta nei fatti sotto forme più opache: burocrazie, algoritmi… - Affaritaliani.it

Politica

Ultimo aggiornamento: 09:40

L’élite domina il potere, che si ripresenta nei fatti sotto forme più opache: burocrazie, algoritmi…

Il populismo dell’astensione è una protesta non più gridata, ma interiorizzata, che sottrae consenso invece di offrirlo

di Raffaele Volpi

La politica ridotta a estetica non genera fiducia, solo fascinazione temporanea

 

Ogni società tende a ordinarsi intorno a un principio di selezione. Quando questo principio si spegne, non si produce uguaglianza, ma disorientamento. È l’effetto che si manifesta oggi nella forma dell’astensionismo politico, la quale non è semplice disaffezione, bensì una mutazione del rapporto fra cittadino e istituzione. Non più il rifiuto della politica, ma il rifiuto della sua forma attuale: una forma che non riesce più a rendere visibile il legame fra decisione e responsabilità. In questa frattura silenziosa si colloca ciò che potremmo definire populismo dell’astensione: una protesta non più gridata, ma interiorizzata, che sottrae consenso invece di offrirlo.

Il populismo dell’astensione non è l’opposto del populismo classico: ne rappresenta, piuttosto, l’esito. Là dove il populismo tradizionale si fondava sull’espansione illimitata della volontà collettiva, questo nuovo populismo si fonda sulla sua sottrazione. Non pretende di sostituire l’élite, ma nega la necessità stessa di essere rappresentati. È il populismo di una società che non chiede più di governare, ma di non essere governata. Il risultato è un vuoto politico che non è mancanza di potere, bensì mancanza di legittimazione. In questo vuoto sopravvivono élite che non esercitano più la funzione di guida, ma di gestione. 

Esse non incarnano più un progetto, bensì un equilibrio. La loro sopravvivenza non deriva da un mandato, ma da un’infrastruttura: istituzioni, media, procedure, algoritmi. Tuttavia, ogni sistema che si regge solo sull’automatismo tende a perdere la propria capacità simbolica. L’élite che non produce senso, ma solo continuità, cessa di essere classe dirigente e si riduce a ceto amministrativo. A ciò si aggiunge un fenomeno inedito: la trasformazione delle élite in oggetti estetici. Non più classi selezionate per competenza o responsabilità, ma per capacità di esposizione. La visibilità sostituisce la sostanza, l’apparire prende il posto del decidere. 

Queste pseudo-élite non pretendono di guidare, ma di rappresentare se stesse come spettacolo permanente. È una forma di estetizzazione del potere che dissolve il confine tra autorità e intrattenimento: la classe dirigente diventa un genere narrativo, un racconto continuo di sé. Ma la politica ridotta a estetica non genera fiducia, solo fascinazione temporanea; e la fascinazione, per sua natura, non dura. Pareto lo aveva intuito: la storia non conosce epoche senza élite, ma solo fasi di sostituzione. Il problema contemporaneo è che la sostituzione non avviene, o avviene senza criteri riconosciuti. 

L’élite declinante non abdica, quella emergente non possiede ancora la forma per imporsi. Il risultato è un interregno nel quale la politica si svuota di contenuto e il consenso si trasforma in inerzia. L’astensione diviene, allora, la modalità con cui il corpo sociale esprime una volontà negativa: non la domanda di un capo, ma la domanda di un senso che non si intravede. Il populismo dell’astensione è la traduzione politica di una crisi antropologica più profonda: la difficoltà di riconoscere la mediazione come valore. Nella misura in cui la società si percepisce come orizzontale, ogni forma di verticalità appare illegittima. Eppure, senza mediazione non esiste comunità politica. 

Il potere, disconosciuto nel principio, si ripresenta nei fatti sotto forme più opache: burocrazie, algoritmi, poteri privati. L’illusione di una democrazia senza rappresentanza conduce inevitabilmente a un potere senza controllo. Resta allora da chiedersi se sia possibile pensare una nuova legittimazione delle élite — non come privilegio, ma come funzione. La risposta, forse, risiede in una diversa concezione della competenza: non quella tecnica che si separa dal reale, ma quella etica che sa rispondere del reale. Solo un’élite che assume la responsabilità del limite può riconquistare la fiducia di chi oggi tace. 

Non si tratta di riaccendere il rumore delle piazze, ma di restituire al silenzio il suo significato politico. Eppure, la radice della crisi non è solo politica. Dopo il fallimento delle grandi teorie dell’uomo — la libertà, la giustizia, l’eguaglianza, l’ordine — la politica si è lasciata colonizzare dall’economia. Il pensiero politico si è ridotto a derivazione delle dottrine economiche: marxismo, liberismo, capitalismo, mercantilismo avanzato. La filosofia della persona e della comunità è stata sostituita da una filosofia del rendimento e dell’efficienza. 

L’homo politicus è divenuto homo oeconomicus: misura di sé, calcolo di utilità, individuo produttore e consumatore. È qui che la politica ha perso la propria anima, smarrendo la capacità di interrogarsi sul fine per concentrarsi solo sul mezzo. In assenza di un pensiero sulla persona, resta la gestione delle cose. In assenza di un’etica della decisione, resta la contabilità del consenso. E quando il governo degli uomini si trasforma in amministrazione dei processi, la politica cessa di essere un’arte e diventa un algoritmo. L’astensione, allora, è anche la risposta a questa spoliazione: un rifiuto non solo dei partiti, ma dell’idea stessa che l’esistenza collettiva possa essere regolata dal profitto o dal calcolo. È, in fondo, l’ultimo gesto filosofico di un popolo che non crede più alla misura dell’economia, ma non ha ancora ritrovato quella dell’uomo.

Tutte le notizie della sezione politica