Palazzi & potere
Manager, flop del tetto agli stipendi, lo aggira una società pubblica su tre

Troppe falle nella legge: il limite di 240mila euro annui è un bluff.
Era aprile del 2014 quando il governo Renzi varava la cosiddetta 'norma Olivetti': un amministratore delegato - si diceva - può guadagnare al massimo dieci volte la busta paga di un suo dipendente.
Tra le pieghe della normativa - il primo passo del decreto legge risale addirittura al governo Monti nel 2011, con i tagli imposti dalla spending review - sono immediatamente fioccate le eccezioni a questo principio moralizzatore. Ad uscire dal perimetro dei vincoli sono state prima le aziende quotate e, poi, le società che, per finanziarsi, hanno deciso di mettere sul mercato strumenti finanziari, come le obbligazioni.
Il risultato è che oggi, dopo un paio d' anni, il ministero guidato da Pier Carlo Padoan si ritrova in pancia azioni di una trentina di partecipate. Di queste, sono quasi dieci, una su tre, quelle che (legittimamente) sforano il limite dei 240mila euro lordi all' anno.
IL TETTO, insomma, vale solo per i più sfortunati scrive il quotidiano nazionale. E, con l' ondata di privatizzazioni in arrivo, questo fenomeno è inesorabilmente destinato ad allargarsi. Basta scorrere l' elenco delle società partecipate dal ministero dell' Economia per comprendere l' entità del bluff. Tutti i pezzi più pregiati nelle mani del Tesoro obbediscono a regole di mercato e non hanno l' obbligo di rispettare i vincoli per le retribuzioni fissati dall' esecutivo. Per chiudere il cerchio, poi, c' è da citare un ultimo fenomeno: quello delle partecipate degli enti locali. I tetti agli stipendi valgono anche per loro che, però, li applicano controvoglia. Il fenomeno degli sforamenti è noto ed è stato più volte segnalato dalle sezioni regionali della Corte dei conti. Fotografarlo è molto difficile, vista la riluttanza di questi soggetti a rendere noti i compensi dei loro amministratori.