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Culture
Un fiore con le radici nel futuro

di Luigi Nacci

«Si scrive lo sai per costruire la trappola», scrive Lello Voce, uno dei maggiori poeti italiani contemporanei, nella sua ultima opera, Il fiore inverso, (Squilibri, 2016, 15 €, con CD audio), composta insieme a Frank Nemola, maestro della tromba con centinaia di palchi alle spalle, molti dei quali divisi con Vasco Rossi. Che ci fanno assieme un poeta e un musicista? Semplice: la poesia come è sempre stata. Come lo è stata cioè per secoli ad ogni latitudine, prima di essere confinata in una lettura silente e solitaria. Per lungo tempo le nostre strade sono state popolate da recitatori di versi, autori di satire, cantori. Per lungo tempo poesia e musica hanno coabitato gli spazi pubblici, hanno aggregato, hanno messo in circolo saperi, tramandato memorie, molto tempo prima che venisse inventata la stampa. Che cosa fanno dunque Voce e Nemola con quest’opera? Tornano a fare ciò che era comune un tempo. Si può definire sperimentale o creazione di avanguardia ciò che appartiene saldamente al nostro passato?

La poesia è ritmo, «il ritmo è senso, un senso intraducibile in lingua con altri mezzi» ci ricorda l’insuperato Paul Zumthor, medievalista e studioso di poesia orale. E sul ritmo è fondato Il fiore inverso, così come tutta la produzione poetica vociana. «Un fiore sboccia inverso per correre un’altra piega, e al dunque farsi complice, mai semplice» scrive Voce nell’introduzione, riprendendo quanto scritto da un’altra colonna della poesia italiana, Gabriele Frasca. È un fiore piantato laddove sboccia la nostalgia del futuro, sì, proprio così: nostalgia del futuro. Perché il passato l’ho già visto, sta davanti ai miei occhi, mentre il futuro ancora non lo vedo, è nascosto, mi sta dietro, e di ciò che sta dietro sì che posso avere nostalgia.

Il futuro scandito dalle parole scritte-eseguite da Voce e dalla musica di Nemola com’è? Prima di tutto è geometrico, rigoroso, esattamente come la forma che lo esprime. Ma questo ordine, questo accordo millimetrico tra immaginazione, scrittura e esecuzione non è freddo, tutt’altro: «abbi cura di dissolverti / di negarti di disconoscerti di smentirti», sappi che «le parole sono febbre», che «è fatto di nervi il ritmo è fegato», che al necessario «lavorare tutti lavorare meno» fa seguito il «vivere tutti / morire meno». È parola chiara ma non semplice, è metronomo che ordina senza ingabbiare, è voce che si affratella alle nostre voci, è un futuro che ha senso – e ritmo – se desiderato insieme, se e solo se, citando un poeta amato e sovente citato da Voce, Piero Jahier, «tutti per uno / mano nella mano / dove si muore discendiamo».

È poesia performativa questa? Poesia orale? È spoken word? Spoken music? È poesia. Non essere partigiano né del suono né dell’inchiostro, parteggiare semmai per il suono dell’inchiostro, ripete da anni Voce. È poesia che abbisogna di una critica nuova, o antica, o nuovamente antica, capace di non limitarsi all’analisi testuale, di affrontare con strumenti diversificati tale complessità, ed è poesia composta pensando – a voce alta, sussurrata, con un filo di voce – a un pubblico che ancora non c’è. È poesia da leggere, da guardare e da ascoltare, da soli e con gli altri, nello spazio delimitato e privato della propria stanza e in quello aperto e pubblico della strada, della piazza. È poesia il cui testo su carta regge, si sostiene sulle sue gambe anche in quella condizione di mutismo e biancore della pagina, e questa è una differenza fondamentale rispetto al testo su carta delle canzoni dei cantautori. Regge ma acquista la sua pienezza nell’esecuzione, e la rotondità si ispessisce quando oltre alla voce compare la musica, costruita a partire dalla parola e con la parola, non ridotta a mero accompagnamento.

«Ogni sillaba al petto piantala tra gli occhi e il futuro», si legge e si sente in Disturbati dalla quiete, uno dei pezzi-testi-tasselli in cui ha messo lo zampino, o il fiato, anche la tromba del grande Paolo Fresu, e il cui titolo rimanda al nome del gruppo del giovane poeta di talento Alberto Dubito, scomparso prematuramente pochi anni fa e al quale è dedicato l’unico premio italiano per poesia con musica. Il noto Fresu da una parte e il giovane Dubito dall’altra, a testimoniare la volontà strenua di Voce, fin dagli esordi, di mescolare, di contaminare, di abbattere selciati e di non dimenticare. Altri artisti di talento partecipano all’opera: Claudio Calia, autore di fumetti, e Kento, rapper, nonché i musicisti Eva Sola, Adele Pardi, Luca Sanzò, Simone Zanchini e Dario Comuzzi. È superfluo citarli tutti? No. Perché la forza di quest’opera di poesia sta anche nella coralità, nell’accordare le distanze, nell’accomunare gli intenti. Ed è anche per ciò, probabilmente, che nell’ottobre scorso ha vinto uno dei più prestigiosi premi di poesia in Italia, il Premio Pagliarani. «In noi c’è dentro la voglia / di riassuefarci alla gioia, affermare la vita col canto», scriveva il mai dimenticato Elio. Quel “noi” ansioso di vita, di futuro, di principio speranza, non cessa di battere nella poesia di Lello Voce e dei suoi sodali.

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