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Economia

Di Tommaso Monacelli - www.lavoce.info

 

 

GLI USA E IL TETTO SUL DEBITO

Negli Stati Uniti, per legge, il debito dello Stato federale non può superare un certo limite massimo. Stabilito dopo la prima guerra mondiale, il limite vincola formalmente lo stock massimo di debito che il Tesoro americano può avere in circolazione. Raggiunto quello, per lo Stato non è più possibile indebitarsi per svolgere le proprie normali funzioni, quali pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici o semplicemente gli interessi sui titoli di Stato emessi in passato e venuti a scadenza.
 Il limite sul debito è paradossale per due motivi. Primo, è una peculiarità degli Stati Uniti. Secondo, è un numero assoluto, cioè espresso in dollari, e non in rapporto al prodotto interno lordo. Un semplice principio di teoria economica suggerisce che il livello assoluto del debito (che si tratti di una famiglia o di uno Stato) non ha molto significato. Quello che conta è quanto debito un agente possiede in rapporto alla sua capacità di ripagarlo, cioè la sua ricchezza (quindi, per lo Stato, il Pil).
 La crisi finanziaria del 2007-08, la conseguente recessione e le misure di espansione fiscale (soprattutto dal lato di maggiore spesa e trasferimenti) dell’amministrazione Obama hanno fatto crescere il debito pubblico federale oltre la soglia consentita per legge. Ciò è accaduto molte altre volte nella storia americana. Normalmente, però, il grande pubblico non ne sente nemmeno parlare. Quando il limite del debito viene superato, la Camera dei rappresentanti e il Senato approvano un incremento del limite massimo, normalizzando la situazione.
 Questa volta, però, l’innalzamento della soglia del debito è diventato una questione di mera contesa politica tra Repubblicani e Democratici. La ragione di fondo è il tentativo (secondo molti disperato) dei Repubblicani di sabotare l’avvio della riforma sanitaria dell’amministrazione Obama, sottraendole le necessarie risorse finanziarie.
 L’accordo tra le opposte fazioni è arrivato in extremis, permettendo anche di ovviare al cosiddetto government shutdown, cioè la chiusura di uffici e luoghi pubblici in seguito alla mancata approvazione del bilancio federale (in mancanza di tale approvazione, il governo federale non era più autorizzato a sostenere alcuna spesa, incluse quelle di routine per tenere aperti i parchi pubblici o permettere la visita della Statua della Libertà a New York).
 Si noti che shutdown del governo da un lato, e  limite legale sul debito dall’altro, sono due problemi distinti. Lo shutdown è un corollario pratico della mancata approvazione del bilancio federale di esercizio.  Non essendo approvato il bilancio, nessuna ulteriore spesa federale può essere autorizzata, incluse le spese finanziate con debito.  Supponiamo che il limite massimo legale sub sia 100. La mancata approvazione del bilancio non permette di aumentare il debito, anche se il debito corrente è, ad esempio, ad un valore di 80. Questa era la situazione raggiunta, ad esempio, nel 1996, quando i Repubblicani di Newt Gingrich imposero lo shutdown, senza che fosse stato raggiunto il limite legale sul debito. Nella situazione recente, invece, lo stock di debito aveva praticamente già raggiunto il limite legale di 100 al momento della (mancata) approvazione del bilancio. Ma è stato solo un caso che i due problemi si siano sovrapposti.

DUE MESSAGGI DALLA CRISI

Nelle ultime settimane si è molto dibattuto sulle possibili conseguenze di un eventuale “fallimento” dello Stato federale. In una situazione normale, ogni Stato ripaga i propri debiti venuti a scadenza (oppure le cedole intermedie sui titoli di Stato) in buona parte emettendo nuovo debito. Nel caso in cui il limite sul debito non fosse stato innalzato, le alternative erano due. La prima, un repentino aumento delle tasse (o riduzione delle spese) per finanziare il pagamento dei debiti pregressi. La seconda, un vero e proprio default.
 È difficile pensare che un default sui titoli di Stato americani non avrebbe avuto conseguenze potenzialmente catastrofiche, in particolare sui mercati interbancari. La ragione essenziale è che i Treasury Bills (o buoni del tesoro federali) sono lo strumento finanziario più largamente utilizzato nelle operazioni di finanziamento delle banche, i cosiddetti contratti Repo (o repurchase agreement). In un contratto Repo, ad esempio, Bank of America vende al fondo pensione della General Electric 100 dollari di buoni del Tesoro, ricevendo in cambio un prestito. Allo stesso tempo, la banca si impegna a riacquistare gli stessi titoli, anche il giorno dopo, maggiorati di un certo interesse. Nell’operazione, Bank of America utilizza quindi i titoli di Stato come garanzia (“collateral”) per prendere soldi a prestito dal fondo pensione.
 Se lo Stato federale avesse dichiarato fallimento sui propri titoli, gli investitori (banche, assicurazioni, fondi pensione) avrebbero cominciato a dubitare del fatto che i Treasury Bills fossero ancora un porto sicuro per le loro operazioni. E avrebbero cominciato a vendere, facendone scendere il valore di mercato. Ma un minore valore di mercato avrebbe significato una ridotta capacità delle banche di utilizzare quei titoli come garanzia nelle loro operazioni di finanziamento. A questo punto molte banche avrebbero deciso, per poter ottenere comunque le risorse necessarie, di vendere altri titoli in loro possesso. Ma ciò avrebbe innescato una corsa al ribasso dei valori dei titoli simile a quella della recente crisi finanziaria, con gli esiti conosciuti.
 Ricordiamo che la crisi del “debt limit” segue quella recente, conclusasi nel gennaio 2012, relativa al cosiddetto “fiscal cliff”: cioè l’estinzione della massiccia riduzione di tasse stabilita da George W. Bush, che i Repubblicani volevano invece mantenere a ogni costo.
 Sono due i messaggi più generali che questi eventi trasmettono. Il primo è quello di incertezza crescente sulla capacità dell’amministrazione Usa di condurre una politica fiscale coerente, prevedibile e almeno parzialmente immune dalla polarizzazione della contesa politica. Come nel periodo della grande depressione, la recessione del 2007-09 ha prodotto un forte incremento della disuguaglianza economica e della polarizzazione politica. Ma è interessante notare che invece di portare movimenti quali Occupy Wall Street su posizioni più radicalmente contrarie al capitalismo e alla globalizzazione, ha invece radicalizzato le posizioni più conservatrici, in particolare intorno alle bandiere del Tea Party.
 Il secondo messaggio, forse più preoccupante, riguarda il ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale. Notoriamente, il dollaro è la moneta più ampiamente utilizzata per le transazioni internazionali tra banche, e i titoli di Stato americani sono il parcheggio per eccellenza per investimenti sicuri. Le recenti, continue, tensioni intorno alla politica fiscale americana hanno inflitto un ulteriore colpo alla credibilità del dollaro come valuta di riserva.
 La salvezza del dollaro, per ora, è probabilmente garantita dall’altrettanto discutibile credibilità dell’euro, afflitto da elementi strutturali di crisi che faticano a essere risolti. Ma è certamente vero che se dieci anni fa la probabilità che il dollaro potesse essere abbandonato quale riserva di valore era pari a zero, oggi è sicuramente cresciuta.

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