Coronavirus, il dovere civile di riaprire le aziende italiane
Come scrive il Sole 24 Ore, la nostra generazione è cresciuta con vari dogmi e uno dei principali è sempre stato quello del senso del dovere, di cosa fosse più giusto fare e più che per noi come singoli, cosa fare per la collettività, per il prossimo, per il bene generale. In queste giornate, qualunque imprenditore non può non mettere in discussione il suo dovere primario che, sintetizzando, oscilla tra la protezione massima dei lavoratori e la ripresa del lavoro per riavviare una macchina produttiva che abbiamo dovuto bloccare, all’improvviso. Senza scomodare la Costituzione nè brutalizzare il confronto tra il pericolo del contagio e il rischio di morire di fame, è pertanto necessario riflettere con grande profondità su quello che si potrà - e dovrà - fare nei prossimi giorni.
L’Italia, pur con le logiche vischiosità di questi momenti, sta dimostrando che non solo si sa muovere, ma si sa attivare con prontezza ed efficacia tanto da riuscire a fare cose eccezionali, inconcepibili fino a pochi giorni fa. Non a caso oggi tutto il mondo guarda a noi, prende spunti e capitalizza sulle nostre curve, di esperienza e non. Però si deve guardare più in là, a cosa fare - e quando - se le curve dei contagi continueranno ad appiattirsi, a come impostare singole attività per preservare la salute di tutti, ma a non rischiare di esagerare nelle tutele - o nelle prudenze - al punto di compromettere strutturalmente certe attività produttive.
L’economia italiana è notoriamente molto fragile, cresce da anni assai meno di quelle degli altri paesi industrializzati, è caratterizzata da una produttività in calo costante, è estremamente frammentata in moltissime medie ma più che altro piccole aziende. Il colpo di queste settimane rischia di essere esiziale, definitivo, nel distruggerla. Senza essere dei tecnici sappiamo ormai tutti che l’interruzione di certe filiere può dimostrarsi disastrosa e che la mancanza di pagamenti da parte dei clienti può dare il colpo finale al già sottile capitale circolante di ogni operatore. Ma il cuore di ogni impresa, cioè il singolo lavoratore, ad oggi non sa se sarà pagato dal proprio datore di lavoro, dallo Stato tramite la cassa integrazione o in altre forme e, più che altro, quale che sia la forma, non sa in che tempi lo stipendio potrà essere sul suo conto corrente.
Si sente dire che se anche l’Inps facesse miracoli, i salari di marzo arriveranno a maggio, forse inoltrato. E nel frattempo? Qualche società si sta attrezzando per anticipare i salari di marzo, forse di aprile, ma quante sono e saranno in condizione di farlo quando i clienti stanno già sospendendo i pagamenti? E tutti i quadri ed i dirigenti che non hanno tali tutele? E le tanto invocate partite Iva, gli artigiani? Vogliamo aspettare ancora prima di preoccuparci seriamente di loro? In parallelo le imprese si erano organizzate già prima delle chiusure obbligatorie: mascherine, guanti, distanze minime, riorganizzazione dei reparti. Un imprenditore tessile mi diceva ieri di aver fatto addirittura uno stress test con un operaio ogni 50mq, vari turni di lavoro ben distinti e la totale disponibilità a far controllare i processi da tecnici, esperti, anche da rappresentanti del sindacato se volessero esporsi.
Sta pensando di tutto, pur di ricominciare a lavorare e consegnare i prodotti già ordinati dai clienti. Ma qualcuno si è veramente e concretamente domandato che rischi correrebbero le aziende che si sono già organizzate? Credo nessuno. O comunque pochi. Però c’è una paura enorme a dare quel delicatissimo via libera, a dare anche solo una prospettiva, una speranza, delle date. Qualcun altro sosterrà che molte aziende, in quest’Italia da troppi considerata sgangherata, non sarebbero in grado di garantire tali tutele. Ma vogliamo veramente impedire, a tutte le aziende compliant con i dettami delle attuali norme, di ricominciare a produrre? Vogliamo veramente frustrare quella parte del sistema produttivo che non vede l’ora di riaprire i cancelli?
Affrontiamo però il tema anche dal punto di vista più delicato, quello del singolo lavoratore. Tutti gli imprenditori che sto sentendo in questi giorni mi dicono che, più di loro, stanno ricevendo insistenti richieste da parte dei dipendenti per ricominciare a lavorare, con le seguenti principali motivazioni: 1 - abbiamo voglia, piacere e passione di tornare a fare il nostro mestiere per la nostra azienda, abbiamo bisogno dello stipendio e ci fa piacere che ce lo paghi lei, non la cassa integrazione, 2 - sappiamo che l’azienda ci ha sempre rispettato, pagato, premiato se del caso e sarebbe assurdo se, in questa fase così delicata, non facessimo fino in fondo il nostro dovere, 3 - sappiamo benissimo che, a parte le tutele che l’azienda ha già messo in atto e continuerà a portare avanti, la parte più fragile degli esposti al rischio di contagio ormai non entra più in azienda, perché è già in pensione. Queste testimonianze a mio avviso tagliano la testa a tutti i tori.
Non solo, ma per ovviare all’eventuale problema delle aziende non in regola con i nuovi canoni di sicurezza, si può sempre demandare sia il calendario che le condizioni tecniche di riapertura alle regioni o ai comuni, caso per caso, se servisse. Con una chiara responsabilizzazione degli enti locali. O di qualche autorità specifica. Ma chi è a posto deve poter tornare a produrre, al massimo dopo Pasqua. Utopia? Forse. Se però su questo tema i massimi vertici di sindacati ed imprese dessero una concreta dimostrazione di allineamento di vedute, se si facessero vedere finalmente uniti di fronte sia al governo che a quelle opposizioni che stanno, in modo così meschino, cercando di intorbidire le acque, non darebbero una dimostrazione di grande serietà? Non mostrerebbero vera consapevolezza della gravità della situazione e più che altro volontà effettiva di risolvere uno dei principali problemi che oggi abbiamo? Per fare cose simili peraltro non c’è bisogno dell’ok taumaturgico della Signora Merkel né dell’elicottero di qualche banchiere centrale.
Anzi, si potrebbe far vedere anche a loro che talvolta riusciamo a fare sistema. E potrebbe anche essere un ulteriore modo per dimostrare al Capo dello Stato, che già ha autorevolmente richiamato al senso del dovere sia alcune autorità europee, sia le attuali opposizioni, che l’Italia produttiva è ben coesa ed è pronta ad affrontare questa terribile crisi nel modo più proattivo possibile. Di recente abbiamo tutti parlato tanto, forse anche troppo, di sostenibilità; non pensiamo che la prima cosa da preservare sia la sostenibilità della sostenibilità? Abbiamo poi riempito pagine e pagine, di bilanci e prospetti, per dissertare sui rischi, anche potenziali, di un’impresa: ci si rende conto che se lavoratori ed imprese non si muovono il rischio vero è che l’intero sistema industriale si dissolva?
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