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Palazzi & potere
L’ideologia del “senza” che ci toglie la libertà di scelta

Quando il cibo e l’alimentazione vengono scambiati per moda da seguire allora diventano contemporaneamente psicosi. Nel 2017 la moda consolidata è quella del “senza” ossia pubblicizzare l’assenza o la rimozione dai prodotti di un ingrediente, una quantità di un nutriente o una semplice parola di cui non conosciamo spesso nulla. Ma la domanda che inizia a farsi largo è: un prodotto “senza” è migliore degli altri “con”? Ovviamente no, ma questo non importa perché il marketing deve fare vendere.

 

L’esempio principale è quello del “gluten-free”. Le persone celiache un Italia sono 190.000 secondo i dati diffusi dall’AIC, l’Associazione Italiana Celiachi, ossia lo 0,32% della popolazione. Negli Stati Uniti lo 0,65%. Eppure l’impressione è che il mercato del cibo senza glutine sia molto più esteso e sviluppato rispetto alle basse cifre del numero totale dei celiaci, tanto che il suo valore è arrivato a 300 milioni l’anno complessivamente. Questo perché molte persone che non hanno alcun problema collegato al glutine, ritengono salutare eliminare questo alimento dalla propria dieta.

 

La medesima cosa è avvenuta con l’olio di palma nel 2016. Nessuno sapeva cosa fosse prima che un’aggressiva campagna politica, prima ancora che commerciale, lo attaccasse duramente. Le aziende, spaventate da una minoranza di attivisti agguerriti, lo hanno prima difeso e successivamente eliminato pubblicizzandola come una scelta salutista. Tutto ciò in assenza di prove scientifico-mediche che sostenessero che l’ingrediente nuocesse alla salute o fosse foriero di patologie. I media, ovviamente, ci hanno messo del loro e il “senza olio di palma” oggi campeggia ovunque. Anche dove prima non c’era mai stato.

 

Ecco due casi in cui il “senza” è diventata una ideologia. È stata imposta dall’alto ai consumatori per soddisfare una richiesta crescente, di maggiore benessere, e per venire incontro alle loro paure. Il “senza” è tanto rassicurante, quanto ingannevole. Da un lato ci dice che se togliamo qualcosa alla nostra dieta staremo meglio. Dall’altro però non spiega perché lo toglie, con cosa lo sostituisce e secondo quale criterio o processo. Questi concetti sono spiegati efficacemente in alcuni studi scientifici come quello dei ricercatori Privem, Baum, Vieira, Fung e Herbold, “The Influence of a Factitious Free-From Food Product Label on Consumer Perceptions of Healthfulness” e quello realizzato dall’EUFIC (European Food Information Council) intitolato “Consumer Attitudes Towards “Free-From” Labels”.

 

Dalle ricerche su etichettatura e comportamento emerge uno scenario piuttosto chiaro riguardo il clima di allarmismo e di facile penetrazione del marketing nelle scelte individuali. Così la scienza, quella che conterebbe veramente, è stata relegata al ruolo di semplice optional da utilizzare solamente quando fa comodo a questa o quella opinione. Le etichette e le confezioni “senza” ci fanno pensare di stare meglio, di star facendo la cosa giusta anche quando non è affatto così. Una bolla di ideologia che deresponsabilizza il consumatore e, allo stesso tempo, sminuisce i concetti stessi di scienza e salute. In questo modo però viene preclusa la possibilità di scegliere liberamente e, soprattutto, di ragionare criticamente su quello che mangiamo e sui nostri stili di vita.

 

Il “senza” sembra dunque più una zavorra che una liberazione. È una moda indotta che invece di renderci consapevoli e responsabili, ci ha costretto per l’ennesima volta ad adattarci senza fare domande. Crediamo di essere noi il mercato, ma è lui che ci sta manipolando, apparentemente senza alcuna opposizione.

Giacomo Bandini

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ideologiaalimentarelibertà di scelta





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