Storia e preistoria di ogni conflitto

Di Maria Martello*
Il conflitto è parte integrante della storia dell’uomo e segna continuamente la vita di ogni individuo. La parola conflitto, nel sentire comune, è, di solito, connotata negativamente. Richiama disagio, sofferenza, scontro, lotta, confusione, rabbia, guerra: fondamentalmente un problema da estirpare. Spesso si ha la sensazione che vivere significhi essere in conflitto o che il conflitto sia percepito come il sintomo di qualcosa che non va, qualcosa che deve essere curato. Proprio perché la condizione umana è impregnata di conflitti, molte discipline, sia pure in maniera diversa, se ne sono occupate. Si è arrivati a considerare il conflitto come un vero e proprio fenomeno sociale.
Ogni conflitto, ogni malessere legato ad un’occasione di oggi ha una sua storia fatta di tappe che hanno condotto alla celebrazione del dramma, storia che deve essere raccontata, narrata. Ma che ha anche una sua preistoria. Nasce da un’offesa, da una violenza, dalla negazione di qualcosa di sentito come essenziale che è stato negato. Qualcosa di archetipico, un bisogno antico, precoce, insoddisfatto, che ha lasciato un vuoto incolmabile. Il bisogno di unità, presto spezzato dal taglio del cordone ombelicale con la nascita, viene sublimato nella ricerca di un affetto che lo compensi. Invano, spesso, si tenta di saziarlo nel rapporto primario con i genitori, con la madre soprattutto. Nasce da qui il desiderio, l’anelito ad una relazione fatta di presenza costante, rassicurante, contenitiva delle ansie, che dia la percezione o l’illusione di essere al centro del mondo, o almeno del mondo dell’altro. Come con i genitori, si cerca anche nel compagno, nell’amico, nel collaboratore, l’unicità, l’esclusività del rapporto: un figlio è sempre unico per la madre e questa è sempre unica per il figlio.
Si può rifuggire la barbarie dei conflitti? Torniamo a costruire delle vere relazioni Facciamo come Kafka. Guardare il passato per andare avanti
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Cresce forte la voglia di consistere nella vita di qualcuno, per non soccombere soli, al mondo: appartenendo ci si sente più sicuri e protetti. A livello molto profondo si annida il bisogno di un affetto totale, di un amore incondizionato, di un soddisfacimento definitivo, una speranza instancabilmente riposta negli stessi eventi minimi. Anche un giovane rapporto, un fatto marginale, un’occasione esteriore possono costituire l’appiglio, il pretesto per sperare nel verificarsi di un evento pieno e totale, sempre auspicato. Mentre un rifiuto anche di poco conto può condurre a un senso di fallimento globale, a una disperazione devastante. Tale bisogno rende estremamente vulnerabili, giacché mai nessuno potrà colmare questa aspettativa, anzi, se ciò accadesse, forse, non sarebbe accettato, in quanto costringerebbe ad una dipendenza ugualmente totale, infantile e per ciò stesso intollerabile alla condizione di adulti.
Se, invece, si cresce sufficientemente protetti dall’abbraccio della madre, poi dei genitori, del gruppo dei pari, giunge il momento in cui la sazietà, la voglia di staccarsi matura e spinge a perseguire l’autonomia in cui ciascuno diventa l’abbraccio di se stesso. Si trova quindi la giusta distanza dall’altro, non si gradisce la simbiosi, non si tollera l’invasione, non ci si sente in gabbia, né si vive nell’isolamento, nell’indifferenza.
La violenza della realtà, poiché non si realizza mai la totalità anelata, crea una piaga che sanguina, non si cicatrizza e si riattiva anche a causa di eventi con valenza marginale. Capita allora di reagire con modalità che appaiono all’esterno spropositate rispetto ai fatti, se non si sanno interpretare come reazioni ad una minaccia percepita contro il nucleo della personalità.
Alla base dei conflitti c’è, dunque, la paura dell’altro, che viviamo come minaccia in ogni caso: nella sua diversità, oppure quando inconsapevolmente lo ricreiamo “a nostra immagine e somiglianza”; lo stigmatizziamo quale testimone vivente degli aspetti di noi stessi, le ombre che abbiamo rifiutato, esiliato e represso nella sfera più nascosta della nostra psiche. A lui attribuiamo tutto ciò che non siamo disposti a riconoscere in noi: l’aggressività, la voglia di rivalsa, l’invidia, la mancanza di scrupoli, il desiderio di trasgredire e farla franca, la spinta a prevaricare. Sono proiezioni di ciò che ci sembra non funzioni bene in noi, e l’altro diventa specchio delle nostre debolezze e delle nostre paure: l’immagine riflessa non ci piace.
* Docente di Psicologia dei rapporti interpersonali. Formatrice A.D.R. Mediatrice dei conflitti. Autrice di Sanare i conflitti (Guerini e Associati Editore, Milano, 2010) nonché di Oltre il conflitto; Intelligenza emotiva e mediazione (McGraw-Hill, Milano, 2003); Conflitti, parliamone. Dallo scontro al confronto (Sperling e Kupfer, Milano, 2006); Mediazione dei conflitti e counselling umanistico. Lo spazio della formazione (Giuffrè, Milano, 2006); L'arte del mediatore dei conflitti Protolli senza regole, una formazione possibile (Giuffrè, Milano, 2008); Educare con SENSO senza disSENSO. La risoluzione dei conflitti con l'arte della mediazione (Franco Angeli, Milano, 2009); Mediatore di successo. Cosa fare/Come essere (Giuffrè Editore, Milano, 2011).
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maria.martello@tiscali.it