L’Europa sia meno pavida: il trumpismo non finirà con Trump, ma negli USA emergono contrappesi - Affaritaliani.it

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Ultimo aggiornamento: 16:32

L’Europa sia meno pavida: il trumpismo non finirà con Trump, ma negli USA emergono contrappesi

Di Ernesto Vergani

A stupire non è l’arroganza offensiva con cui Donald Trump tratta l’Europa, quanto la pavidità dei leader europei, incapaci di rispondere e di difendere i valori che dovrebbero rappresentare. Nel vuoto creato da questo silenzio, la domanda inevitabile è: siamo destinati a vivere per sempre nel mondo che vuole Trump, una volta che Donald The Anomaly avrà concluso il suo secondo mandato? La risposta è duplice: da un lato non siamo di fronte a un destino irreversibile, dall’altro nulla tornerà più come prima.

Non vivremo per sempre nell’universo politico immaginato dal tycoon, ma non torneremo neppure all’America che abbiamo conosciuto nel dopoguerra. Il trumpismo non è una parentesi: è il sintomo di un cambiamento profondo, che precede Trump e che Trump ha portato alla luce. Polarizzazione (collasso del centro politico e impossibilità di costruire compromessi), sfiducia nelle istituzioni, fine del consenso bipartisan sulla politica estera, paura dell’ascesa cinese, mutamenti demografici: tutto questo esisteva già. Il prossimo inquilino della Casa Bianca non potrà cancellarlo.

La stagione in cui Washington garantiva automaticamente la sicurezza dell’Europa, difendeva il multilateralismo come un dovere morale e si assumeva il ruolo di poliziotto globale è finita. Eppure il trumpismo non dovrebbe durare per sempre. La società americana non è monolitica: al conservatorismo identitario si affianca un liberalismo civico ancora vivo – al netto della pavidità, dell’adulazione opportunistica e di quel moralismo a corrente alternata che caratterizzano Hollywood e una parte della Silicon Valley –, un’élite tecnologica cosmopolita e un capitalismo che, per prosperare, ha bisogno del mondo.

C’è poi un fattore decisivo: la demografia. Le fasce che più sostengono il trumpismo – anziani, rurali, meno istruiti – si restringono, mentre le generazioni giovani, anche quando votano a destra, sono meno ostili all’Europa e meno affascinate dal mito dell’autosufficienza nazionale. E poi ci sono le crisi esterne, quelle che storicamente costringono gli Stati Uniti a rientrare sulla scena globale. Se la Cina avanza troppo, o se la Russia destabilizza l’Europa, o se a Mosca dovesse cambiare in modo imprevedibile l’attuale assetto di potere, anche l’America più restia capirà che il ritiro non è una strategia. La storia americana è piena di ritorni improvvisi.

La vera incognita è la capacità europea – più che delle istituzioni, delle sue classi dirigenti – di leggere questo passaggio storico senza illusioni. Il trumpismo non è eterno, ma neppure lo è il riflesso condizionato di delegare a Washington ogni responsabilità strategica. Che piaccia o no, si apre una fase in cui ci si dovrà misurare con una realtà diversa: meno protettiva, meno prevedibile, più competitiva.