Chuck Kinder e gli scrittori fuorilegge: ogni buona storia è una storia vera

Nicola Manuppelli racconta l'amicizia con Chuck Kinder e la sua capacità di fondere finzione e realtà, raccontare storie e creare miti

di Sara Perinetto
Libri & Editori
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Domani è un posto enorme: un'amicizia con Chuck Kinder, di Nicola Manuppelli per Jimenez edizioni. Intervista all'autore

Quello Chuck Kinder è un nome poco conosciuto, eppure c'è il serio rischio che dopo aver letto questo libro diventi il vostro scrittore preferito. Parliamo di Domani è un posto enorme, il romanzo-diario-memoir di Nicola Manuppelli, per Jimenez edizioni, che racconta la sua amicizia con l’autore statunitense.

Da giovane scrittore in erba, Nicola si trova a un certo punto smarrito nel mezzo della sua vita e della sua carriera. A indicargli la retta via arriva Chuck Kinder, scrittore fuorilegge americano, un fortuito contatto di lavoro che si trasforma in un amico e mentore in grado di rivoluzionare la visione del mondo di Nicola e di insegnargli la magia e l'importanza della narrazione: “Ogni storia è vera se è buona”.

Nicola fa una promessa, scrive la biografia di Chuck, e questi accetta a un patto: quello che ne uscirà dovrà essere il libro di Nicola, raccontare di lui. Ecco quindi che, attraverso le oltre 300 pagine di Domani è un posto enorme, scopriamo una marea travolgente di vite, libri, aneddoti, scrittori, autori, personaggi e storie. Tantissime buone storie. Che abbiamo approfondito con l’autore stesso del libro, Nicola Manuppelli.

Chuck Kinder in Italia è poco conosciuto, eppure è stato mentore e punto di riferimento di diverse generazioni di scrittori statunitensi. Come mai questa discrepanza?

Noi leggiamo letteratura americana italianizzata, quindi ogni tanto ci sono corrispondenze, altre volte no. Un autore come Lansdale è più famoso qui che in patria. Se dici a un americano che leggi Sherwood Anderson si stupisce. Edgar Lee Master in Italia è quasi un mito ma non è il poeta più famoso degli Stati Uniti. A volte ignorano un autore importante che magari poi riscoprono di riflesso, come successo a Edgar Allan Poe, di fatto lanciato dai francesi. E che spero succeda a Don Robertson: quasi dimenticato negli Usa, si trova più in Italia.

Kinder non è famosissimo ma è molto importante fra gli scrittori, perché è stato un grande insegnante di scrittura creativa, collante tra vari autori, anche se non ha mai cercato il successo personale, ha pubblicato poco, è stato dietro le quinte. Quando in Italia è uscito Lune di miele è andato bene, ma poi le pubblicazioni successive sono state seguite meno e si è diradato in fretta. Ora sto traducendo il suo primo romanzo, ancora inedito in Italia, e magari anche questo rinforzerà il suo nome. Io lo reputo un autore straordinario, anche per l’approccio che ha alla narrativa. È totalmente narrativo, fatto di storie, ha un profondo amore per l’arte e il racconto. Era quello che volevo trasmettere col mio libro, che è poi ciò che cerco sia quando scrivo cose mie che quando traduco altri autori.

Nicola e Chuck
 

 
Kinder è morto di recente, nel 2019, ma credi che sia già cambiato qualcosa nel modo di recepirlo, come autore? 

Non è ancora partita un’azione di riscoperta ma subito dopo la sua morte tantissimi autori l’hanno ricordato anche dal punto di vista privato. Molte persone gli erano grate, gli dovevano qualcosa per la propria carriera o dal punto di vista personale, e questo debito di riconoscenza, che si respirava già quando lui era vivo e che è stato espresso da tanti quando è morto, potrebbe essere la forza per per farlo riscoprire. Di certo il fattore umano gioca a suo favore.

Per esempio, John O’Hara è stato uno scrittore enorme ma molto odiato, e quando è morto la sua fama è decresciuta perché tutti ci tenevano quasi a cancellarlo. Fran Lebowiz ha detto che O’Hara “verrà riscoperto quando tutti quelli che lo avevano odiato in vita saranno morti”, perché aveva davvero un caratteraccio.  Al contrario Kinder sarà aiutato dalla sua personalità, e l’opera gli fa da garante: pochi libri ma eccezionali. Come diceva Hemingway a Fitzgerald: “I grandi scrittori tornano sempre”. 

