Giovani e Lavoro, Andrea Fontana: “Diritto alla felicità”

A colloquio con il sociologo della comunicazione, Presidente di Storyfactory

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New Ways of Working

Leggiamo ogni giorno delle difficoltà degli imprenditori del mondo della ristorazione nel reperire personale, specialmente in questo periodo estivo e di ripresa, ma forse è il caso di fare un’analisi più approfondita della situazione lavorativa italiana e soprattutto dei giovani.

Ne parliamo con Andrea Fontana, Sociologo della comunicazione e dei media narrativi, Presidente di ‘Storyfactory’.

Nel post Pandemia abbiamo per la prima volta cominciato a leggere del connubio lavoro/felicità  Si possono trovare entrambe oppure il lavoro è sempre sacrificio che ci allontana dalle nostre aspirazione, che ci ruba il tempo per la nostra vita privata?

Per molto tempo abbiamo associato il lavoro al sacrificio. E in certi ambienti è ancora così. Siamo cresciuti nell’ideologia dell’operatività e del risultato fine a se stesso. Il lavoro era “essere occupati” in un “fare affaccendato” senza passioni, senza entusiasmi, comunque era un “dovere” svolto per motivi economici o per status sociale. La Pandemia ci ha improvvisamente mostrato che potevamo lavorare senza necessariamente agire un dovere, senza sopprimere la qualità della nostra vita, avendo un bilanciamento nuovo tra vita personale e occupabilità. Quindi, mai come oggi individui e aziende sono alla ricerca di nuove forme per esprimere il benessere e la felicità sul lavoro; new ways of working – si dice, per dare maggior equilibrio e senso alle nostre attività di creazione di valore: economico e sociale.

I giovani si lamentano di non avere futuro, di una situazione economica che non gli permette l’autonomia, di staccarsi dai genitori, mettere su famiglia, ma rifiutano il posto fisso, sono molto selettivi nel rispondere agli annunci di lavoro. Un po’ un cane che si morde la coda, sinonimo di mancanza di punti fermi riguardo alle loro aspirazioni?

I giovani oggi vogliono soprattutto alcune cose: crescere scoprendo se stessi, con autonomie progressive; avere un posto di lavoro capace di rispettare tempi di vita personale e professionale (con smartworking e non solo); sentire fiducia, cioè stare all’interno di un clima professionale che li riconosca e non sia tossico – dando il giusto peso al loro merito anche con un equa retribuzione. Questi tra l’altro sono in estrema sintesi i risultati di una recentissima ricerca “Il valore della fiducia. Laureati e laurendi alle prese con la sfida del lavoro” promossa da Humangest e realizzata dal CIRSIS dell’Università di Pavia e da Storyfactory.

 

La situazione al nord e al sud è diversa? E all’estero?

La situazione è in divenire sia tra Nord e Sud che nel resto del Mondo. C’è una lotta in corso tra un vecchio modo di concepire il lavoro: controllo della tua presenza fisica/esecuzione versus raggiungimento degli obiettivi/work-life balance. Se sdoganiamo le nuove forme di lavoro - con logiche ibride - dove non esiste più la scrivania e la presenza obbligatoria di 40 ore alla settimana andando verso una cultura focalizzata davvero sul raggiungimento degli obiettivi e della qualità della vita allora costruiremo un nuovo paradigma e potremo dire che la pandemia ci ha insegnato qualcosa. Se invece continuiamo con le logiche da “fare affaccendato”, da “comando-controllo”, da “timbra il cartellino” allora saremo condannati a un lavoro che non è realizzazione, né felicità ma solo dovere e servitù.

I media stanno un po’ ingigantendo il problema o la situazione, ma soprattutto la stanno trattando in maniera superficiale. Questo contribuisce ad allontanarci dalla reale situazione?

