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Cronache
Milano violenta, parla l'avvocato Marco Valerio Verni

Riprendendo parte di un articolo uscito sul Corriere giorni fa, e qui di seguito riportato a stralci, come da fonte: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/19_luglio_30/milano-pusher-aggredisce-poliziotti-ma-patteggia-condanna-torna-libero-6f0c8956-b293-11e9-836f-760707711764.shtml?refresh_ce-cp, si evince un “singolare” epilogo giudiziario su cui abbiamo chiesto un parere al noto avvocato Marco Valerio Verni, con il quale abbiamo approfondito “tecnicamente”, e con dovizia di particolari, lati e sfaccettature che porteranno il lettore a delle considerazioni piuttosto emblematiche. Ma vediamo in sintesi cosa riposta l’articolo prima di passare al confronto con il professionista forense:        

  

Davanti al giudice per le «direttissime», sabato mattina in Tribunale a Monza, si siede un uomo, 29 anni, nigeriano, arrestato per spaccio (aveva addosso 40 grammi di marijuana) e resistenza (ha scalciato, picchiato e insultato i due poliziotti che lo hanno fermato). Nel passato della stessa persona, cristallizzati negli archivi di polizia - quindi arresti e denunce - ma non ancora in sentenze passate in Cassazione, si dipana una storia criminale che va dai precedenti «specifici» (spaccio e resistenza e violenza contro pubblici ufficiali), alla rapina, alla violenza sessuale. A rappresentare l’accusa in udienza non c’è un pubblico ministero, ma un vice procuratore ordinario, e non chiede al giudice che l’imputato resti in carcere. Parte da questo primo passaggio un rapido percorso giudiziario che può essere preso ad esempio come risposta a una domanda che spesso rimbalza nell’opinione pubblica: quando viene arrestata una persona per un crimine grave e ci si chiede perché, nonostante molti precedenti, sia stata poco o nulla in carcere. Nella tarda mattinata di sabato, infatti, il nigeriano K.J. esce dal Tribunale da uomo libero, dopo aver patteggiato un anno di condanna e aver ottenuto la sospensione della pena.


Venerdì i poliziotti della Volante del commissariato di Sesto San Giovanni intervengono in un parco vicino viale Fulvio Testi per la segnalazione di una rissa con alcune donne aggredite (e infatti una donna verrà curata per un taglio al polpaccio provocato da un coccio di bottiglia); gli agenti notano il nigeriano che scappa in bici; lo raggiungono, ma per fermarlo devono incassare calci e pugni, oltre insulti del genere «ti ammazzo, ti taglio la testa». Poi trovano i 40 grammi di marijuana nelle tasche dell’uomo (entrambi gli agenti avranno 10 giorni di prognosi in ospedale per le contusioni). Il giudice però ritiene che le aggravanti di questa resistenza siano compensate dalle attenuanti generiche, anche per «le precarie condizioni di vita dell’imputato (in attesa di asilo politico)». Il calcolo della pena dunque, considerando anche lo sconto legato per legge al patteggiamento, arriva a un anno di reclusione.


Quella pena viene poi sospesa «trattandosi di soggetto incensurato (nessuna condanna ancora passata in giudicato, ndr ) rispetto al quale è possibile una prognosi favorevole in ordine alla commissione di nuovi delitti». Una sorta di atto di fiducia nel fatto che la persona possa tornare sulla «retta via».

Per bloccare l’uomo durante l’arresto, data anche la sua corporatura e la sua agitazione, è stato necessario l’aiuto anche di una seconda Volante. L’arrestato ha continuato a urlare e minacciare anche una volta portato in commissariato, mentre i poliziotti facevano i test sulla sostanza per accertarsi che fosse droga.

 

Intervista

 

Avvocato, cosa pensa della decisione di cui in commento?

Che le devo dire: al netto della clausola di stile, secondo cui non conosco le carte processuali, questo tipo di decisioni, in linea generale, lascia francamente sconcertati, dal punto di vista delle vittime e degli operatori di polizia.

Leggere la dinamica dei fatti, connotata, tra l’altro, da botte ed insulti che sarebbero stati rivolti agli agenti intervenuti, ed apprendere che, tutto ciò, sembri, in termini di pena, essere sostanzialmente passato in secondo piano, perché il nigeriano accusato viveva in precarie condizioni di vita, in attesa di asilo politico, è disarmante. Se davvero così è andata, si rischia davvero di creare, o meglio, aumentare la sfiducia nelle persone, nel cui nome (il popolo) la giustizia dovrebbe essere amministrata.