Chuck e Nicola
 

Cosa è rimasto di tutti questi legami oggi, di tutto quel gruppo di scrittori fuorilegge di cui parli nel libro?

Kinder ha insegnato per così tanto tempo che ci sono anche scrittori molto giovani ancora legati a lui, o nel pieno della carriera, come Michael Chabon, forse il più famoso tra i suoi allievi. I legami sono rimasti, tante persone si conoscono grazie a Chuck. Ho lavorato con numerosi autori che gli devono molto, come Chuck Rosenthal, Lee Maynard, Don Paul, o anche non scrittori, come la moglie e il fratello di Chuck, che si continuano a tenere in contatto tra loro, una sorta di famiglia allargata, con connessioni che ne creano a loro volta altre. Per esempio, sono molto amico di Tom Zigal, scrittore e amico di Chuck, e tramite lui mi si è aperta una nuova porta sulla letteratura texana, ho conosciuto altri scrittori con cui sono diventato amico.

È come se Chuck avesse portato avanti tante lunghe stagioni di semina, e ora sono cresciute delle foreste. Un’operazione culturale e umana enorme, che è poi il segreto di tutti i grandi momenti e movimenti culturali. Non sono cose fatte a tavolino come certe antologie che si inventano oggi che raccolgono 10 autori sconosciuti tra loro che si scrivono sulla stessa tematica. Queste sono persone che si conoscono, parlano e si scambiano idee, poi ognuno fa quello che vuole, come nel Rinascimento, nel neorealismo, nel cinema del dopoguerra…

Il periodo clou sono stati gli anni Sessanta e Settanta, ma sottotraccia resta qualcosa, più che altro scrittori nelle province americane, che però ci sono, resistono. Il mio libro vuole anche rispecchiare questa idea di Chuck secondo cui la cultura non si fa con le nicchie ma con una continua apertura, continui scambi.

Diane, Chuck e Nicola
 

L’importanza dei rapporti umani è molto evidente nel libro, ma invece a livello formale, di contenuti e stile, cosa caratterizza questi autori?

È un gruppo eterogeneo dove si muovono spesso idee simili, quindi ci sono delle affinità. Per esempio l’ironia caratterizza tanti di questi scrittori, una vita ricca di scambi, il culto dell’amicizia, dei ricordi. Poi si differenziano molto tra loro, anche i più vicini, per esempio Zigal e Kinder sono autori diversi anche se amici stretti. Quelli del gruppo di Stanford hanno una capacità e una raffinatezza di scrittura che sicuramente li accomuna, ma arrivano appunto da un luogo magico, come Tobias Wolff, che ha uno stile fantastico. A differenza di altre scuole che hanno avuto scrittori più intellettuali, questi di Stanford sono più… californiani!

E a te cosa è rimasto professionalmente? 

In un primo momento è rimasto il coraggio, che lui infondeva, di scrivere e di crederci, ma anche tanti piccoli immaginari come i motel, le luci al neon, che sono entrati nel mio genere narrativo. Col tempo mi sono reso conto di punti di contatto ancora più forti che riguardano il rapporto tra realtà e finzione, la storia come unica filosofia e teologia dello scrittore, che quindi deve crederci fermamente, al di là del concetto di verità. Infatti è la frase che metto al centro del libro: ogni storia se è buona è vera.

Come l’approccio ironico, divertito, la scrittura magmatica: mi sono ritrovato ad averli addosso senza che li cercassi. Per esempio, anche se avevo già pubblicato qualche romanzo, quello che considero il primo è Roma, perché è il primo con cui sono stato consapevole e felice di quello che ho scritto. E ho capito che è quella la strada da percorrere, una narrazione che si lascia andare alle digressioni e asseconda il gusto di narrare.

Domani è un posto enorme e Roma sono i due libri che reputo più importanti nel mio percorso di autore, due cose che sognavo di fare, e ora ce ne sono altre che sogno di fare in futuro. Il mio pensiero è sempre quello di poter scrivere qualcosa di meglio, una continua ricerca di cosa si può fare con le parole. Non so se accadrà ma ce l’ho in testa da un po’, se dovessi scrivere un seguito a questo libro, raccontare un altro autore, sarebbe su William Butler Yeats, che ha raccontato il potere magico delle parole, quello che poi Chuck usava. 

