De Zan riapre Il caso Pantani,: "Chi lo ha ucciso è ancora libero" - Esclusiva

"Ho la serena consapevolezza che tra le pagine del libro ci siano tutti gli elementi affinché ognuno possa trovare la risposta al mistero: è stato un omicidio"

Di Lorenzo Zacchetti
Sport

Esce "Pantani per sempre" di Davide De Zan, l'anteprima in esclusiva su affaritaliani.it

Marco Pantani è morto il 14 febbraio del 2004, anche se forse il suo cuore si era spento prima: in quel giugno 1999 a Madonna di Campiglio nel quale la sua discussa positività spezzò una carriera e anche il sogno dei tanti che si identificavano con "il Pirata".  Un colpo durissimo per un fenomeno del ciclismo, che era anche un ragazzo molto sensibile. Pubblicata da Libreria Pienogiorno, esce oggi - martedì 22 novembre - in tutte le librerie e gli store on line "Pantani per sempre", inchiesta a tutto tondo sulla vita e la morte del più amato dei campioni del ciclismo moderno a firma di Davide De Zan, il giornalista a cui si devono le più importanti rivelazioni sulla tragica fine di un atleta che, a diciotto anni dalla scomparsa – un omicidio, secondo De Zan - è più vivo che mai nella passione dei tifosi.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Qualche anno fa» racconta De Zan, che da trent’anni sulle reti Mediaset dà voce al Giro d’Italia e alle grandi classiche dello sport, «ho aperto un percorso sulla strada della verità, per tutti quelli che avessero voglia di osservare a fondo la storia di un campione e di un uomo che ci aveva lasciato troppo presto, e con troppi perché. Allora non potevo raccontare tutto ciò che sapevo, perché c’era un’inchiesta giudiziaria ancora aperta. Molti di quei documenti si trovano invece in questo libro».

Il risultato è un’indagine a cuore aperto che mette in fila i fatti, inesorabilmente, che rovescia ricostruzioni di comodo, che non smette di chiedere giustizia. «Ho la serena consapevolezza che tra le pagine di Pantani per sempre ci siano tutti gli elementi affinché ognuno possa trovare la risposta al mistero» conclude De Zan.

 


Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo in esclusiva un’anticipazione del volume "Pantani per sempre" di Davide De Zan


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da "Pantani per sempre" di Davide De Zan (ed. Pienogiorno)

 

Tra le tante stranezze dell’indagine sulla morte di Marco Pantani, avvenuta a Rimini in una stanza del residence le Rose il 14 febbraio 2004, ce n’è una che davvero le batte tutte: quella di una pallina di pane e cocaina, grande più o meno come una noce, trovata a pochi centimetri dal corpo senza vita di Marco Pantani. Secondo la ricostruzione ufficiale, quel piccolo bolo di mollica di pane sarebbe stato espulso dalla bocca di Marco, come rigurgitato, prima di morire. Una sorta di elemento di prova, che confluisce a determinare la tesi secondo cui Pantani in quella stanza si fosse messo a mangiare pane e cocaina.

Insomma, secondo gli esperti, era la dimostrazione effettiva del delirio psicogeno e della volontà suicida. La “prova regina” sarebbe lì, in un tozzo di pane sul pavimento. Ma c’è un problema: quando Pantani è morto, quel bolo non c’era.

A darcene conferma è l’uomo che per primo è intervenuto sul corpo del Pirata, quella maledetta sera. «Ero lì a pochi centimetri da lui e di quella pallina bianca non vi era traccia». Inizia con queste parole il racconto di Anselmo Torri, l’infermiere del 118 catapultato sulla scena verso le 20.45 del 14 febbraio. In pratica il primo uomo a intervenire direttamente sul corpo di Pantani, dopo l’allarme lanciato dal portiere del residence e ancor prima dell’arrivo della polizia. «Ci avevano chiamato dicendo di recarci al residence Le Rose in urgenza. Quando io e l’autista dell’ambulanza siamo arrivati a destinazione, il proprietario ci ha fatto strada e ci ha accompagnato fino alla stanza. Entrando, ci siamo accorti subito del disordine al piano di sotto, ma non ci siamo fermati e abbiamo proseguito fino al soppalco. Giunti lì ci siamo trovati di fronte a Pantani: era in posizione prona, tra il letto e la balaustra». Anselmo – dopo tanti anni – ha scolpite nella memoria le immagini di ciò che ha visto quella notte. Ma quando guarda per caso alcuni miei servizi alla tv dedicati al “Caso Pantani”, stenta a riconoscere la scena, e fa molta fatica a sovrapporre le sequenze proiettate sullo schermo con ciò che ha visto con i propri occhi. Sopra a ogni cosa rimane colpito – allibito, è il temine più esatto – nel vedere una pallina bianca di fianco al cadavere di Marco.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Davide… quella notte la pallina io proprio non l’ho vista». Ho incontrato Anselmo in un pomeriggio di luglio. «Ero lì a pochi centimetri dal suo corpo, oltretutto in uno spazio molto ristretto, tra il letto e la balaustra. Se ci fosse stato qualcosa lo avrei sicuramente notato, anche perché nel nostro mestiere quando ci troviamo in una situazione simile dobbiamo sempre segnalare qualunque elemento riferibile a sostanze stupefacenti. È uno dei nostri doveri. Dunque, se ci fosse stata veramente quella pallina di fianco alla testa del cadavere, non solo l’avrei notata, ma sarei anche stato obbligato a segnalarla nel mio rapporto».

