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Culture
"Su questa pietra". L'ex magistrato andato a morire in Svizzera. Il LIBRO

Mentre in Francia si discute sul caso di Vincent Lambert, il tetraplegico in stato vegetativo al centro di una decennale battaglia legale (nella foto a lato la manifestazione di fronte a Montecitorio), nelle librerie italiane fa riflettere il volume "Su questa pietra. Storia di un uomo che andava a morire". Centosessantotto pagine in cui il fotoreporter Sergio Ramazotti racconta le ultime ore di un uomo che ha scelto di finire la sua vita a Basilea. E' l'ex magstrato Pietro D'Amico, 62 anni, già procuratore capo di Catanzaro coinvolto (poi ci fu l'archiviazione) nell'inchiesta "Why not" dell'allora pm Luigi De Magistris. Una vicenda che lo segnò per sempre. Lasciò la magistratura e sprofondò nella depressione. Anni dopo Sergio Ramazzotti ha deciso di eseguire la sua volontà e ha raccontato la sua storia in un libro.  

A partire da quel giorno dell'aprile 2013 in cui è salito a bordo dell'auto, direzione Svizzera, e ha conosciuto l'ex magistrato per la prima volta. D'Amico gli disse di prendere la borsa con tutte le cartelle cliniche di leggere. "Vedi come sono messo?", disse. Una grave malattia neurodegenerativa e la prospettiva di morire tra sofferenze atroci e umiliazioni inaccettabili.

Fra i sintomi anche un'ipersensibilità della cute che gli impedisce il contatto con l'acqua. L'autore ricorda ancora l'"Afrore da bestia selvaggia" di quell'uomo diretto a Basilea per sottoporsi al suicidio assistito. Alla fine del racconto, come scrive Libero, il fotoreporter consegna ai lettori un quesito: Pietro D'Amico voleva che lui raccontasse la storia di un malato terminale che anticipa la fine o quella di un uomo "che ha ancora vita dentro di sé e tuttavia sceglie la morte?".

IL LIBRO - Durante il suo lavoro di fotografo e reporter, Sergio si imbatte in un’occasione inaspettata e spiazzante: accompagnare in Svizzera una persona che sta andando a morire. L’uomo, affetto da una grave malattia neurodegenerativa, ha deciso di ricorrere al suicidio assistito e, dopo una lunga trafila medica e burocratica, ha finalmente ottenuto la “luce verde”, il permesso di morire. Vuole che Sergio racconti la sua storia, quella di chi è “costretto a umiliarsi, viaggiando lontano da casa come una specie di clandestino, per poter esercitare fino alle estreme conseguenze il proprio sacrosanto diritto al libero arbitrio, che nel nostro paese ci viene negato”. Ma non vuole avere un nome né un volto, nessuno deve poterlo riconoscere. Di fatto, per Sergio significherebbe trascorrere con lui le sue ultime quarantotto ore sulla Terra.

Sergio accetta. Questa è la storia vera di quelle quarantotto ore e dei millequattrocento chilometri che i due uomini hanno percorso insieme: dal momento in cui si sono stretti la mano fuori da un aeroporto del Sud Italia fino a quello in cui l’uomo gli ha rivolto le sue ultime parole sulla poltrona di un monolocale di Basilea. È questa la “clinica svizzera” in cui Erika da otto anni accompagna i pazienti al suicidio, dopo essersi scambiata decine di lettere con ognuno di loro e averli incontrati e visitati per concedere loro la “luce verde”.

suquestapietra
 

La prospettiva da cui Ramazzotti racconta la vicenda è in tutti i sensi unica: da una parte per la sua posizione irripetibile di narratore-testimone, dall’altra per il suo sguardo delicato, rispettoso e capace di mettersi continuamente in gioco. Con scrittura elegante e densa, riesce, in questa storia vera che a tratti pare sconfinare nel romanzo, ad accendere in noi un rovello di riflessioni e domande di portata universale, un duello etico interiore, e mette in moto un’altalena di emozioni contrastanti che culminano con la sorpresa per il dénouement finale: un nome, un cognome e uno spaventoso segreto che sono un vero e proprio colpo di scena, una scoperta capace di rimettere in discussione tutte le certezze che avevamo accumulato fino a quel momento.