Nicola, Annie, Diane e Chuck
 

E infatti nel libro si capisce bene l’importanza delle storie, talmente ben raccontate e ripetute da confondersi con la realtà. Col tempo hai imparato a distinguere le bugie dalla verità?

All’inizio cercavo di farlo, poi ho capito che non aveva importanza. Quando per esempio Chuck raccontava episodi del suo passato ad Atlantic City, che è paradossale, li ripeteva talmente tante volte che capivi che poteva anche esserci un fondo di verità, ma qual è la versione esatta? Non esiste. Era quella che di volta in volta Chuck raccontava. Anche quando lo chiedevo ai suoi amici, loro rispondevano solo: “È una buona storia”. Chuck era permeato dalle proprie storie e se vuoi raccontarne una devi essere tu stesso il primo a crederci.

Pensiamo al linguaggio di tutti i giorni: posso fare una cena ricchissima e dirti che ho mangiato tanto oppure dirti che ho mangiato fino a scoppiare. Ovviamente nessuno scoppia, è un modo di dire, ma stiamo raccontando la realtà con un’espressione che ha qualcosa in più, e quindi diventa vera perché esprime meglio il concetto. E il compito di un romanziere è esprimere meglio, raccontare le storie nel modo migliore. Credo che Chuck lo avesse sempre fatto nella sua vita, che non sapesse proprio che ci fosse un confine tra verità e storie, che non se lo domandasse neanche.

Significativo e splendido l’episodio degli Old Poets, questo gruppo di ubriaconi trasformati in poeti dalla narrazione di Chuck che sono ora per te un ricordo indelebile. 

Chuck nel libro viene presentato anche come mago, prestigiatore, stregone, e con gli Old Poets fa esattamente questo, modifica la realtà: un atto contro il cinismo, altra tendenza letteraria che a me non piace, quando per esempio si dice “ti è piaciuto quel libro?”, “sì, è stato un pugno nello stomaco”. Ma perché deve essere così? La cosa più bella che uno possa fare è prendere la realtà e trasformarla in qualcosa di accresciuto, come fa nel cinema Woody Allen, che descrive una Manhattan che non esiste ma è meravigliosa. 

Diane, Chuck e Nicola
 

Kinder è riuscito a leggere qualche bozza del libro?

Gran parte del contenuto lo conosceva perché è quello delle nostre mail, e se il libro funziona allora credo che Chuck lo approverebbe. Diane (la moglie, ndr) mi ha detto che sicuramente l’avrebbe apprezzato. Ne ha prenotate una decina di copie ma ancora non esiste una traduzione anche per poterlo lanciare sul mercato americano. 

E tu ne sei soddifatto? Chuck ti ha chiesto di scrivere il tuo libro più che la sua biografia, e sembra che tu ci sia riuscito. 

Sono contento per quanto possa esserlo e in questo sono influenzato da Chuck: lo scrittore è contento di quello che farà, è sempre proiettato. Il libro è la fase conclusiva del lavoro, soprattutto questo che nasce oralmente. La storia è stata fissata ma fra 5 anni potrà essere diversa, verranno fuori nuovi episodi ed è una continua riformulazione.

La questione dell’oralità è un altro dei temi principali del libro: la creazione dei miti e delle leggende che parte dalla quotidianità, dal normale. Oggi si tende a raccontare personalità che sono già leggende e miti, come la regina Elisabetta o Freddie Mercury, ma credo che il compito di uno scrittore fin dai tempi di Omero sia prendere le altre storie, quelle di tutti i giorni, e renderle leggende e miti, compresi noi stessi, perché tutti abbiamo il diritto di rendere la nostra esistenza interessante e bella attraverso il racconto, di raccontare e raccontarci in questo modo.

A volte se ne ha paura, il racconto di sé stessi sembra un atto di megalomania, invece è la cosa che possiamo fare con più libertà, perché possiamo ridere di noi stessi, usare il sarcasmo, il grottesco. Chuck aveva una forte capacità di umiliarsi, deridersi, insisteva molto su questo coraggio di mettersi in gioco, di denudarsi davanti al lettore... ed è quello che ho cercato di fare col mio libro.

La copertina di "Domani è un posto enorme"
 

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