La fuga dai BRIC: una scommessa fallita? - Affaritaliani.it

Finanza

La fuga dai BRIC: una scommessa fallita?

 

Erano i quattro Paesi emergenti che avrebbero dovuto trainare la nuova ripresa mondiale. La nuova superpotenza dell’economia globale dalla crescita inarrestabile.
Lo stesso acronimo, BRIC, dalle iniziali di Brasile, Russia, India e Cina, che con la recente integrazione del Sud Africa è diventato BRICS, era stato coniato nel 2001 da Jim O’Neill, all’epoca capo economista della Goldman Sachs, proprio per indicare le realtà che avrebbero rappresentato per almeno mezzo secolo le nuove frontiere dello sviluppo e della crescita del Pil mondiale.

Paesi caratterizzati tutti da una forte base demografica e un’immensa estensione territoriale, ricchi della maggior parte delle materie prime, dunque degni di attenzione e di investimenti, per anni in realtà ben remunerati. Oggi però c’è aria di delusione.

La mancata crescita dei principali BRIC ETF negli ultimi cinque anni (basti osservare il trend dell’italiano Ishares Bric 50 Ucits ETF e degli statunitensi MSCI BRIC Index Fund, SPDR S&P BRIC 40 e BRIC ETF, tutti inoltre con recenti performance davvero disastrose) e ancor più lo scarso rendimento dei titoli delle più importanti società dei paesi BRIC sulle piazze azionarie rispetto ai principali benchmark di riferimento, evidenziano che l’entusiasmo sulla crescita lunga s’è spento da un bel po’.           

E se al trend di titoli azionari e ETF aggiungiamo che lo scorso 9 novembre Goldman Sachs, l’autorevole banca d’affari che quasi quindici anni fa aveva eletto Brasile, Russia, India e Cina a motore primario dell’economia mondiale “per i prossimi 50 anni”, ha decretato ufficialmente morto il suo fondo di investimenti nei BRICS si percepisce la sensazione di una (grossa) scommessa fallita. Il fondo, creato nel 2006, non prevedendo “una significativa crescita degli assets nel prossimo futuro”, ha spiegato Goldman Sachs, è stato chiuso ed assorbito da un altro strumento diversificato legato in generale ai Paesi emergenti, ai quali la banca d’affari statunitense non vuole rinunciare del tutto ritenendo “l’esposizione ai mercati emergenti parte dell’asset allocation strategica” dei propri clienti.

La decisione, inevitabile dal punto di vista dei conti (la gestione del fondo è passata negli anni da un volume di circa 842 milioni di dollari ai circa 98 milioni di oggi, -88%), sembra chiudere l’era dei BRICS, già anticipata dai mercati (dal 2010 sono stati ritirati dai fondi che investono nei BRICS circa 15 miliardi di dollari) ma ora decretata proprio da chi ne aveva fatto un mito per la finanza e il sistema economico globale.

L’economia cinese d’altronde rallenta, quella brasiliana crolla e la Russia prova a districarsi tra i prezzi bassi del petrolio e le sanzioni internazionali. L’India, dal canto suo, cresce ma non riesce ad introdurre le riforme che insegue e promette da anni.

E il debito pubblico preoccupa tutti (in Cina dal 1997 al 2010 il debito delle amministrazioni locali è aumentato di 36 volte in termini nominali e di 5 volte in relazione al Pil, con il debito dello Stato, che garantisce per il 90% i debiti degli enti locali, volato dal 17% all’81% del Pil).
Come preoccupano, e frenano, tutti quei problemi legati all’arretratezza di partenza che nelle fasi di forte crescita economica vengono ignorati per diventare poi delle debolezze strutturali e fonti di squilibri interni sempre più difficili da superare.

Paolo Brambilla