Cassazione, assolto lavoratore che disse: "Che azienda di m**da"
“Che azienda di m**da”, lavoratore assolto dalla Cassazione. E la Corte UE: “Obbligo misurazione oggettiva degli orari d’impiego”
Corte di Cassazione italiana e sindacato spagnolo lanciano la volata al ritorno sperato dei diritti dei lavoratori, in sede europea e Nazionale
Di Andrea Lorusso
Due storie slegate tra loro, che però ricuciono un po’ i fili di una giustizia strappata in questi anni, ovvero quella della tutela dei diritti dei lavoratori, massacrati da due decadi di globalizzazione e da leggi che hanno depauperato la contrattazione collettiva. Non dimentichiamo mai il Governo Monti e Renzi, che tra austerità e pseudo-sinistra hanno introdotto normative come il famigerato Jobs Act.
Partiamo dal caso italiano. La Corte di Cassazione ha dato ragione ad una guardia giurata licenziata perché, di fronte all’impossibilità di ottenere il CUD dalla propria azienda, aveva sbottato: “Che azienda di m**da.” I Supremi Giudici hanno ordinato il risarcimento: “Prima di licenziare qualcuno perché in un momento di rabbia e disappunto si è lasciato andare a insulti nei confronti del datore di lavoro o dell'azienda che lo ha assunto, occorre controllare se il contratto di categoria prevede tra gli obblighi dei dipendenti il dovere ‘di stima’ nei confronti del datore o dell'impresa. In genere, infatti, i lavoratori sono tenuti solo ‘all'osservanza dei doveri di diligenza e fedeltà’.”
Già la Corte d’Appello di Roma nel 2017 aveva giudicato illegittimo il licenziamento ed ora arriva il sigillo definitivo all’interpretazione della norma: "L’espressione utilizzata non appariva suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale in quanto del tutto priva di attribuzioni specifiche e manifestamente disonorevoli tali da determinare il venir meno, ragionevolmente, del rapporto fiduciario o di essere lesiva del decoro dell'impresa pur avendo tale espressione usata travalicato i limiti della correttezza".
Tuttavia però a causa della legge Fornero del 2012, che già limitò di parecchio i casi – prima dell’arrivo delle norme Renzi sopracitate – di reintegro, l’ex dipendente dovrà accontentarsi di un indennizzo economico.
La Corte UE invece, grazie ad un esposto dei sindacati spagnoli per delle vertenze Nazionali, ha stabilito l’obbligo da parte dei datori di lavoro di certificare in maniera idonea ed oggettiva l’orario effettivamente svolto dai dipendenti. Questo, sia per essere più stringenti con quanto previsto dai CCNL di categoria, sia per la retribuzione degli straordinari.
L’Italia ad esempio è sopra la media europea di 30 ore settimanali d’impiego. Quindi per la giustizia europea è “essenziale per stabilire se la durata massima settimanale di lavoro comprendente le ore di lavoro straordinario e i periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale sono stati rispettati”, dotarsi di una normativa nazionale che obblighi tutti i datori a far timbrare il cartellino.
Indicazioni importanti, che danno spunti fondamentali al Ministro del Lavoro Di Maio, impegnato nella battaglia per il salario minimo orario e per l’introduzione di un nuovo codice del lavoro. Non vorremmo misure di bandiera, zoppe, perché non basterebbe aumentare gli importi orari con dipendenti che all’improvviso si troverebbero “solo formalmente” a lavorare meno ore, in barba all’aumento dei salari.
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