Due considerazioni a latere: la prima, secondo cui siamo in presenza dell’ennesimo richiedente protezione internazionale, che tanto povero e bisognoso di essere accolto non sembra affatto; e che, come in altri numerosissimi casi, sembra vivere, giunto da noi, di espedienti criminosi; la seconda, che le vittime dei fatti per cui sono dovuti intervenire gli agenti, nel caso di cui ci stiamo occupando, appaiono essere, innanzitutto, delle nigeriane. Quindi, si conferma l’assunto secondo cui, quando si afferma di dover contrastare con forza l’immigrazione irregolare, lo si fa a salvaguardia di tutti, a prescindere dal colore di pelle.

 

Se poi, come a Macerata, accadono episodi di “giustizia fai da te”, allora, non ci si deve poi tanto stupire.

Non voglio cadere nella sua provocazione, anche se, certamente, la sfiducia nelle Istituzioni può portare a degli effetti collaterali.  E’ un fatto che la magistratura sembri aver perso, in diversi casi, la sua funzione di protezione sociale, con un abuso, a volte, di strumenti, che andrebbero meglio calibrati.

A cosa si riferisce?

Innanzitutto, alla famosa sospensione condizionale della pena. Mi lasci sfatare un mito: essa non è affatto obbligatoria. L’art. 163 del codice penale, in cui essa è prevista, recita infatti che il giudice “può” sospendere l’esecuzione della pena, e ciò in base ad una valutazione discrezionale fondata su una serie di criteri rigorosamente indicati, tra cui la personalità dell’imputato, le modalità dell’azione criminosa posta in essere, i suoi precedenti giudiziari e le sue condizioni di condotta e di vita.

Non mi sembra, da quel che emerge dalle cronache, che questo signore, fosse esente da altri fatti criminosi (sebbene, a quanto pare, non ancora accertati con sentenze definitive), precedenti a quello da cui è scaturita la decisione di cui stiamo discutendo.

Presumere, quindi, che l’imputato in questione si possa astenere da comportamenti delittuosi futuri e, anche in base a ciò, arrivare a sospendergli la pena, mi sembra francamente opinabile.

Tra l’altro, se non ricordo male, avvocato, anche con Innocent Oseghale, il nigeriano condannato all’ergastolo con isolamento diurno lo scorso 29 maggio, per l’omicidio aggravato della povera Pamela Mastropietro, accadde una cosa simile.

Si. Anche lui, effettivamente, nel 2017, era stato condannato per spaccio di sostanze stupefacenti.

Il pubblico ministero, all’esito del giudizio abbreviato, aveva chiesto la condanna a due anni ed otto mesi di reclusione. Ma il giudice decise di riconoscere congrua una pena, in sentenza, corrispondente a soli quattro mesi, disponendo, anche lì, la sospensione della stessa “potendosi presumere, sulla scorta dell’effetto dissuasivo spiegato dalla presente sentenza, che l’imputato si asterrà dalla consumazione di nuovi reati, può essere lui concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena”. Salvo poi, qualche riga dopo, riconoscerne in concreto la pericolosità sociale e decretarne l’espulsione dal territorio italiano a pena espiata. Un enorme controsenso.

Si è visto, poi, qualche mese più tardi, cosa Oseghale sia stato in grado di fare.

Ritiene la magistratura in qualche modo responsabile, quando accadono questi errori?

Guardi, come dicevo prima, la sospensione condizionale della pena è rimessa alla valutazione discrezionale del magistrato. Se, in linea generale, risulta in diversi casi una scelta ben fatta, dal momento che i “beneficiari”, capito l’errore e la seconda possibilità che gli vien concessa, non commettono più altri reati, è vero pure il contrario, purtroppo.

Ora, se da una parte, è vero che i giudici sono costretti a lavorare con enormi carichi di lavoro, ed i ruoli di udienza sono, in diversi casi, a dir poco vergognosi (decine e decine di cause in un solo giorno), per cui le decisioni, a volte, possono inevitabilmente risentire di questo, per altro verso, se si decide di lasciare in libertà una persona che si è macchiata comunque di un crimine, perché si pensa che non lo rifarà, e poi questa, invece, smentisce la previsione del magistrato, credo che, soprattutto nei casi più eclatanti, dovrebbe intervenire il Consiglio Superiore della Magistratura per valutare l’eventuale “leggerezza” del giudicante nell’aver preso quella decisione. Ci si assume delle responsabilità, nel bene e nel male. E, se si sbaglia, se ne dovrebbe rispondere. Qui si ha a che fare con la sicurezza delle persone, e purtroppo, il caso di Pamela da lei richiamato, è il caso più tragicamente evidente ed eloquente. Ma vi sono tanti altri casi che, pur non avendo, fortunatamente, raggiunto quella soglia di diabolica gravità, hanno comunque causato vittime. E’ nell’ottica di queste ultime, che spesso difendo, naturalmente, che parlo.

