"Carceri, l'amnistia non serve. La chiave è la prevenzione sociale"

di Lorenzo Lamperti
@LorenzoLamperti
"Amnistia e indulto non risolvono il sovraffollamento delle carceri". Adolfo Ceretti, luminare della criminologia italiana, boccia l'ipotesi lanciata da Napolitano in un'intervista ad Affaritaliani.it: "Possono decongestionare sul momento ma nel giro di 2 o 3 anni saremo al punto di partenza. Serve un intervento strutturale con depenalizzazione e rafforzamento delle misure alternative". Ceretti propone un modello nuovo: "Si investa sul welfare penale invece che assecondare l'ossessione per la sicurezza. La mediazione? E' dimostrato che serve a limitare la recidiva. Ma la chiave sono i progetti di prevenzione sociale".
ADOLFO CERETTI, dopo la laurea in Giurisprudenza, si è specializzato in criminologia clinica presso l'Università di Milano. Nel 1996 è stato componente del Comitato Metropolitano di Milano, sotto la giunta Albertini, sui progetti finalizzati a rimuovere le condizioni di disagio minorile per prevenire il rischio di coinvolgimento in attività criminose. Influenzato dai maestri Domenico Pisapia e Gianluigi Ponti, ha vinto il "Premio Paolella" nel 1993 e, in occasione dell'XI Congresso Mondiale di Criminologia, tenutosi a Budapest, il prestigioso premio internazionale "Dennis Carroll ". Dal 1996 ricopre la cattedra di criminologia all'Università di Milano. E' uno tra i più stimati criminologi in Italia ed è considerato uno dei precursori dell'applicazione penale dello strumento della mediazione. |
Amnistia e indulto possono risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri?
No, non credo proprio che siano delle soluzioni. Amnistia e indulto aiutano a decongestionare e a rendere praticabile la vita carceraria ma come abbiamo già visto con l’indulto del 2006 nel giro di due o tre anni il problema si ripresenta identico a se stesso. In più dal punto di vista politico questo tipo di risposta dà la possibilità di creare tutta una serie di angosce e paure che conosciamo bene e che si sono già viste in passato. Forse è un male inevitabile ma se insieme a questo non si crea finalmente un pensiero un po’ più concreto sul carcere tra cinque anni saremo esattamente al punto di partenza.
Quale tipo di intervento servirebbe?
Servirebbe un intervento strutturale. Bisogna pensare se questo vuole essere uno Stato dell’ipercontrollo di qualsiasi comportamento individuale e collettivo o se si vuole scommettere su un progetto sociale di largo respiro, cosa che sembra purtroppo molto difficile al momento. Bisogna reinvestire sul welfare penale e non assecondare sempre l’ossessione per la sicurezza.
Quali dovrebbero essere i punti chiave di un intervento strutturale?
In carcere ci sono progetti che già dimostrano come è possibile creare condizioni di vita positive, nonostante la situazione sia tragica. Esistono già progetti di eccellenza che anche nella logica attuale potrebbero dare esiti importanti. Un vero intervento strutturale dovrebbe rivedere l'intero modello.
Rafforzamento delle pene alternative e depenalizzazione?
Certamente sì, ma il discorso fondamentale è quello che ruota intorno al modello Abreu. Idea di poter uscire per una prevenzione molto radicale capace di avere effettività ed esiti sotto gli occhi di tutti. Sulle orme di quel progetto. In Venezuela il maestro Josè Antonio Abreu ha messo in mano uno strumento a ragazzi dipendenti dal crack, a bambine prostitute, a giovani appartenenti a pericolose gang e ha insegnato loro a far musica. Da quel garage è nato El Sistema, 350.000 giovani, ragazzi, bambini che hanno creato 120 orchestre giovanili e un centinaio di orchestre infantili salvando tante vite dalla droga, dalla delinquenza, dalla galera. Per avere risultati importanti non serve la repressione ma le idee e progetti di prevenzione sociale.
La mediazione può aiutare?
La mediazione può avere delle funzioni deflattive del sistema penale però è uno strumento che può riguardare un numero piuttosto contenuto di casi. La mediazione certamente lavora con efficacia sugli effetti distruttivi di alcuni conflitti che hanno prodotto reati. Purtroppo la sperimentazione, soprattutto per quanto riguarda gli adulti, è ancora ferma ai blocchi di partenza. Ma le ricerche internazionali fatte finora ci dicono che sia per gli adulti e sia per i minori i tassi di recidiva di chi partecipa ai progetti di mediazione si abbassano drasticamente. Ma la parola chiave per risolvere il problema alla radice è coinvolgere. Il vero impatto lo avrebbe il costruitire progetti sociali in cui coinvolgere soprattutto i giovani in esperienze esistenzialmente esaltanti e totalmente lontane dalla logica del penale.