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Governo, barcolla ma regge. Di Maio-Salvini, “staffetta” per Palazzo Chigi?
Foto: LaPresse

Governo, barcolla ma regge. Di Maio-Salvini, “staffetta” per Palazzo Chigi?

Non è una bocciatura, ma il giudizio sull’Italia dell’agenzia Usa Standar&Poor’s è tutt’altro che positivo per la “inversione di rotta sulle riforme” e per la “instabilitàpolitica che indebolisce il potenziale di crescita”. Niente di nuovo, si dirà. Fatto sta che sul fronte decisivo delle riforme il governo del cambiamento non produce la svolta annunciata e segna il passo, fra l’incudine e il martello delle beghe interne dei due vice premier, sul crinale di una crisi che per ora non c’è per mancanza di alternative. Il duello fra Di Maio e Salvini, dai tratti esilaranti e pure farseschi, è la cartina del tornasole di una lotta politica senza esclusione di colpi, decisiva per i destini personali dei due protagonisti, per i rispettivi partiti, per la prospettiva del cambiamento in Italia. C’è in molti l’auspicio che questo governo, frutto di un “esperimento” inedito e azzardato ma obbligato dopo il voto del 4 marzo 2018, salti.

Così da poter chiudere questa “parentesi” e tornare al prima, cioè all’ancien régime, con tutti gli annessi e connessi. Fra M5S e Lega, chi ha il fiato grosso e pagherà un conto pesante già dalle elezioni del 26 maggio, è il partito di Di Maio. Perché la coperta è corta e il “comunismomozzorécchi” e del “vaffa” alla Grillo, specie quello rimodellato e plastificato alla Di Maio, abbaia ma non morde e funziona solo come macchina di potere spargi poltrone. La verità è che dopo un anno nelle stanze dei bottoni, il M5S ha fallito la “prova del budino”, partito né di lotta né di governo. La baracca regge, si fa per dire, grazie al premier Conte cui Di Maio e Salvini assegnano oramai il ruolo di “Re travicello”. Il vento in poppa dei sondaggi che proiettano la Lega ben oltre il 30% alle elezioni di maggio dando al partito di Salvini grande spinta rischiano di farlo sbattere contro il muro, a gran velocità. Salvini ha trasformato il suo partito da oligarchico a monarchico: si fa coraggio e si tiene ancorato alle proprie illusioni, fra eccessi di impulsività ed eccessi di prudenza, ossessionato da uno spasmodico presenzialismo e dal delirio di onnipotenza. Gli italiani, pur elettoralmente volubili, non vogliono tornare al passato e, turandosi il naso, intendono rafforzare Salvini, un leader ruspante dai tanti limiti ma di intuito, legittimato democraticamente dalle urne e capo di un partito ben piantato nel territorio. Così Salvini è nel mirino di chi teme il responso delle urne e gioca il tutto per tutto per farlo saltare.

Alla vigilia di un appuntamento elettorale assai importante ecco scodellato il caso del sottosegretario Armando Siri, indagato per corruzione sugli appalti per l’eolico in Sicilia. Come in passato, diversi corpi dello Stato (magistratura, Dia, servizi segreti ecc.) alimentano il caso con versioni differenti, anche opposte, rendendo legittimi i dubbi sui rischi di strumentalizzazioni politiche e di giochi torbidi. Insomma, prima si butta la bomba, poi si vedrà – dopo il botto - chi riemerge dalla palude, vivo o morto. La “macchina del fango” punta diritto contro Salvini che non può obbedire a chi, come il M5S, gli chiede di far fuori Siri. Se Matteo cede diventa ostaggio di chi lo vuole smontare pezzo per pezzo. Qui siamo. Come due ciclisti in fuga rallentano la pedalata guardandosi in cagnesco per studiarsi e intimorirsi l’un l’altro in vista del traguardo, impostare la volata finale e giocarsi la vittoria, così fanno adesso Salvini e Di Maio a un mese dal voto del 26 maggio. Nessuno dei due contendenti, per calcolo, tira oggi la corda fino a spezzarla: il responsabile della crisi pagherebbe caro il conto in termini elettorali e politici. La resa dei conti è rimandata al dopo 26 maggio. Il nodo è politico. Un nodo che in un quadro siffatto, al di là di ipotesi esclusivamente di fantasia come una prossima alleanza fra M5S e Pd - il de profundis per entrambi - non può che essere risolto fra gli stessi due partiti oggi al governo, però con i rapporti di forza ribaltati, ridefinendo il progetto politico alla base di un nuovo governo, con un nuovo premier.

Alla crisi di governo si arriverà, ma, a meno di incidenti pur sempre possibili, né subito e né presto. In mancanza di alternative per l’inconsistenza del Pd e della sinistra da una parte e di Forza Italia e del centro dall’altra, e con le elezioni anticipate difficilmente realizzabili a breve, per ora il M5S e la Lega sono “condannati” a restare insieme al governo (ancora un anno?), pur cacciandosi reciprocamente le dita negli occhi. Anche perché a livello internazionale c’è chi, come agli USA, non dispiace proprio un governo che pur nel suo “casino” interno va comunque contro le élites incartapecorite della Ue e frena le invadenze di Francia e Germania, manna dal cielo per Trump nella sua guerra anti-mercantilistica europea. Insomma, questo governo gialloverde non è poi così inutile e isolato come viene dipinto dai suoi detrattori. Certo è che l’insofferenza, anche nei due partiti, crescerà. Ma saranno proprio Di Maio e Salvini, se non vorranno passare da giocatori d’azzardo a suicidi, a evitare che le tensioni producano l’esplosione. I deliri di onnipotenza o la convinzione che senza avversari si può giocare a ogni tipo di trasformismo può costare caro. La via d’uscita? Il senso di responsabilità personale e politica dei capi dei due partiti.

La riproposizione della “staffetta” già usata negli anni ‘80 dai “nemici” Craxi-De Mita, un accordo su un programma condiviso per l’alternanza a Palazzo Chigi a metà legislatura. O così, o il cerino acceso in mano a Di Maio e a Salvini li ridurrà presto politicamente in cenere.

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