Ultimamente abbiamo sentito solo narrazioni superficiali e lamentele. Con dichiarazione del tipo: “i giovani non hanno voglia di lavorare”, “non si è più disposti a sacrificarsi”, “non trovo nessuno che voglia venire da me”, “tutto colpa dei sussidi”, etc etc Ma dietro queste notizie c’è un mondo nuovo del lavoro da capire con richieste specifiche. Se infatti “guardiamo oltre” le varie news degli chef che non trovano dipendenti troviamo le grandi questioni di cui discutevamo prima: flessibilità degli orari, fiducia, benessere, work-life balance, equa retribuzione. Questioni da non banalizzare, che dovrebbero essere trattate con rispetto sia dai media che dalle Istituzioni.

A livello politico, escludendo la questione reddito di cittadinanza, sembra che per il momento non si stia affrontando la situazione. In un passaggio del PNRR si legge: Per essere efficace, strutturale e in linea con gli obiettivi del pilastro europeo dei diritti sociali, la ripresa dell’Italia deve dare pari opportunità a tutti i cittadini, soprattutto quelli che non esprimono oggi pienamente il loro potenziale. Il riferimento dovrebbe essere ai giovani, ma nel concreto?

Dobbiamo costruire nuovi ambienti di lavoro e vita sociale non tossici.

Nel concreto bisogna affrontare la questione a livello sistemico e il Governo dovrebbe intervenire per lanciare una grande campagna, sfruttando anche i fondi del PNRR, sui nuovi ambienti di lavoro, sulle nuove professioni, sul recupero delle artigianalità e delle tradizioni italiane, sull’innovazione, sulla sostenibilità economica (non solo ambientale). Per ora da parte di molte Istituzioni ci sono belle parole. Speriamo che arrivino anche i fatti.

 

Qualcuno dice che i giovani oggi sono attratti dai “soldi facili”, sono affascinati dagli influencer, secondo lei quanto può essere davvero diffusa questa illusione?

Ogni generazione è affascinata da un archetipo professionale che rappresenta la novità e la possibilità di riscatto. Un tempo c’erano i “colletti bianchi” e gli “operai” che rappresentavano a diversi livelli il riscatto dal duro lavoro agricolo, oggi ci sono (anche) gli influencer. O ancora meglio i content creator. Cosa rappresentano? La possibilità di esprimere se stessi, di lavorare da ogni luogo, di sentirsi liberi e di poter guadagnare attraverso una propria passione diventata progetto di vita. Non trovo insano ispirarsi a qualcuno che attraverso la sua intraprendenza sa farsi seguire o ascoltare, il problema è responsabilizzare alla fama o al soldo facile. Ma non credo che i giovani – in generale – siano così ingenui da pensare che qualcuno può facilmente regalare denari o notorietà. Credo semmai che abbiano la consapevolezza di avere di fronte a sé un’avventura professionale lunga, complessa ma ricca di potenziali soprese positive.

 

Prima del lavoro c’è l’istruzione, quanta responsabilità ha la scuola nel creare i lavoratori di domani?

Chi sono i lavoratori di domani, visto che molte ricerche confermano che – a differenza di un tempo – oggi non sapremo esattamente quali lavori si faranno domani? Rispondo con una domanda provocatoria perché penso che dobbiamo ripensare l’offerta dell’istruzione in Italia. Abbiamo un’offerta di apprendimenti ancora basata su “compartimenti stagni” e invece dovremmo aprire le dighe. Non dobbiamo aver paura di osare a mescolare i generi: perché un ingegnere non può essere un filosofo? Perché un’appassionata di lingue antiche non può essere una brava matematica? Sto estremizzando solo per sottolineare il fatto che ci occorrono nuove scuole dove si costruiscono progetti di vita e lavoro in progress. In altre parole oltre alla preoccupazione di formare un lavoratore capace di svolgere una mansione si dovrebbe anche “educare” un individuo a essere capace di abitare una comunità di vita e lavoro, soprattutto in grado di pensare e ripensare la propria occupabilità e il proprio progetto professionale.

 

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