Culture
La commedia nera di Enrico Brizzi


LA TRAMA - Il quarantenne Umberto Ripamonti è l’unico erede della Rigorex, una delle più insigni ditte della nazione nel campo dei serramenti in alluminio. Tra lui e la stanza dei bottoni si frappone però sua madre, la volitiva signora Ester, un passato da reginetta di bellezza e un presente da cinica capitana d’industria. Umberto, intenzionato a conquistarsi l’autonomia economica e la possibilità di portare avanti la sua sghemba storia d’amore con Vanessa, medita quindi di prendere una pericolosa scorciatoia: con l’aiuto dell’amico d’infanzia Cabìr Polentarutti che negli anni si è costruito un solido curriculum da malvivente, prova a estorcere un’ingente cifra alla ditta di famiglia. L’insano proposito dovrà però fare i conti con il carattere e l’ascendente della madre, ancora una volta determinata a restare regista della vita propria e di quelle altrui.
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(per gentile concessione di Barbera editore)
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Cabir portava un cognome che, a Borgo, non faceva ridere nessuno. La razza malnata da cui discendeva era arrivata dopo la guerra, sotto forma di una coppia con una marea di figli piccoli che, a tutta prima, si era sistemata in una baracca in fondo a via del Pantano. Qualcuno giurava che erano scesi dalle montagne del Friuli, altri li dicevano con disprezzo Cimbri, e non si sarebbero mai spente del tutto le voci che li volevano zingari della tribù dei calderai. In ogni caso il capostipite Mamante Polentarutti era un ubriacone dai capelli rosso fuoco che portava due vistosi anelli alle orecchie, e si guadagnava da vivere girando la contrada su un carro trainato da un cavallo, al grido di «Solfanaio! È arrivato il solfanaio! Raccoglie ferri vecchi, arrota lame e ripara ombrelli!» La moglie, una donna procace che lavorava come lavandaia, attirava le attenzioni di molti uomini e, forse, ne ricambiava troppe. Una sera, rientrando dal suo giro, Mamante l’aveva sorpresa al fiume insieme a un giovane fattore dei dintorni: ubriaco com’era, non ci aveva pensato due volte a scagliarsi su di loro con un’ascia in mano. L’uomo era riuscito a sfuggirgli a nuoto, ma lei non si era azzardata a scendere in mezzo alla corrente, e il marito l’aveva massacrata sulla riva, infierendo sino a spiccarle la testa dal corpo. Polizia e Carabinieri erano accorsi da tutta la provincia per dargli la caccia, ma avevano trovato Mamante Polentarutti quando ormai si era appeso a un albero nel bosco di Passo Battaglia, la testa della moglie ai propri piedi. I figlioli erano stati dispersi, affidati ciascuno a una diversa istituzione benefica. L’unico a tornare, una volta maggiorenne, era stato William, un ragazzo silenzioso con gli stessi capelli rossi del padre. All’alba degli anni Sessanta aveva trovato facilmente lavoro alla Rigorex come fresatore, e i compagni di lavoro lo trovavano affidabile e scrupoloso: nessuno sospettava che, dentro di lui, si celasse il germe di una follia non meno atroce di quella messa in atto dal genitore. William Polentarutti aveva sposato una collega operaia che, nel giro di due anni, gli aveva dato una figlia e un paio di gemelli. Se i ragazzi erano liberi di scorazzare per la strada sino a notte fatta, la figlia viveva come una reclusa. Non le era consentito partecipare alle gite scolastiche né alle attività sportive e, quando si ritrovò incinta a quattordici anni, prese corpo l’orribile sospetto che a ingravidarla fosse stato il genitore. I servizi sociali della Provincia si interessarono al caso in via ufficiale, ma la ragazza non ammise la violenza, e sua madre si limitò a dichiarare che doveva trattarsi di un miracolo, ché la figlia non conosceva uomo. Il piccolo Cabir, in ogni caso, venne registrato come figlio di padre ignoto, assumendo il cognome della casata direttamente dalla giovane madre. Fin da piccolo, nonostante il fisico ossuto, c’era qualcosa in lui in grado d’intimidire i coetanei: istruito dall’esempio dei gemelli, rubava merende, giocattoli, giacche e, nel caso le vittime protestassero, gli bastava rivolgere loro il suo minaccioso sguardo caprino perché deponessero ogni velleità di denunziarlo agli insegnanti. Ai più arditi riservava un repertorio di colpi scorretti che spaziava dalle ditate negli occhi ai morsi. Bocciato in prima media, a dodici anni Cabir Polentarutti fumava le Diana rosse, a tredici provò per la prima volta l’ebbrezza dell’hascisch, e l’anno dopo, a cavallo d’una vespa rubata, ne aveva già avviato un piccolo commercio ai Giardini Comunali. Nel frattempo la nonna era morta, i gemelli si erano guadagnati una solida nomea di balordi, la povera madre di pazza, e il vecchio William, che di certo era suo nonno e fors’anche suo padre, aveva cominciato a salutare ogni tramonto con sollievo. «Un giorno in meno, sia lodato il demonio». Lui appassiva, ormai svuotato da ogni possibilità di fare altro male, e la nuova generazione scalpitava per prenderne il posto...
(continua in libreria)