Cronache
Il grande errore dello ius soli
Di Gaetano Scatigna Minghetti
Globalizzazione, meticciato, transculturalità, identità, jus soli costituiscono l’ossatura, l’impaginazione di un vocabolario le cui parole hanno assunto un onnipervadente ruolo nel vissuto quotidiano di ciascuno, quasi una gabbia nella quale è rinserrata l’anima, la mente che, come obnubilata, cerca però un qualcosa, un solido ormeggio di cui si sente defraudata; come se qualcuno l’avesse derubata, ritrovandosi spaesata senza che nessuna bussola sia in grado di aiutarla ad orientarsi nel mare procelloso di questi giorni, in cui in Parlamento e nei circoli intellettuali più accreditati ed engagé si discute di jus soli, di multiculturalità, d’ identità italiana come di una artificiosa creazione che sarebbe necessario cancellare per fare posto ad una indefinita apertura “a credito” della quale l’attuale generazione degli Italiani, e, in specie, quelle a venire, trarranno un incommensurabile beneficio di non si sa quale consistenza e natura.
Publio Virgilio Marone, il timido ma possente poeta originario di Andes –romano di elezione per necessità politica e scelta di vita- , tra le altre proprie creazioni poetiche , compose, com’è noto, l’Eneide, il poema nazionale dei Romani, il cui assoluto protagonista risponde al nome di uno degli eroi troiani più gloriosi e nobili, Enea, figlio di Anchise -discendente diretto di Dàrdano-, e della dea Afrodite.
In memoria di questo suo antenato, proveniente dalla città etrusca di Cortona -secondo un racconto mitologico di tradizione italica- ed in seguito trasmigrato in Frigia, ecco che Enea, il pius Aeneas, seguendo l’indicazione dei fati, allorchè il superbo Iliòn fu combusto, si mise in viaggio con tutti i suoi per ricercare “l’antica Madre”, l’Italia, la terra atavica che aveva fornito il DNA, il sangue, ed aveva plasmato i lineamenti caratteriali ed i tratti somatici alla sua stirpe resa sacra dagli amori della divina Afrodite e divenuta gagliarda dalle sovraumane imprese di invincibili eroi.
A differenza di Ulisse, che dopo la guerra di Troia e la distruzione della città ad opera del suo inganno del cavallo di legno da lui architettato per abbattere, finalmente, la potenza della città della Troade , agognava a raggiungere la sua Itaca -come ciascuno di noi anela, quasi al termine della propria esistenza, l’Itaca dei propri sogni, la terra promessa, in particolar modo ai cristiani, quella del Cielo, sin dalla venuta al mondo, soprattutto con l’aspersione dell’acqua lustrale durante il ritopresso il fonte battesimale- , Enea, al contrario dell’eroe acheo , non ha da raggiungere alcuna Itaca, non ha da quietarsi delle estenuanti fatiche di una guerra ossidionale lunga 10 duri anni! Egli ha combattuto, si, eroicamente, per la difesa della sua patria attuale, si è strenuamente speso per evitare alla famiglia, a Iulo, ad Anchise, a Creusa, un futuro contessuto di schiavitù e di coercizioni, bagnato da lacrime di disperazione e di dolore ma, alla fine di tutto , al termine di un conflitto che presenta tutti i crismi di una fuoribonda contesa passionale, non disarma affatto, non abbandona la lotta serrata alla quale ha partecipato da protagonista, sia pure avolte defilandosi , perché lui, Enea, figlio di Anchise, discendente dell’italicoDàrdano, ha un altro cammino da percorrere, un'altra mèta da raggiungere: una meta che possiede un’aura magica e personale, ossia il raggiungimento virtuale,metafisico, ma al tempo stesso molto concreto e materiale dell’identità, uno dei più essenziali carismi che imprimono l’originario e primordiale stigma dell’uomo singolo ed alla stirpe dell’uomo tutta intera. Ed è per ritrovare la propria identità e la primigenia essenza che la sostanzia, che Enea si avventura attraverso mari e terreostili e sconosciute per ritrovare se stesso ed il se stesso dei propri padri e dei capostipiti, ed anche dei propri discendenti, che egli combatte impedimenti ed abbatte ostacoli, affinché possa dire un giorno: io sono questa persona e non altri; io sono questo singolo essere e non mi posso, né mi possono confondere con i miei similiperché io ho una mia esclusiva identità fatta tale dalla storia della mia famiglia e mia personale, con il mio coraggio e la mia codardia , con i miei dolori e le mie gioie più intime e palesi, con la mia cultura, i miei studi, le mie convinzioni , il mio credo religioso e civile; insomma, con tutto quello che ha fatto di me ciò che sono ora e tutto ciò che in futuro sarò io e saranno i miei figli ed i figli dei figli con un patrimonio spirituale e genetico che mi è stato trasmesso da mio padre e da mia madre e, prima di loro, dai miei ascendenti sia dei rami genealogici maschili che di quelli femminili, in un’ armonica coalescenza di tanti atti d’amore attraverso le generazioni, che sarebbe un delitto grave voler cassare con un tratto di penna o con un cogente articolo di legge.
In ultima analisi, la fondazione di un nuovo umanesimo che salvaguardi, vichianamente, la storia dell’Occidente così come si è venuta formando nel corso dei millenni, dando contestualmente l’imput alla nascita dell’uomo moderno e contemporaneo che ha sempre guardato in alto ma che comunque non ha mai perso di vista la concretezza del vivere e la certezza del futuro. Magistra Barbaritas, si deve affermare come per il Medioevo? Forse! Ma ancor di più Maestra Roma con le sue leggi, la sua civiltà, la sua storia.
Oggi, tempi di ammiccante ambiguità, di trans-gender, di trans-cultura, di trans-tutto, novelli Enea del terzo millennio, siamo chiamati ad intraprendere il nostro nostos identitario per riaffermare questo principio: il principio della vita e dell’identità, che è stato smarrito per andare dietro a stravolgenti mode di morte dell’uomo e di morte della civiltà dell’Occidente, nata dalla cultura ellenica e latina e corroborata, in seguito, da un evento straordinario, incisivo: la nascita di un Bambinello Divino, in un freddo presepe di un anonimo, sperduto centro demico del Vicino Oriente: la piccola spoglia Betlemme.
E’ giunto il momento, dunque, di tornare al suo messaggio, alla sua “buona novella”, pura, semplice, gratuita, disinteressata con la quale, nel mondo, continua,ancora oggi, una matànoia, un totale capovolgimento, lasciando da parte tutti gli arzigogoli, le incrostazioni teologiche e le sovrastrutture ideologiche che, finora, ne hanno inficiato l’essenza matetica e l’humus pedagogico.
Solo in questo modo sarà possibile superare l’impasse che si è venuta a creare in questi anni che tanti cerretani hanno furbescamente voluto generare per mettere in crisi la Chiesa, la Famiglia, la Società e, con esse, il Mondo.