Black or Bitter? La variegata galassia
autoctona del Negro Amaro
Sono quasi 17.000 ettari (nel 2010) quelli destinati all’uva Negro Amaro in Italia, praticamente nella sola Puglia. Erano oltre 40.000 nel 1970, prima che cominciassero gli espianti voluti dall’UE: essa resta comunque la varietà più coltivata della nostra regione, più dello stesso Primitivo, al quale contende anche il primato della popolarità.

Una estensione invece incomparabile rispetto a quella della terza delle più importanti varietà a bacca rossa pugliese, l’Uva di Troia (solo 1.400 ettari nel 2010). Solo in Puglia? In verità un po’ ce n’è anche in Basilicata e in Campania, ma si tratta di quantità infinitesimali.
Ora il Negro Amaro è arrivato anche nel nord della Puglia (per es. nel cerignolese), ma la sua collocazione naturale è nelle province di Brindisi e Lecce. Non ci si sorprenda troppo, però, nello scoprire che quest’uva è sbarcata anche negli States, dove alcune wineries (come Montoliva Vineyards, in Illinois, una cantina specializzata in Tuscan-inspired wines, che adotta il curioso motto: “La birra è fatta dagli uomini, il vino dai santi”) ne producono una versione in purezza, e persino in Australia.

In Adelaide Hills c’è un produttore noto perché vinifica solo varietà italiane, Parish Hills: Nebbiolo, Dolcetto e Negro Amaro soprattutto, ma anche altri tipi di uva caratteristici del nostro paese. Sembra che il Negro Amaro si sia adattato bene in terra australiana, mostrando di poter conservare , pur in un territorio molto caldo, la propria acidità.
Da solo o in blend con altre varietà (la Malvasia nera è uno dei suoi partner favoriti) , è ingrediente fondamentale di numerose DOC, da quella di Copertino al Salice Salentino e allo Squinzano.
La Malvasia nera, secondo Ian D’Agata, notissimo collaboratore italiano della rivista Decanter, è stata storicamente, per il Negro Amaro, quello che il Canaiolo è stato per il Sangiovese chiantigiano: doveva alleggerire una certa monoliticità che questo vitigno assume nelle zone meno interessanti.

A me il Negro Amaro piace rosato (anche se la colorazione dei vini che se ne traggono è al limite della definizione di questo colore): non è un caso, forse, che da questa varietà che siano nati i primi rosé italiani (chi non conosce la storia del Five Roses di De Castris?), ed è in questa categoria negletta che essa ha dato alcune delle migliori riuscite del nostro paese, insieme al Montepulciano Cerasuolo abruzzese e al Chiaretto del Garda.

Tuttavia, specie in alcune annate, le migliori versioni “rosse” del Negromaro (gli appassionati ben conoscono il Patriglione di Taurino e l’amaroneggiante Graticciaia di Vallone) sono capaci di dare emozioni non inferiori a quelle suscitate da vini italiani ed esteri più famosi. Ma innanzitutto perché Negro Amaro (Jancis Robinson preferisce la versione unificata, Negroamaro)?
Secondo alcuni il nome deriverebbe dal latino niger e dal greco mavros. Entrambi significano nero, sicché Negro Amaro significherebbe “nero nero”. E’ il colore dell’uva, più che del vino, generalmente meno scuro. Secondo altri, Negro Amaro deriverebbe semplicemente dall’unione di “nero” (il colore) e “amaro” (il sapore). Non che questa varietà spicchi per amaritudine: probabilmente si cercava di distinguerla dal Negro Dolce, un’uva tempo presente nel Salento.
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Pubblicato in precedenza: La pluralità autoctona pugliese: antidoto al consumatore globalizzato
Dici Primitivo e pensi alla Puglia, ma in California il cugino americano...