L'AUTORE - Sergio Ramazzotti (Milano, 1965) è fotografo, reporter e scrittore. Ha vinto due volte il premio Enzo Baldoni per reportage da territori di guerra. Tra le sue pubblicazioni, i libri-reportage Vado verso il capo (1996), La birra di Shaoshan (2002) e Afrozapping (2006), tutti editi da Feltrinelli, e gli instant book Liberi di morire (Piemme, 2003) sulla guerra in Iraq e Ground Zero Ebola (Piemme, 2015) sull'epidemia di Ebola in Africa occidentale. È uno dei fondatori dell'agenzia fotogiornalistica internazionale Parallelozero.

Sergio Ramazzotti
"Su questa pietra"
Ed. Mondadori Strade Blu
Genere: Narrativa Contemporanea
168 pagine
Prezzo: € 17,00
 

LEGGI UN ESTRATTO SU AFFARITALIANI.IT - IL PROLOGO

L’ho incontrato per la prima volta il 25 marzo del 2011, da poco erano passate le nove. Era una bella mattina di sole, di quelle che invogliano a starsene in spiaggia, e lui andava a morire.
Mi aspettava in macchina fuori dall’aeroporto dove ero appena atterrato. Non voglio rivelare dove accadde, per quanto alla fine di questa storia risulterà evidente. Anzi, per molti già lo è, ma non voglio farlo comunque, non ancora. Diciamo che è uno di quei posti in Italia che finiscono nelle notizie in coda al telegiornale perché a marzo la gente fa già il bagno in mare, e in realtà non era nemmeno il 25 marzo, ho scritto un giorno a caso, anche il mese e l’anno. Se l’ho fatto c’è un valido motivo. E poi la data ha poca importanza, basta sapere che il secolo era il ventunesimo, il che rende tutto più pesante da digerire.
Però era una bella giornata di sole, questo sì.
Non si può dire che la nostra sia stata una conoscenza approfondita, perché quarantotto ore dopo quell’incontro il suo cadavere giaceva su una poltrona a millequattrocento e rotti chilometri dal luogo dove ci eravamo incontrati, e io ero in coda alla stazione a comprare il biglietto del treno che mi avrebbe riportato a casa.
Li abbiamo percorsi insieme, quei millequattrocento chilometri, senza lasciarci un momento. Benché non ci sia stato il tempo per diventare amici, lui è entrato nella mia vita per non uscirne mai più. Delle poche certezze che mi rimangono, una (la sola che vorrei non avere) è che non potrò mai dimenticarlo: per quello che mi ha detto, per la sua voce, per lo sguardo. Per la determinazione incrollabile che lo spingeva ad avanzare verso la meta. Per la puzza che mandava.
Soprattutto perché fin dal momento del nostro incontro sapevo esattamente – era stato lui a dirmelo – quando, dove e come sarebbe morto, e che sarebbe morto a sessantadue anni e trenta giorni. Stava andando in Svizzera, in una di quelle cliniche specializzate nel suicidio assistito, a porre fine alla propria vita. Aveva un appuntamento con la morte e aveva una famiglia, che non ha mai saputo del suo viaggio se non a cose fatte. Le sue ultime parole le ha dette a me: in pratica, a un estraneo.
Furono cinque, o meglio quattro, perché una era il mio nome. Disse: «Ti scorderai di me».
Se ne è andato lasciandomi, insieme a quelle parole, il peso di un’eredità che mi accompagnerà per sempre: «Non importa come mi chiamo» disse, «ma fa’ che non mi dimentichino, promettimelo, giuramelo su quanto hai di più caro». Quando mio padre mi portava a passeggio da bambino, spesso finivamo di fronte a un antico ossario che dava sul marciapiede. Imparai presto a memoria la scritta sul cartiglio fra gli scheletri e i teschi accatastati che ci guardavano dalla penombra oltre il vetro: Quel che sarete voi noi siamo adesso, chi si scorda di noi scorda se stesso. Mentre giuravo di perpetuare il suo ricordo, risentii dopo tanti decenni la muta invocazione di quegli scheletri, che allora non capivo.
Questa è la storia delle nostre quarantotto ore insieme, delle sue ultime quarantotto ore sulla Terra. La storia di come e per tramite di chi sono arrivato a lui, o lui a me. Di tutto quel che avrei voluto dirgli senza averne avuto il coraggio. Di quello che provo quando, dopo tutto questo tempo, penso a lui. Di come, quando ci penso, riesco ancora a sentire il suo odore.

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