Quando il potere riscrive le regole: la lezione di Orwell e la prova più difficile per chi governa - Affaritaliani.it

Politica

Ultimo aggiornamento: 10:49

Quando il potere riscrive le regole: la lezione di Orwell e la prova più difficile per chi governa

Il momento in cui il potere smette di essere promessa e diventa prova

di Raffaele Volpi

La lezione di Orwell e la prova più difficile per chi governa

C’è un passaggio, ne La fattoria degli animali di George Orwell, che colpisce più di altri per la sua apparente semplicità. Non è una scena di violenza, né una svolta drammatica. È il momento in cui le regole, scritte all’inizio come fondamento di una liberazione, cominciano lentamente a essere riscritte. Non per tradimento dichiarato, ma per adattamento. Non per cattiveria, ma per convenienza. È lì che Orwell consegna una delle sue lezioni più profonde: il potere non si snatura quando conquista, ma quando smette di ricordare perché è nato.

La politica contemporanea, in molte democrazie occidentali, sembra attraversare una fase analoga. Movimenti cresciuti nella lunga stagione dell’opposizione, forgiati contro l’arroganza delle élite, contro la chiusura dei palazzi e l’autoreferenzialità delle classi dirigenti, si trovano oggi a governare. È un passaggio legittimo, spesso meritato, talvolta persino necessario. Ma è anche il momento più delicato: quello in cui il potere smette di essere una promessa e diventa una responsabilità concreta.

Governare dopo essere stati a lungo esclusi non è semplice. Il rischio più insidioso non è l’errore politico, ma l’equivoco morale. Quando il potere arriva dopo anni di attesa, può essere vissuto come un risarcimento. Non come un progetto, ma come una compensazione. E allora il confine tra guida e occupazione, tra esercizio dell’autorità e appropriazione degli spazi, diventa sottile.

È in questo passaggio che le nomine assumono un valore che va ben oltre la tecnica amministrativa. Non sono solo atti dovuti o prerogative di governo: sono lo specchio della qualità profonda di una classe dirigente. Dicono se chi governa considera lo Stato una macchina complessa da far funzionare o un territorio da presidiare. Dicono se la competenza resta un criterio o diventa un dettaglio. Dicono, soprattutto, se il consenso elettorale viene inteso come legittimazione a scegliere i migliori o come autorizzazione a scegliere “i propri”.

Quando la selezione delle classi dirigenti privilegia l’appartenenza sulla statura, la fedeltà sull’esperienza, la prossimità sulla competenza, il danno non è immediato. Non esplode in uno scandalo. Non produce titoli fragorosi. È un danno silenzioso, progressivo, strutturale.

Nelle aziende pubbliche, questo approccio indebolisce la capacità industriale proprio mentre servirebbero visione strategica, credibilità internazionale e capacità di esecuzione. In un contesto globale segnato da competizione geopolitica, transizioni tecnologiche e instabilità economica, la mediocrità non è neutra: è un costo. E lo paga il sistema Paese.

Nelle autorità indipendenti, il problema diventa ancora più sottile. L’indipendenza non è solo una formula giuridica, ma una qualità sostanziale, fatta di reputazione, autorevolezza, riconoscimento esterno. Quando chi guida queste istituzioni appare inadeguato o percepito come espressione di una logica di appartenenza, l’authority resta formalmente intatta, ma perde forza. E uno Stato con autorità deboli è uno Stato meno credibile, anche quando le leggi sono corrette.

Il punto centrale, però, non è tecnico. È politico nel senso più alto del termine. Non riguarda uno schieramento, una fase o una leadership. Riguarda il rapporto tra potere e limite. La capacità, rara ma decisiva, di distinguere tra ciò che è legittimo e ciò che è opportuno. Tra ciò che è possibile e ciò che è giusto.

La storia insegna che i sistemi democratici non si logorano solo per eccesso di conflitto, ma anche per eccesso di sicurezza. Quando chi governa smette di interrogarsi sulla qualità delle persone che sceglie, quando la domanda “sono i migliori?” viene sostituita dalla più comoda “sono dei nostri?”, il problema non è morale. È strutturale. E prima o poi presenta il conto.

Orwell non scriveva contro una parte politica. Scriveva contro l’illusione che il potere, una volta conquistato, sia automaticamente giusto. Scriveva contro la tentazione di riscrivere le regole per renderle compatibili con il presente, dimenticando lo spirito che le aveva generate. È una lezione che vale sempre, soprattutto per chi ha costruito il proprio consenso promettendo di essere diverso.

Chi ha combattuto a lungo contro l’arroganza del potere dovrebbe ricordarsi, più di chiunque altro, quanto sia facile assomigliargli senza accorgersene. Perché lo Stato non è una fattoria da redistribuire, ma una costruzione fragile da custodire. E la vera prova del governo non è l’occupazione degli spazi, ma la qualità delle persone chiamate a riempirli.