Osservavo con attenzione quell’uomo mentre mi parlava, e ogni cellula del suo corpo mi indicava che stava dicendo la verità: i suoi occhi, i movimenti, il tono della voce, l’espressione che si disegnava sul viso rievocando la drammaticità di quei momenti. Anselmo era sincero, e del resto non avrebbe avuto alcun motivo per mentirmi. Era un uomo semplice, onesto, che cercava di far emergere qualche bagliore di luce, di verità. Provai ad andare più a fondo: «Anselmo, ma nessuno le chiese nulla? Non venne interrogato dalla Polizia?», «No, Davide. Nessuno mi chiese nulla allora e nessuno mi ha mai chiesto nulla per dieci anni».

Ci rendiamo conto? Lui e i suoi colleghi sono stati i primi a intervenire sul corpo di Pantani e nessuno, ribadisco nessuno, è andato a raccogliere la loro testimonianza. Sembra incredibile, eppure è successo anche questo. L’infermiere aggiunge altri particolari: «Io e il mio autista […] siamo stati mezz’ora a osservare tutto quello che avevamo intorno: il corpo, la stanza, la situazione, l’ambiente, i particolari. Se ci fosse stato qualcosa di strano, o di insolito, l’avremmo sicuramente notato. E se per caso quel bolo fosse finito sotto il corpo di Pantani sarebbe apparso poi con una forma schiacciata e non certo rotonda, sferica, come abbiamo visto nelle fotografie e nel filmato della polizia».

Il racconto di Anselmo fu lucidissimo e dettagliato. Evidentemente l’emozione di quei momenti aveva impresso con forza i ricordi nella sua mente. Arrivati a quel punto gli chiesi un ultimo sforzo, domandandogli se, nel corso degli anni, si fosse mai confrontato su quello specifico argomento con gli altri colleghi presenti sulla scena. «Anche loro non hanno visto nulla. All’inizio eravamo in due, vicino a Pantani, poi è arrivato anche l’altro infermiere del 118. Quindi ci sono stati sei occhi puntati su quell’uomo senza vita, per circa mezz’ora, in uno spazio molto ridotto, e nessuno di quegli occhi ha visto quella pallina. Anzi, sa cosa le dico…? Non è che non l’abbiamo vista, quella pallina proprio non c’era».

Come ha fatto, allora, a comparire questo strano elemento sulla scena del crimine? L’unica risposta che rimane è questa: la pallina è stata posizionata in quel punto dopo che gli infermieri si sono allontanati dal corpo di Pantani. Quando il sangue, sul pavimento, era già ecco.

Il motivo? Sviare le indagini. Condurle nella direzione sbagliata. La messa in scena è servita. L’ultimo tassello di quel sinistro puzzle ha trovato il suo posto vicino al cadavere di Marco. Il disegno perverso, e a tratti maldestro, è compiuto. Ed è bastato per mettere in atto l’omicidio perfetto. […] Il delitto perfetto non è soltanto quello che rimane senza un colpevole. È anche quello che dissemina particolari per condurre chi indaga in un luogo distante dalla verità. Esattamente la funzione svolta da quella pallina. Oggetto dissonante, estraneo, sistemato lì per completare lo sfondo di una scena del crimine dove nulla è come sembra. La stanza è immersa in un caos totale, ma nessuno ha sentito alcun rumore. Ci sono oggetti lanciati
ovunque, ma nulla di rotto. Si parla di overdose accidentale, ma mancano gli strumenti necessari per fumare il crack. «Nessuno è mai entrato o uscito da quella stanza», eppure ogni dettaglio fa capire ben altro. A questo punto le domande che ci dobbiamo porre non sono più: omicidio o suicidio? Overdose volontaria o accidentale?

La domanda giusta, adesso, è una sola: chi ha ucciso Marco Pantani? Nel pronunciarla, dobbiamo sapere che le mani di chi gli ha strappato la vita, così come quelle di chi ha alterato i suoi esami di Madonna di Campiglio nel 1999, per quanto sporche di sangue, sono ancora libere di agire indisturbate.

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