Mi consenta una ultima domanda, riguardo un tema di cui lei, ormai, è un riconosciuto esperto: nel caso di cui abbiamo parlato finora, ad essere giudicato è stato, ancora una volta, un nigeriano. La loro presenza, in Italia, è sempre più marcata e, purtroppo, pericolosa, quando parliamo di mafia. Possiamo fare un punto della situazione, in sintesi?

Parto da quanto affermato dalla Direzione Investigativa Antimafia nel suo rapporto riguardante la propria attività svolta ed i risultati conseguiti nel secondo semestre del 2018, pubblicato recentemente, la quale ha sottolineato, in più passaggi, ed in maniera chiara, netta, ed inequivocabile, lo stretto connubio tra immigrazione irregolare e presenza, sul nostro territorio, di organizzazioni criminali straniere, mafia nigeriana in primis. Una mafia sempre più radicata e violenta. Tra le peggiori al mondo. Contro cui, finalmente, si stanno ottenendo i primi grandi risultati, anche grazie al numero crescente di collaboratori (ossia, spesso, donne che, rese schiave, decidono, con coraggio, di ribellarsi e denunciare alle Autorità, venendo poi sottoposte, naturalmente, al relativo programma di protezione).

Ora, sia chiaro, non tutti i nigeriani sono malavitosi, ma vi sono dei dati che devono far riflettere: in primis, quello secondo cui, tra le principali nazionalità non comunitarie, proprio quella nigeriana rileva il più basso tasso di occupazione (il 45,1% a fronte del 59,1% dei non comunitari) ed il più alto tasso di disoccupazione, (il 34,2%, a fronte di una media del 14,9% dei non comunitari); in secundis, quello riguardante le rimesse di denaro dall’Italia verso la Nigeria, nelle quali oltre alla quota, certamente preponderante, di natura lecita, che attesta l’operosità della comunità nigeriana, si celano sicuramente anche i proventi di attività illegali (nel 2018, le rimesse, pari a 74,79 milioni di euro, sono risultate il doppio di quelle del 2016).

Inoltre, è acclarato che la criminalità nigeriana si sia sviluppata al di fuori della madrepatria, sfruttando i flussi migratori, attraverso i quali abbia altresì dato vita ad una intensa attività di traffico di esseri umani (che, vorrei ricordarlo, è un crimine), di sfruttamento della prostituzione e di spaccio di sostanze stupefacenti (ma non solo), secondo precise e capillari reti criminali transnazionali.

Forse, con una visione più qualificata ed approfondita, sistemica e sistematica del fenomeno, si valuterebbero anche meglio alcune decisioni che riguardano l’ordinario. Quello che ancora sembra mancare, in certe realtà, è la capacità di comprendere che alcuni reati, probabilmente, non andrebbero indagati e perseguiti come a sé stanti, ma incastonati in una visione d’insieme che, probabilmente, permetterebbe di arrivare a scoprire che, in realtà, essi siano da inquadrare in veri e propri contesti criminali organizzati. Mi riferisco, naturalmente, alla mafia nigeriana, ma il discorso, naturalmente, non cambierebbe (ed anzi, è mutuato da esso) se si trattasse di quella, anzi di quelle, nostrane.

Si può battere la mafia nigeriana?

A lungo andare, credo di sì. La battaglia è certamente difficile: da una parte, abbiamo un know-how, tecnico e giuridico, molto importante che ci deriva dal contrasto pluridecennale alle nostre mafie; dall’altro, ci sono dei fisiologici (ed incolpevoli) gap investigativi, perché, ad esempio, è impossibile infiltrare agenti italiani in queste organizzazioni, per ovvi motivi.

Importanti risultati già ad oggi, comunque, si sono ottenuti, ma il fatto che per lungo tempo essa sia stata non vista, sottovalutata, sottaciuta, nascosta, ha permesso che essa potesse insediarsi bene e ramificarsi anche da noi, oltre che in tanti altri Paesi d’Europa e del mondo.

Un aiuto efficace può certamente provenire dai collaboratori, come testimoniato dai recenti processi di Palermo, ad esempio.

Soprattutto donne che decidono di scappare dalle sevizie, dallo sfruttamento, dalla riduzione in schiavitù in cui sono poste e, con disperato coraggio, denunciano i loro aguzzini: spero che siano sempre più numerose, queste persone, che si devono certamente fidare sia dell’abilità dei nostri investigatori, sia dello Stato nel suo insieme che, sicuramente, saprà proteggerle ai massimi livelli di sicurezza.

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